Come tutti, ho letto, con sgomento, del doppio funerale. Lei vittima di femminicidio, lui l’assassino. Ho letto delle rose che coprivano le bare affiancate, ho letto di quel “celebriamo l’amore” pronunciato dal parroco, ho letto di quell’imputare le colpe alla “società malata”. E mi sono chiesta, non per la prima volta, che significato diamo alla parola amore.
Non entro evidentemente nella scelta di quel doppio funerale: entro nella scelta di raccontarlo pubblicamente, perché se la scelta è stata privata, in quanto voluta dai figli, privata doveva rimanere secondo me, e non dovevamo vedere quelle due bare affiancate e sentir pronunciare la parola amore.
Amore.
Perché è strano sentire questa parola quando leggiamo di una nave con aiuti umanitari e latte in polvere per i neonati abbordata, e l’equipaggio sequestrato, e noi ce ne stiamo qui, a masticare quelle tre sillabe senza sapere a chi rivolgerle. E’ strano quando leggiamo dei settecento marines mandati da Trump in California. E’ strano quando i giornali alternano le notizie sui morti a Gaza e quelle sullo chef che raccomanda il digiuno perché così il cervello “va a 500 all’ora”.
E ti chiedi cosa ce ne facciamo di un cervello a 500 all’ora quando non siamo in grado di comprendere le emozioni, di farle durare, di trasformarle in qualcosa che sia minimamente positivo.
A prestare attenzione, come diceva David Foster Wallace agli studenti, vent’anni fa.
“Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose.”