LA FATA, LA POLARIZZAZIONE EMOTIVA, IL GIORNALISMO. E GLI AUGURI.

C’è un racconto, L’Isola della fata, che Edgar Allan Poe scrive nel 1841, dove il narratore si sdraia sotto un albero e si accorge che il ruscello davanti a lui devia il suo corso per trasformarsi in una piccola cascata color porpora, e forma un laghetto, e al centro del laghetto c’è un’isola. Da una parte fiorita e rigogliosa, dall’altra buia e aspra, fitta di erbacce e piante morenti.  Una piccola barca fa il giro dell’isola: la guida una fata. Ma a ogni giro della barca la fata sembra più debole, più esangue, specie quando la barca passa nella zona buia dell’isola. Dopo tre giri, la barca e la fata scompaiono per sempre.
Cosa si fa per impedirlo? Naturalmente non lo so. Quel che so è che si può sempre provare a raccontare cosa sta accadendo all’isola e alla fata, e magari agitare un fazzoletto per dirle fermati, cambia direzione alla barca.
Altrettanto naturalmente si può non fare nulla di tutto questo, starsene belli imbozzolati a farsi i libri propri, o comunque i propri affaracci, e in effetti se ne guadagna in salute, e in effetti esistono blog letterari che, come detto altre volte, vivono di questo: parlo bene di tutti e non ho neanche un odiatore, uh.
Diciamo che nel fuggente 2019 non l’ho fatto e non lo farò neanche nel 2020: ma non perché abbia chissà quale coraggio o perché pretenda di parlare a nome di qualcuno, come con ossessionata ciclicità mi si accusa. Parlo a nome mio, sempre e comunque: e certamente mi assumo la responsabilità di quel che dico o scrivo.
A volte parlo insieme a qualcuno. Con Massimiliano Coccia di Radio Radicale, per esempio, ci siamo scritti, con stupore e angoscia, dopo la copertura giornalistica della morte di due ragazze romane, e infine abbiamo provato, stiamo provando anzi, ad aprire una discussione sulle parole del giornalismo. La nostra lettera aperta è sul Manifesto di sabato 28 dicembre.
Succede solo da noi? No, affatto. Sul New York Times del 26 dicembre David Brooks ha pubblicato un articolo dove, in breve, dice questo: il giornalismo, fin qui, ha raccontato e racconta i fatti. Internet ha accelerato il ciclo di vita delle notizie, dunque oggi ci concentriamo sull’ultimo fatto accaduto. Ma i fatti non guidano più la politica: non lo hanno fatto, negli Stati Uniti, l’impeachment o le audizioni di Kavanaugh.  Dunque?
Dunque, dice Brooks, un fatto è due cose, è il fatto stesso e il meccanismo con cui gli attribuisci un significato.  Come diceva Aldous Huxley, “L’esperienza non è ciò che ti accade, è ciò che fai con ciò che ti accade.” Da ultimo, quel meccanismo è diventato più importante del fatto. Dunque dobbiamo interrogarci. “Come vede l’udienza per l’impeachment un uomo dell’Idaho che ha perso un figlio per suicidio?” Puoi influenzare il modo di vedere di un altro solo scrivendo o parlando o devi immergerti in una realtà diversa? Dunque, dal punto di vista del giornalista, devi organizzare il tuo stesso lavoro in un altro modo, chiedendoti come la disparità di potere influisce sullo sguardo delle persone, perché infine non siamo così lontani. Lontano è il modo con cui guardiamo ai fatti. “La polarizzazione ideologica non è in aumento, la polarizzazione emotiva è in aumento”. Capirlo, dice Brooks, è una magnifica opportunità per ripensare il lavoro giornalistico in modo più approfondito.
Ma non vale solo per il giornalismo. Dovrebbe valere per ognuno di noi, chi scrive per prima, come sempre.
Dunque, commentarium, è questo l’augurio per il 2020: provare a interrogarci sul nostro punto di vista e sulle “polarizzazioni emotive” che abbiamo vissuto e che viviamo. Sembro Rob Brezsny, mi rendo conto: ma siate pazienti. Sono nata in un’altra epoca: anche se ho tutta l’intenzione di capire meglio questa, care e cari, sappiatelo.
E buon anno.

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