Come tutti, ho letto, con sgomento, del doppio funerale. Lei vittima di femminicidio, lui l’assassino. Ho letto delle rose che coprivano le bare affiancate, ho letto di quel “celebriamo l’amore” pronunciato dal parroco, ho letto di quell’imputare le colpe alla “società malata”. E mi sono chiesta, non per la prima volta, che significato diamo alla parola amore.
Sono passati molti anni, dodici per l’esattezza, da quando Michela Murgia e io ne ragionammo in L’ho uccisa perché l’amavo.
Io raccontai questo:
“E’ ancora una volta estate, gli inizi di luglio del 2006. Francesca Baleani ha all’epoca trentasette anni. Ha un buon lavoro, una bella casa, molti amici: il suo ex marito, Bruno Carletti, è direttore artistico dell’Arena Sferisterio a Macerata, dove si svolge il clou della stagione lirica e dove la bella e buona gente della regione si dà convegno tra un prosecco e una Carmen. Il 4 luglio la stagione non è ancora cominciata (ci sarà Turandot, quell’anno, icona della donna fatalissima e crudele da redimere con l’amore) , e Bruno suona il campanello dell’ex moglie con un vassoio di paste in una mano e un bastone nell’altra. La aggredisce. La picchia. Le stringe il collo con le mani. Le lega i polsi. Le avvolge la testa con un asciugamano. La chiude in una custodia per abiti. La carica in macchina, mette in moto e guida per tre chilometri, fino ad arrivare in campagna: inchioda davanti a un cassonetto nell’immondizia, ci scaraventa dentro Francesca e torna a casa per farsi la doccia. Ha, in effetti, una riunione. Francesca, salvata da un passante che ne ascolta i gemiti, viene ricoverata in fin di vita: passerà ventitre giorni in coma farmacologico con lesioni interne (cuore al 32% di attività per schiacciamento del miocardio, fegato e milza lesionati, edema polmonare), ipossia cerebrale, danni al sistema neurologico e sospetta paralisi dei quattro arti. “Non volevo farle del male. Forse sono troppo stressato in questo periodo”, dirà Carletti, che viene arrestato e poi mandato in una comunità di recupero. Il cui responsabile, padre Igino Ciabattoni, dirà al Resto del Carlino che Francesca “non troverà più un uomo che possa amarla così tanto”. Perché quell’assassinio, infine, fu “un atto d’amore, cieco come la morte”.
Lei scrisse questo:
“Cosa si intende sui giornali e nel parlare comune quando si afferma che gli uomini uccidono per amore? In cronaca nera non va mai a finirci il racconto dell’amore come sentimento generoso che opera per il bene della persona amata, perchè quel sentimento non conduce al delitto. Piace però a molti pensare che l’amore abbia anche una faccia oscura, viscerale e sfrenata, parente più dell’istinto che del sentimento, che non ammette rivali né dinieghi e che non può essere dominata dalla ragione. Quella faccia dell’anima certamente esiste, ma non si chiama amore.
(…) Chiamare relazione il dominio della vita della partner, chiamare gelosia l’ansia del controllo perso e soprattutto chiamare amore il rifiuto violento di accettare la libertà dell’altra persona è un’insopportabile manipolazione del significato reale delle parole. Esiste una grande corresponsabilità nel perpetuarsi delle violenze in chi continua a descrivere gli uomini come degli Incredibili Hulk a cui nulla può essere negato di quello che si aspettano, se non si vuole assistere alla loro trasformazione in incontrollabili distruttori. C’è una responsabilità anche nel centellinare alla donna uccisa il nome proprio e continuare a definirla come la moglie, la compagna, la fidanzata o ex del suo assassino. Le donne sono persone, non funzioni; chi ti uccide non lo fa perchè ti ama, ma perché non riesce a concepirti fuori dalla tua funzione. Il fatto che tu voglia provare a farlo scatena odio, non amore”.
E allora, perché? Non entro evidentemente nella scelta di quel doppio funerale: entro nella scelta di raccontarlo pubblicamente, perché se la scelta è stata privata, in quanto voluta dai figli, privata doveva rimanere secondo me, e non dovevamo vedere quelle due bare affiancate e sentir pronunciare la parola amore.
Amore.
Perché è strano sentire questa parola quando leggiamo di una nave con aiuti umanitari e latte in polvere per i neonati abbordata, e l’equipaggio sequestrato, e noi ce ne stiamo qui, a masticare quelle tre sillabe senza sapere a chi rivolgerle. E’ strano quando leggiamo dei settecento marines mandati da Trump in California. E’ strano quando i giornali alternano le notizie sui morti a Gaza e quelle sullo chef che raccomanda il digiuno perché così il cervello “va a 500 all’ora”.
E ti chiedi cosa ce ne facciamo di un cervello a 500 all’ora quando non siamo in grado di comprendere le emozioni, di farle durare, di trasformarle in qualcosa che sia minimamente positivo.
A prestare attenzione, come diceva David Foster Wallace agli studenti, vent’anni fa.
“Se siete automaticamente certi di sapere cosa sia la realtà e chi e che cosa siano davvero importanti – se volete operare in modalità predefinita – allora anche voi, come me, probabilmente trascurerete tutte le eventualità che non siano inutili o fastidiose. Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V maiuscola è che riuscirete a decidere come cercare di vederla. Questa, a mio avviso, è la libertà che viene dalla vera cultura, dall’aver imparato a non essere disadattati; riuscire a decidere consapevolmente che cosa importa e che cosa no”.