LE RONDINI DI HELENA

Su Repubblica, Roberto Saviano recensisce “Le rondini di Montecassino”.
Quando vengo a sapere che Helena Janeczek ha pubblicato un nuovo libro, faccio tutto il possibile per averlo prima che entri in libreria. Ogni uscita di Helena mi ossessiona: l´attesa di avere quelle pagine per le mani diventa urgenza. Da poco è uscito per Guanda Le rondini di Montecassino.
Helena Janeczek è una figlia di Auschwitz. Sua madre si è salvata dai campi di sterminio nazisti, e lei sa che a quel destino di salvezza deve la sua vita, ma anche l´eterno tormento che i figli dei sopravvissuti si portano dentro. Tedesca di nascita, figlia di ebrei polacchi, è in Italia dal 1983, e ha fatto della lingua italiana la sua lingua di scrittrice.
Il suo romanzo racconta di guerra. Anzi di una battaglia: la battaglia di Montecassino, una delle battaglie più feroci di tutti i tempi, definita la Stalingrado d´Italia. Lì si realizzò l´epopea dell´armata polacca al comando del generale Anders che si lasciò decimare sino all´ultimo uomo ma riuscì a far arretrare i nazisti. Quello che non erano riusciti a fare in Polonia, un manipolo di polacchi riuscì a farlo in Italia: respingere i tedeschi. Nelle quattro battaglie di Montecassino morirono più di cinquantamila uomini, furono scaricate 1250 tonnellate di bombe e dalle bocche di fuoco di 754 cannoni uscirono duecentomila proiettili. Gli alleati dovevano sfondare la linea Gustav per arrivare a Roma. E lo fecero con tutta la loro potenza. Senza risparmiare civili, abbazia, animali, case. Nei miei ricordi i cimiteri dei reduci non sono mai spariti. Le lapidi sbiadite dal tempo. Ricordo l´obelisco: «Per la nostra e la vostra libertà noi soldati polacchi demmo l´anima a Dio, i corpi alla terra d´Italia, alla Polonia i cuori”. Cassino dalle mie parti non viene raccontata: viene tramandata. Come la discendenza di sangue. Helena Janeczek scrive un romanzo potentissimo con quella stessa forza tramandata. La sua è una gestazione di storie sconvolgenti. Se si passeggia sulle colline o semplicemente nelle campagne di Montecassino ancora si trovano schegge, granate inesplose, proiettili. Battaglia dimenticata perché lì il volto della guerra ha preso la forma del silenzio dopo gli stupri di massa seguiti alla vittoria francese. Le truppe in campo erano spesso cumuli di gente straniera. Carne da macello delle colonie. Animali feroci da combattimento sguinzagliati tra le greggi. La storia le ricorda come “marocchinate”, la gente del luogo invece le ricorda come violenze di massa a danni di civili innocenti: si stimano 3000 vittime di stupro tra uomini donne e bambine, molti di loro sodomizzati a morte o impalati.
Ma Montecassino è stato anche il luogo dove si è testimoniato l´eroismo dei polacchi. Gente che ha combattuto in un paese estraneo in nome di una libertà collettiva. Marocchini, polacchi, algerini: etnie che tutt´oggi provengono dagli stessi posti e affollano il basso Lazio e il Casertano. Una volta arrivavano qui come soldati, ora arrivano come immigrati. Ed è proprio qui che la Janeczeck apre il sipario degli eventi scrivendo un libro che ti da un sapore mondiale. Dove tutto è connesso e annodato in un perimetro mondiale. Ci raccontano sempre di guerra mondiale ma vediamo solo americani e tedeschi. I fronti erano molti di più e le nazioni coinvolte molte di più.
“Non si può immaginare nulla di vero senza trovare un appiglio in ciò che si ha dentro, ma i disegni incisi nell´anima sono, a modo loro, astratti più di una mappa, impersonali quanto un documento, e io allora non posso fare a meno di figurarmeli a immagine e somiglianza di un moko che confonde nelle sue spire un più recente tatuaggio.” Il romanzo di Helena Janeczeck è questo, un tatuaggio inciso nella pelle non senza dolore. Una mappa che raccoglie i fili di molte storie confluite nell´intrico della battaglia leggendaria ai piedi di un´abbazia distrutta dagli americani per un errore di valutazione. Questo diventa luogo mitico, un punto geografico al centro di una valle scura capace di contenere tutti i luoghi e di lasciar passare tutte le identità possibili.
All´ombra della grande battaglia di Montecassino si incrociano, come in una vertigine, la storia immaginata con quella reale. Si incrociano le vite del sergente texano Jako Wilkins, felice e fiero di servire la propria nazione, di Rapata Sullivan, il giovane maori che segue le orme eroiche del battaglione del nonno, di Edoardo Belinski e Anand Gupta, due studenti romani che nell´ultima estate della loro adolescenza inseguono le tracce deboli di una memoria che in pochi vogliono raccontare. Poi, un passo a lato accanto alla battaglia, Irka Szer, ebrea polacca che fugge ragazzina dal ghetto ma si ritrova in Siberia con la sola protezione del suo violino abbracciato forte contro la violenza invincibile del lager. E Milek Steinwurzel, sceso in Italia con le truppe del generale Andres, e morto a Milano senza lasciare dietro si sé una parola su quegli anni terribili, su come era riuscito a salvarsi. Milek sopravvive nel silenzio. La parola non sempre salva. Non sempre è necessaria. Sempre più spesso è superflua: è ritorno al dolore. Helena Janeczek questo lo sa.
In un suo libro, il primo, Lezioni di tenebra (che non si trova in libreria, inviterei gli editori a rioffrirlo al pubblico: è troppo prezioso per non essere ristampato) è proprio una battaglia con la memoria. Una lotta tra il decidere se ricordare o meno: anestetizzare il male emotivo oppure lasciar fluire tutto, come unica terapia per impedire alla storia di ripetersi, alla tragedia di tornare, al dolore di rinascere.
E questa scrittrice dal nome impronunciabile, dal viso di donna slava, con il passaporto tedesco, l´anima italiana, la memoria polacca, il figlio napoletano e la residenza lombarda fa del suo mondo e del suo passato una placenta dove si formano storie di individui che non si possono dimenticare. La bellezza di questo romanzo risiede nella struttura, nel coincidere degli opposti: il caos della battaglia coi silenzi dei vinti, la normalità con l´eroismo degli ultimi, la cura della memoria e l´irruenza delle nuove generazioni, il passato inanellato indissolubilmente col presente.
Sono tutte storie singolari, in qualche modo minori, quelle che Helena Janeczek racconta, eppure in ognuna il respiro e il battito del cuore è quello del coraggio e della generosità di chi si trova nei minuti decisivi della propria vita a scegliere tra il bene e il male nel frastuono della battaglia. Ed è anche la storia di chi si fa carico di questa scelta, di chi si trova molti anni dopo a fare i conti con una memoria di cui sa poco o nulla, perché in molti sono rimasti sommersi e i salvati non parlano. È una storia che si costruisce passo passo attraverso documenti falsificati per poter fuggire e le testimonianze brucianti raccolte senza fare domande, atterriti davanti all´enormità del ricordo. Quanto conta la verità dei fatti? Molto sembra, perché la ricerca dell´autrice è scrupolosa e maniacale al punto da suscitare nelle persone interrogate una do-manda spontanea: “Ma tu sei uno storico o stai scrivendo un romanzo?”.
Dalle prime pagine il racconto si mescola con la menzogna, con l´invenzione. L´autrice sale su un taxi e per evitare le domande indiscrete del guidatore racconta di avere un cognome polacco e una madre italiana. Immagina di confessare che suo padre è stato soldato nella battaglia di Montecassino, tra le truppe del generale Andres. Ma immagina appunto tutto questo, non lo dice, e poi suo padre non ha mai combattuto a Montecassino. O forse sì? La sua immagine si confonde con quella dell´amico di una vita, quel Milek Steinwurzel che invece soldato lo era stato per davvero, le loro identità si sovrappongono in un gioco di specchi dove il giusto, il dato obiettivo, non sta mai da una parte sola, non è afferrabile perché i testimoni sono reticenti e la verità assume il tono della diceria inverificabile. Ma la verità non è l´elemento indispensabile in questa storia. La forza grandiosa e potente di queste pagine viene interamente da un gesto che è un azzardo, un atto di fiducia verso il potere dell´immaginazione di riempire un vuoto. Il tentativo di tendere un filo tra vero e falso, realtà e finzione, su cui far correre quel confine labile che a volte separa la vita dalla morte. Fa questo Helena Janeczeck. E lo fa con una maestria da scrittrice vera. Lo fa portando con sé la consapevolezza del piacere narrativo e il sapore del racconto tramandato col sangue, ancora prima che con le parole. Quando si arriva alla fine di questo romanzo, ci si sente addosso il torpore della battaglia, come se la polvere delle macerie della guerra fosse composta dalle molteplici schegge dei nostri conflitti quotidiani. E Montecassino diviene la guerra di tutti, il luogo da cui tutti veniamo.

35 pensieri su “LE RONDINI DI HELENA

  1. Sto finendo di leggerlo. Giusto l’accento posto da Saviano sulla domanda ricorrente che l’autrice narrante si pone: romanzo o cronaca storica? Perché in effetti Le Rondini di Montecassino è un potente oggetto narrativo a metà tra il romanzo e la ricostruzione storica documentale. Biografie reali si intrecciano a quelle di personaggi contemporanei immaginari ma verosimili. Il rischio in questi casi è sempre lo stesso: i personaggi desunti dalle cronache risultano inevitabilmente più forti di quelli immaginati; le storie del passato si stagliano sulla pagina in maniera più nitida e forte di quelle contemporanee. Credo che valga anche per il libro della Janeczeck, davanti al quale nondimeno mi tolgo il cappello. Il libro ci parla di quanta storia ha attraversato l’Italia senza essere registrata o celebrata dalle cronache ufficiali, ma restando magari nella memoria viva o nel rimosso collettivo (perfino in un paradossale “rimosso monumentale”). Dalla Nuova Zelanda alla Polonia, dalla Siberia alla Palestina, la globalizzazione ante litteram provocata dalla guerra mondiale ci viene raccontata e viene riconnessa al presente. La sensazione forte che ho alla fine è che la storia, quella storia e quelle storie, siano ancora tutte qui.

  2. Comprerò sicuramente questo libro, che si annuncia appassionante sia nel tema che nel modo in cui è raccontato: anche dalle mie parti (Emilia Romagna) la presenza delle truppe polacche fu importante, durante e dopo la Liberazione. Da noi e nelle Marche i polacchi si fermarono a lungo dopo la fine della Guerra, non potendo rimpatriare per via dell’invasione sovietica del loro Paese.
    La conflittualità tra emiliani e polacchi crebbe nel tempo per via di episodi di delinquenza che alimentarono i pregiudizi nei loro confronti; ma fu anche forte fin da subito la discrepanza politica (opposte “visioni” sui sovietici), com’è esemplificato da questo episodio, l’ingresso di un’armata polacca a Imola nel ’45, raccontato da un testimone oculare:
    “…Era il corpo polacco dell’ottava armata comandata dal generale polacco Wladislaw Anders (…) Prima che la testa della colonna arrivasse sul ponte, i capi partigiani, si misero in mezzo alla strada sventolando la bandiera rossa davanti al primo gippone che si fermò . Il più alto in grado era un maggiore polacco sui 30 anni che si chiamava Cocanoski. Fece il saluto militare e senza dire una parola strappò dalle mani del capo partigiano la bandiera rossa e la sbattè per terra. – Per noi polacchi questa bandiera essere come quella di Hitler – I partigiani consultarono con lo sguardo il commissario politico che stava in disparte e che annuì come per dire di lasciar perdere. I vincitori erano loro.”
    (l’avevo copiato tempo fa insieme ad altre informazioni dal sito dell’Istituto Beni Culturali dell’Emilia Romagna, ma ora non c’è più).

  3. Lo sto leggendo ora, per via del gentile consiglio di Biondillo (“buttate quello che stae leggendo e compratelo!”), e soprattutto perchè ho letto e condiviso gli interventi di Helena su NI, che ha argomentato alla grande – lei, editor mondadori – sulla faccenda responsabilità e libertà sotto B., guadagnandosi un credito di stima che la prova del romanzo per ora lascia intatto. In più ammiro chi si azzarda a scrivere in una lingua con cui non è proprio nato.
    Ricordo male o è stata lei l’editor di Gomorra? per una volta, uno “scambio di favori” che non mi dà fastidio. Le auguro grosse soddisfazioni

  4. certo, stavo scherzando, per carità: l’ammirazione sembra sincera. e fra l’altro la condivido, per quello che ho letto finora

  5. anche dalle mie parti, la ciociaria, la storia di montecassino si tramanda, non si racconta. ed è storia di stupri e di violenze, per cui la parola ‘liberazione’ da quelle parti si macchia di molte ambiguità.
    per questo leggerò sicuramente il libro, per questo e perché apprezzo molto HJ che leggo sempre su NI. quello che provo nei suoi confronti, per essere precisa, è stima. lo dico perché è un sentimento che non mi capita di provare spesso di questi tempi.
    mi aggrego alla puntualizzazione di Loredana. cerchiamo di liberarci da queste colonizzazioni mentali, anche semantiche, sennò finiremo per assomigliare tutti ai vari sogghignanti belpietro, che la sanno lunga loro sul genere umano (sorattutto se di sinistra), ah se la sanno lumga…

  6. (Nessuno mi aveva mai accostato al ghigno di Belpietro, mi sento male. Potrei uccidermi per molto meno. Le virgolette su “scambio di favori” volevano intendere proprio il rovesciamento del senso letterale, tutto negativo, di quell’espressione antipatica – rovesciamento che non si intende, evidentemente. Vado a controllarmi allo specchio, spero di riconoscermi. Scusate l’OT)

  7. Un libro magnifico per concezione e realizzazione. Un libro importante. Merita ogni singola pagina, ma alcune parti meritano in particolare: per esempio è straordnaria la sezione dedicata all’importazione dei cervi in Nuova Zelanda, che muove da un dettaglio apparentemente casuale come l’incontro con una confezione di carne di cervo al supermercato, e da lì risale all’indietro costruendo una analisi illuminante della storia mentale della colonizzazione inglese (o di ogni colonizzazione). Tutto questo dopo le pagine commoventi dedicate alla storia del battaglione maori, e di come il giovane Rapata Sullivan torni sulle tracce del nonno nei luoghi del combattimento. Helena esce dalla storia narrata, e costruisce un percorso a margine, nato dai materiali documentari studiati per costruire il capitolo appena letto.
    Un’altra pagina magnifica è quella che riguarda la distruzione dell’abbazia di Montecassino, e lo scontro di mentalità tra vecchi e nuovi generali, tra vecchie e nuove concezioni della guerra. Una pagina da leggere con il pensiero rivolto alla strage mediaticamente impostata delle Twin Towers, che là trova quasi un impensabile antesignano.

  8. scusami tu, Uno. scrivo lentissimamente con la destra per essermi fratturato il polso destro, in più mentre scrivevo ho ricevuto una telefonata e, quindi, ho dato l’invio senza leggere la tua risposta. ma soprattutto mi sono incarognita a leggere la stampa di destra. vedo belpietri da per tutto. scusatemi tutti, anche per l’O.T.

  9. E’ molto bello, l’ho letto un mesetto fa. Ma secondo me Biondillo non l’ha letto. Spara sempre questi slogan che possono andar bene per qualsiasi libro. Boh.

  10. La trama del libro della Janeczeck è interessante, non c’è dubbio.
    Ma vogliamo parlare della recensione…
    Faccio una premessa.
    Saviano non mi sta antipatico. Anche se sono italiano – e scrivo – gli perdono il successo. Gomorra non mi è piaciuto molto, ma lo trovo discreto. Credo – a differenza del nostro Re (Dio lo abbia in gloria) – che sia un libro che fa bene all’immagine dell’Italia. E credo che, se le nostre forze dell’ordine e la nostra magistratura fossero messe nella condizione di lavorare al meglio, Gomorra avrebbe potuto offrire un importante contributo alla lotta contro la criminalità organizzata.
    Detto questo. Nessuno trova questa recensione non proprio elegantissima, bisognosa di qualche ritocco?
    Due esempi.
    Quell’immagine iniziale di Saviano che fa un volo d’angelo per afferrare una copia del libro della Janeczek prima che entri (che entri, non che arrivi, proprio così) in libreria, mi ha fatto spavento. Mi sono sinceramente preoccupato per lui. Non potrebbe la signora Janeczek inviargli la bozza del suo prossimo libro o una copia promozionale prima dell’uscita in libreria? Io sarei molto più tranquillo (so che è un escamotage narrativo, ma lo trovo grossolano – anche per una recensione, e poi perché nelle recensioni bisognerebbe essere più grossolani? -, oltreché inutile).
    Secondo esempio.
    “Ed è proprio qui che la Janeczeck apre il sipario degli eventi scrivendo un libro che ti da un sapore mondiale. Dove tutto è connesso e annodato in un perimetro mondiale.”
    Sapore mondiale? Perimetro mondiale? Non si possono proprio sentire. Il concetto ha un senso, ma è già espresso nelle frasi successive. Stavo cercando di spiegare perché è ridicolo usare l’espressione “sapore mondiale” in una recensione, ma poi mi sono detto che è ridicolo spiegare perché è ridicolo.
    In realtà, la recensione nel complesso non è male e desta curiosità, fatta eccezione per un altro paio di uscite infelici: “da scrittrice vera”, “racconto tramandato col sangue” ecc.
    Quindi, in fin dei conti, una buona recensione per un romanzo che promette bene. Ma, per quella che è la mia modestissi-missi-missima opinione, un grande scrittore non scrive così nemmeno la lista della spesa.
    Questo non toglie che se Saviano venisse un po’ meno adulato e un po’ meno insultato, forse, potrebbe diventare un autore di buon livello.
    Capisco l’atmosfera da fine del mondo dei nuovi anni dieci, ma cos’è questa fretta di riconoscere il genio là dove ci sono solo labili tracce (vedi Avallone, Giordano)?
    P.S.
    Mi scuso per un commento tanto lungo che accenna solo al libro della Janeczek, ma anche quelli delle recensioni di qualità e del giusto approccio alla scrittura dei “nuovi” autori sono problemi che meritano un confronto, e questo mi sembrava uno spazio consono.

  11. @Arturo: io invece mi sono scoperta stupita dal coinvolgimento che Saviano è riuscito a innescare in me. Ho sentito quel pezzo scritto con il cuore e con quella sua veemenza partecipativa visibile anche quando è in tv. Che piaccia o meno. Mi sembrava che davvero non potesse arginare l’urgenza-emergenza di parlarne, evitando di raffreddare i toni in favore di una critica più asettica e controllata. Detto questo che lo abbia scritto Saviano o un altro non mi interessa particolarmente, tanto di lui come di altri saprò solo quello che trapela dai media e da terze voci, la mia visione sarà condizionata da un sistema che sta ‘oltre’… mi interessa la spinta emotiva con cui è steso. L’unica cosa che stona è ‘Agenzia Santachiara’, ma è un altro discorso e non mi va di affrontarlo. Tornando al libro di Helena lo comprerò. Per il momento ho grande curiosità.
    Ciao Gianni! 😉

  12. Non voglio assolutamente aprire questo discorso in questo post: ma vorrei solo fare notare che essere rappresentati da un agente, anche per quanto riguarda gli scritti che appaiono su un quotidiano, è cosa più che legittima. Grazie.

  13. Dici che se fosse vivo Pasolini, alla fine dei suoi articoli, ci sarebbe scritto: Published by arrangement with Roberto Santachiara?

  14. Non sono abituata a viaggiare nel passato. Ad ogni modo, fatta la precisazione, pregherei di tornare a discutere del libro di Helena Janeczek e non dell’editore/agente/altro di Roberto Saviano. Grazie.

  15. Senza quella precisazione in calce, Repubblica si terrebbe il copyright degli articoli di Saviano – e dei nostri, perché anche i nostri escono con quella frase – e in quel punto comparirebbe la dicitura “(C) RIPRODUZIONE RISERVATA”, ultima moda nei quotidiani, pensata da qualcuno come geniale furbata anti-web, e invece soltanto inutile e avvilente ammissione di impotenza.
    La precisazione sui diritti significa che la proprietà dell’articolo rimane all’autore, e qualunque riutilizzo editoriale o commerciale va concordato con lui anziché col giornale.
    E state pur sicuri che l’autore non agirà mai contro un blog o un sito perché ha riprodotto un suo pezzo uscito su un giornale. Invece, su quel che faranno in futuro gli uffici legali dei giornali non posso mettere la mano sul fuoco… Questo “Riproduzione riservata” non annuncia nulla di buono.

  16. Ma infatti per me stonare significa non essere in armonia con quelli che dovrebbero essere diritti (il diritto di espressione senza il timore che i contenuti vengano riutilizzati o snaturati da terzi che è di per se assurdo ma si rende evidentemente necessario) assicurati a chiunque. è ancora peggio, da leggere, di riproduzione riservata. Ma si è subito pensato che intendessi dire: che pena queste specifiche e questa questione dell’arrangement. Chiudo lo spiacevole OT. Il fraintendimento sta sempre dietro l’angolo.
    Laura Bosio non solo è un’ottima traduttrice ma anche una brava scrittrice, vero. Riguardo Montecassino: non è una vicenda storica così conosciuta per quanto tramandata con il sangue. Cosa che per altro rende onore a una tradizione orale in odore di oblio. A questo punto attendo il momento della lettura.

  17. @ Carlotta,
    nulla di personale, il chiarimento è sempre d’uopo e non era rivolto a te. Ultimamente questo della dicitura è diventato l’ennesimo assurdo, inconsistente, demenziale appiglio per attaccare Saviano. Già che abbiamo fatto trenta dandogli del venduto e del burattino, facciamo trentuno accusandolo… di avere un agente! Il vento sta cambiando, adesso dall’osanna acritico stiamo passando al crucifige livoroso, anzi al “Diamogli addosso!”

  18. Mi unisco alle parole di Wu Ming 1. Il fraintendimento era necessariamente dietro l’angolo perchè su Facebook, qualche tempo fa, c’era un intero thread dedicato all’agente di Roberto. Meglio chiarirsi, no? 🙂
    Quanto al crucifige, è cosa di queste ore. E, ahimè, va montando.

  19. grazie del chiarimento sulla dicitura, utile per un lettore per niente addentro…
    Approfitto per dire che in effetti Monteccasino forse non era vicenda così nota, per lo meno non lo era a me, pur avendo frequentato un po’ quella storia.
    Colgo al volo il cenno a Saviano: massima solidarietà e stima, e nessuna invidia per la sua vicenda umana. però se vi riferite all’ultima polemica scaturita da Dal Lago (ma forse si intendeva altro, chissà), concordo con lui sull’inopportunità delle icone, e sulla liceità delle critiche (nel merito) – discorso complesso, e di nuovo OT.

  20. OT per OT:
    C’è chi negli ultimi anni, senza aspettare presunti ribelli e nuovi eroi dell’antisavianismo, ha criticato con durezza il culto del Saviano-simbolo e la facile voglia di icone, senza però mai trascinare in una demolizione da (finti) bastiancontrari la persona e, soprattutto, il libro. La “critica”, come vuole anche l’etimo, deve sempre “tagliare”, separare, discernere, distinguere. Ad esempio, io credo di avere scritto parole molto chiare l’anno scorso (paragrafi 2,4 e 5):
    http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/Wu_Ming_Tiziano_Scarpa_Face_Off.pdf
    Riprese poi da tutto il mio collettivo in un post di qualche tempo fa su Giap (la parte dopo i tre asterischi):
    http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=157
    .
    A distinguere quella mia analisi da altre più recenti è che io, nel criticare il dispositivo che “blocca” Saviano e lo riproduce come soggetto non libero, non mi sono mai sognato di attaccare Saviano come persona chiamandolo “burattino”, “eroe di carta”, “narcisista”, “manovrato”, “furbetto”;
    non ho mai detto che il libro è una truffa, una merda, un diversivo o una favoletta;
    non ho fatto questioni di lana caprina su grammatica e sintassi (es. sprecare inchiostro per dileggiare l’espressione “erezione pendula”);
    non ho mai “fatto il finocchio col culo degli altri” lanciando frecciatine sulla scorta di Saviano o sull’effettivo pericolo che corre;
    non ho mai fatto illazioni odiose su Saviano che “fa il gioco” di questo e di quello, è “funzionale” a questo o quel potere, è “manovrato” da questo o quel padrone etc.
    Tutte cose che, con diverse gradazioni, troviamo invece nelle prese di posizioni accademiche e musicali degli ultimi giorni.
    In ogni caso, non siamo andati un centimetro oltre quello che scriveva quasi due anni fa Girolamo De Michele su Carmilla, in risposta ad alcune prime bouta(na)des:
    http://www.carmillaonline.com/archives/2008/11/002859.html
    .
    Purtroppo in Italia una medaglietta da “intellettuale controcorrente” non si nega a nessuno. E’ facilissimo e costa davvero poco mostrare un “conformismo dell’anticonformismo”, atteggiarsi da “scomodo”, buttarla intenzionalmente in vacca e poi, dopo le risposte comprensibilmente (e inevitabilmente) dure, lagnarsi che non c’è diritto di critica, appellarsi alla libertà, contro chi non fa parlare etc. E’ un copione ripetuto fino al vomito. Come scriveva stamattina Wu Ming 2, soltanto in apparenza a proposito di altro:
    “Oggi si prende il discorso rozzo per discorso verace, la reazione de panza per chiarezza mentale, il vaffanculo per rivoluzione.”
    Qualche tempo fa, a un appuntamento letterar-mondano della capitale, un piccolo editore de super-sinistra è stato visto fregarsi le mani soddisfatto e, con grande allegria, dire in giro: “Vedrete, vedrete cosa abbiamo pronto… Adesso gliela facciamo vedere noi, a Saviano!”
    Questa per me è miseria umana, e quel signore è un uomo di merda. Punto.
    In Emilia diciamo: “Piò che cumpagn, ien cumpagn a ch’ietar” [Più che compagni, sono uguali agli altri]

  21. Rispetto a Montecassino io credo che uno dei punti di forza della storia raccontata dalla Janeczek stia proprio nel restituire la “mondialità” del contributo bellico. L’appennino Tosco-Emiliano-Romagnolo è costellato di cimiteri del Commonwealth, americani e polacchi. Sappiamo che alla lotta contro i nazi-fascisti in Italia hanno partecipato contingenti di ogni angolo del globo, eppure molto raramente tale contributo è stato rappresentato dalla narrativa o dal cinema. Del resto, prima che Peter Weir girasse “Gli anni spezzati – Gallipoli”, poco o niente era stato raccontato sull’analogo contributo di sangue versato dalle truppe coloniali nella guerra mondiale precedente.
    La retorica dei liberatori – e in parte anche dei liberati – si è concentrata, per ovvie ragioni politiche, sullo sforzo anglo-americano e sovietico. Ma i cimiteri parlano chiaro. Nel mio primo intervento in questo thread ho usato l’espressione “rimosso monumentale”, perché sembra assurdo che si costruiscano cimiteri militari per poi dimenticarsene. Alle porte di Bologna, la città in cui vivo, c’è un grande cimitero di guerra polacco, ma se uno non fa mente locale è un po’ come se non ci fosse (mentre il sacrario dei caduti partigiani è in Piazza Maggiore ed è, giustamente, ineludibile). Ricordo che molti anni fa mi trovai per caso in un paese sul crinale appenninico, Castiglione dei Pepoli, e mi imbattei in un cimitero di guerra Sudafricano, che contiene ben 500 tombe. Chi l’avrebbe mai detto? Mi sono ricordato di quanto la cosa allora mi avesse colpito proprio mentre leggevo Le Rondini di Montecassino. Ecco i cimiteri dei “coloniali” sono un po’ nascosti, sperduti sui monti, o in periferia. Non può essere casuale.
    Vorrei inoltre aggiungere qualcosa sulla torsione finale del romanzo, senza “spoilerare”. Alla fine il romanzo della Janeczek diventa una riflessione sul rapporto col padre, con i padri, combattenti e non, e con la memoria che hanno voluto o non voluto tramandarci. E’ appunto una torsione repentina, quasi una brusca epifania, che però manda a posto tutte le caselle del quadro in un colpo solo e rivela il vero tema del romanzo, per altro preannunciato all’inzio, in quella sorta di prologo che si intitola, non a caso, “Prima della battaglia”. La dedica è “A mio padre e a mio figlio”. Due figure maschili, in mezzo alle quali si colloca una donna, l’autrice e, ovviamente, la sua alter ego narrativa, la detective che ricompone e ripercorre i sentieri che dal resto del mondo conducono a Montecassino e ritorno.
    Su tutto questo sto ancora rimuginando, ma è davvero un romanzo miniera.
    La polemica su Saviano invece no: è solo l’ennesima cartina al tornasole della miseria dell’intellettualità sinistrorsa nostrana.

  22. Sto leggendo il libro, e devo ancora affrontare l’ultima parte, però due cose credo di poterle già dire. Anche a me pare molto interessante e importante dai punti di vista già evocati (“restituire la “mondialità” del contributo bellico ” seguendo le vicende di soldati provenienti dai vari angoli del globo ecc.)…
    Ma allo stesso tempo, dal punto di vista “tecnico”, non posso fare a meno di trovare questa prima metà del libro un po’ deludente nella componente romanzesca. Citando WM4: “i personaggi desunti dalle cronache risultano inevitabilmente più forti di quelli immaginati; le storie del passato si stagliano sulla pagina in maniera più nitida e forte di quelle contemporanee. ” Insomma il soldato texano, il giovane maori (sono arrivata qui) mi suonano un po’ troppo espedienti narrativi piuttosto che personaggi “viventi”, con lo scarso coinvolgimento che questo (nel mio caso) comporta. In certi punti il trattamento del materiale storico quasi mi infastidisce, mi fa rimpiangere un suo uso più schietto: per esempio, le lunghe cronache belliche sottoforma di dialogo di un reduce col nipote, ma scritte con la fluidità e la proprietà di linguaggio di un libro stampato.
    Dal mio punto di vista queste difficoltà tecniche sono un punto nodale dell'”oggetto ibrido” tra storia e finzione, sarei grata a chi volesse riprendere l’argomento o segnalarmi magari una discussione passata qui o altrove in cui se ne tratta nello specifico.
    PS: tutta la mia solidarietà a Roberto Saviano per gli attacchi meschini e ridicoli che sta subendo in questo periodo.

  23. @ francesca violi: sì, credo che la tua impressione verrà confermata proseguendo nella lettura, in particolare nella parte “contemporanea” che riguarda i due adolescenti, l’italiano di origine polacca e l’indiano. Ciò non toglie, secondo me, che questo sia un libro importante, pieno di spunti, che prova ad affrontare la grande storia di questo Paese e d’Europa da un’angolazione particolare e a restituirci la coralità di un’immane impresa collettiva attraverso storie particolari che rimbalzano da una parte all’altra del mondo e della storia. Sulla difficoltà che segnali, sulla nodalità del rapporto cronaca-fiction negli oggetti narrativi, sono completamentente d’accordo. E’ il punto, ancora più importante quando parte della storia narrata è storia famigliare personale, cioè quando riguarda la presenza di un io narrante. Gomorra docet, tanto per parlar del diavolo ;-). Se non erro, nei link segnalati sopra dal mio socio WM1, riflettevamo anche su questo.

  24. Ho finito il libro. In effetti la parte dei due adolescenti l’ho trovata in linea con la mia prima impressione.
    Invece le due sezioni finali, proprio quelle in cui si sente in modo più forte la voce della narratrice (e dove, presumibilmente, cresce il suo coinvolgimento personale), le ho trovata via via molto più efficaci, come se avessero una marcia diversa. Qui riflessioni, divagazioni, domande, salti temporali, stralci da altri testi, sono presentati in modo più diretto, senza grandi finzioni: oltre a fornire comunque una quantità di spunti di riflessione molto importanti, mi pare che in questo modo la narrazione ne guadagni molto, che diventi più serrata, affascinante e coinvolgente.

  25. Riprendo questo argomento di discussione per parlare del libro. Anch’io lo sto leggendo (sono un po’ oltre la metà).
    Sono d’accordo con WM4 sull’importanza delle storie raccontate, sul fatto che si parli finalmente di eserciti e popolazioni (dopo aver letto la storia di Rapata e dei reduci maori, mi ha fatto uno strano effetto ricordarmi che, in questi mondiali di calcio, Italia e Nuova Zelanda si affronteranno in campo) che, pur avendo dato un contributo enorme alla Liberazione, non sono stati ricordati a dovere dalla vulgata nazionale e internazionale.
    Devo dire, però, che dal punto di vista strettamente narrativo, il libro non mi sta piacendo granché. Come hanno già sottolineato WM4 e Francesca, c’è una differenza evidente tra le parti ambientate durante la battaglia o comunque nel passato e quelle che si svolgono nel presente.
    Alcuni personaggi non hanno un’identità ben definita (Rapata), altri sono perfino irritanti (Edoardo e Anand, perdonatemi, li trovo insopportabili). In genere, dal punto di vista stilistico, la scrittura mi sembra frammentaria, confusa: vedo spesso un dilungarsi su cose inutili e una inspiegabile fretta su altre ben più interessanti, un uso della lingua poco chiaro non per complessità concettuale ma per effettiva confusione nell’elaborazione (strano, perché l’autrice è un’editor, però ho avuto davvero la percezione di un italiano non usato come lingua madre), ma a pesare è soprattutto l’alternarsi di fiction, narrazione in prima persona dell’autrice, racconto storico, che a mio parere non gira in maniera fluida. Problemi, come direbbero i Wu Ming, degli UNO. Ma, tanto per parlare di diavolo e di corna, Saviano, con Gomorra, è stato tutta un’altra cosa.

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