LETTURE DEL VENERDI'

…ma in rete. Per esempio:
"Viene il sospetto conclusivo che i videogiochi siano temuti soprattutto
da chi non ci gioca, e proprio perché non ci gioca. La violenza che si
vede in televisione e la morbosità di certi articoli di giornale – che
sono entrambe presentate come "reali" – dovrebbero essere ben più
dannose, ma dato che i genitori e i ministri leggono i giornali e
guardano la televisione non se ne accorgono".

Stefano Bartezzaghi, qui.

"L’italiano letterario è plasmato da tutt’altra storia e tradizione, e
oggi ristagna nella riproposta farsesca dei suoi tratti peggiori:
invadenza della voce dell’autore, narratori onniscientissimi oppure io
narranti asfittici e "rispecchiamenti" a profusione, ostentazione della
scelta sperimentale etc. Il trombonismo di molti scrittori italici
(anche relativamente giovani) trova nella discrezione leonardiana la
sua antimateria. Un registro che si finge medio, una prosa che
dissimula le scelte estreme che la fondano, un autore che si sottrae…
Siamo poco abituati a scelte del genere, e così corriamo il rischio di
non cogliere la struttura della prosa di Leonard, di non risalire alle
sue scelte, di non capire gli stratagemmi a cui ricorre.
E’ un bel problema: dissimulazione e scomparsa dell’autore devono
funzionare nei confronti del lettore, che così può godersi il libro
senza avere tra le palle chi l’ha scritto e in testa il pensiero della
sua bravura… Ma un traduttore deve saper rintracciare l’autore anche
quando si nasconde. Deve andarlo a cercare nei coni d’ombra della sua
prosa. Deve interrogarlo a distanza sulle decisioni che ha preso, le
scorciatoie che ha imboccato, le trappole che ha escogitato. Soltanto
così potrà renderne lo stile nella nuova lingua. Se il traduttore
scambia il registro duplice di Leonard per registro medio, darà di
quella prosa una versione sciatta e impacciata".

Wu Ming 1 sulle traduzioni (di Elmore Leonard, nel caso), sull’ultimo numero di Nandropausa.

46 pensieri su “LETTURE DEL VENERDI'

  1. “La violenza che si vede in televisione e la morbosità di certi articoli di giornale – che sono entrambe presentate come “reali” – dovrebbero essere ben più dannose…”
    Loredana, mai al mondo mi sarei aspettato che volessi mettere in evidenza il “benaltrismo” (termine coniato da WM1) di Bartezzaghi. Lo avevi sempre trattato coi guanti. Si vede che i tempi cambiano.
    Be’ almeno non hai infierito!

  2. curiosità: quando si parla di “invadenza della voce dell’autore, narratori onniscientissimi oppure…” ecc. ecc., a quali autori italiani ci si riferisce esattamente? lo chiedo perché conosco poco la scena italiana contemporanea. a dire il vero conosco poco anche leonard, vabbè la mia ignoranza è imbarazzante.
    accetto anche risposte private, per motivi che intuisco 😉

  3. Difficile comprendere le derive della nostra lingua, le asperità, le evoluzioni figlie di un maccartismo orchestrato dall’idioma anglosassone che depaupera il contenuto di una lingua miscelandolo sincreticamente con il proprio. Forse la violenza nasce già lì, attraverso una sottomissione linguistica che non prescinde mai da una sottomissione culturale, la violenza non è solo nei termini, ma è anche dei termini.

  4. Eh ben, ragazol… t’an ga rason anca ti! L’è anc purasà difizil capir il deriv d’la nostra lengua fraresa, al sò rassar i urecc, il so involuzion fioli d’un macartisum c’l’è innasià dal idioma italian e c’l’impuvriss al dèntar d’na lengua e al l’immescia col sò. Forsi la viulenza la nass béla da lì, con l’inznuciaras d’la lengua c’la va semp’r insiem a tut un inznuciament cultural, a go infin mal int’i znocc a forza d’inznuciaram! La viulenza la n’è brisa sol int’il parol, l’è anc ‘na viulenza d’il parol. S’a fuss par mi a dru’arev semp’r e sol al frarès, mo a n’è brisa pusìbil, e purtrop an’gh’e brisa abastanza parol parché i a smis d’inventarii, e alora am limit a biastmar in frarés e intant aiò imparà l’italian e l’ingles. Am son rasegnà a vivar sota ocupazion, anc parché a stag a Bulogna, la mié imbrosa l’è ‘na triestina e a go infin di amig chi vien da la Basitalia!

  5. Ah… apprezzo la tua sapida ironia Wu Ming1, non è male…ah…
    Vita agra per me cercare di rispondere a della buona ironia, forse è una battaglia persa in partenza perché dovrei quantomeno rispondere con altrettanto sarcasmo, cercando di non ostentare alcun principio di scazzo eh…la cosa si fa dura, accipicchia. Tu vuoi apparire moderno, aperto, a me vuoi darmi del retrivo, chiuso, antiquato, diciamo ossidato… poi ti appropri di scampoli di lingua del Bianciardi, a questo punto non mi resta che raccogliere il mio gregge di pecorelle e tornarmene in baita, scacco matto! E’ proprio qui il punto, gigioneggiare su alcune riflessioni appioppandogli un’ideologia è un costume da tribuna politica, diciamo che hai cercato un facile consenso, strappare una risatina, anche la mia tra l’altro, poi però…Adesso ti ho dato un po’ di tempo potrai rispondere con più calma, cercando in tutti i modi di piacere perché mi sembra questa la cosa a cui tieni di più, niente di male per carità, to be or not to be that is the question, ser o no ser, esa es la cuestión, être ou pas être, c’est la question.

  6. Non mi spiego la moltiplicazione del mio commento OT, quando l’ho postato ne è apparso uno solo, invece oggi sono TRE 0_o…comunque mi scuso.

  7. Tuta al cuntrari, Paravsin, tut al cuntrari. Ta n’a capì nient. Se prima ad scrivar i cument su un articul un al l’zess dabòn l’articul, forsi al capirev un q’lin ad più e l’an farev brisa dil figureti cumpagn a questa. Agnimod, l’italian al n’è brisa ‘na lengua in via d’estinzion (i al ciacara s’santa miliun ad person), al n’è gnanc ‘na lengua minuritaria e inuzenta. L’emilian-rumagnol invenzi l’è de murir, l’è infin int’al “Libar ros d’il lengg’ in paricul” a cura d’l’UNESCO. Dòncana, cum’ela c’an la smiten ad lamentaras su l’invadenza d’l’ingles c’l’è ‘na gran cazada, e a riserven al dsgust e l’indignazion par i idioma chi’è de murir dabòn e brisa par finta?

  8. Parravicini, per capirci meglio:
    “L’inglese ha una funzione trasglottica e la presenza di una lingua transglottica non ha mai cancellato le altre. Non perdiamoci in inutili allarmismi, proprio mentre il latino s’imponeva come lingua ufficiale da un estremo all’altro d’Europa, si formavano le lingue romanze” (Tullio De Mauro)
    E ancora:
    Intervista a De Mauro sugli anglicismi
    L’italiano tra le cinque lingue più studiate al mondo
    Uso dell’inglese e biodiversità linguistica
    Dopodiché, il tuo commento non c’entrava niente col mio testo. Hai letto uno stralcio, ti sei immaginato il contesto e sei partito per la tangente. A me avrebbe fatto piacere confrontarmi su quel che ho scritto, non su altro.

  9. Credo che l’opportunità del confronto decada nel momento in cui una persona si pone con fare così saccente ma sopratutto sprezzante al massimo grido. L’ironia ha funzionato nel post scritto ieri, in quello di oggi sei un po’ ripetitivo, pare raschiare o se preferisci “ragliare” il fondo del barile. Il confronto esiste fintanto che si parla, ops, si scrive, ponendosi in una condizione paritaria, se uno vuole salire in cattedra per esigenze personali o altro, elucubrando sul fare altrui, ostentando virtù persuasive, esponendo i soprammobili…. per quanto mi riguarda pone fine ad alcuna opportunità di confronto, fa solo show….Del resto vedo che qua e là ti accapigli un po’ con tutti, comunque il mondo è grande, spero che ti dedicherai anche ad altri con lo stesso affetto….. ciao!!!

  10. Parravicini, ricapitoliamo:
    Il Noir in Festival mi chiede un pezzo sul tradurre Elmore Leonard.
    Io mi sforzo di non scrivere un pezzo di routine, ma che faccia capire, attraverso la spiegazione di come lavoro per rendere lo stile di Leonard, tutto l’amore che provo per la lingua italiana, che non solo credo di conoscere a fondo, ma che cerco di vivere fin nei suoi più oscuri substrati.
    La lingua come passione e curiosità è anche una conseguenza del mio essere cresciuto nel dialetto (ma secondo l’UNESCO l’emiliano è una delle venti *lingue* che si parlano nella Penisola italiana), dal mio essere bilingue. Della nostra lingua nazionale e delle sue varianti locali mi affascina un po’ tutto.
    Nel pezzo provo a spiegare come la ricchezza della lingua italiana parlata – la ricchezza della musica quotidiana che gli italofoni eseguono nei più svariati contesti – possa anche aiutare un traduttore a inventare un registro che nell’italiano scritto non esiste: quello di Leonard.
    Io scrivo questa cosa con tutto l’impegno e il sentimento che mi è possibile. La includiamo in Nandropausa. Loredana ne stralcia un pezzetto – che, come tutti gli stralci non è comprensibile a fondo senza il suo contesto – e linka la pagina in modo che chi è interessato possa leggere E POI commentare.
    Ed ecco che arrivi tu: leggi solo lo stralcio, capisci quello che vuoi capire e commenti. In pratica mi accusi di maccartismo linguistico, di corruzione della nostra lingua nazionale, di partecipazione al complotto anglofono per impoverire l’italiano. Cosa che non potrebbe essere più lontana da quel che c’è scritto nel mio testo, dallo spirito con cui l’ho scritto, dall’impostazione che gli ho dato.
    Ora, a parte l’equivoco dovuto ad accidia intellettuale (capirai che sforzo cliccare un link!), questa stanca tiritera sull’italiano in pericolo di morte, schiacciato sotto il tallone di ferro dell’inglese lingua imperiale, io davvero non la sopporto più, perché non ha alcun fondamento. E non lo dico io, che non conto nulla, ma alcuni tra i più illustri linguisti nostrani.
    Si dà il caso che queste filippiche a difesa dell’italiano come presunta lingua-vittima e lingua di minoranza siano figlie della medesima pseudo-cultura umanistica che, attraverso generazioni di maestrini sguinzagliati ai quattro angoli del Belpaese, ha inculcato l’idea che i dialetti andassero abbandonati in quanto zotici, ineleganti, poveri etc. In questo Paese un genocidio linguistico è in corso *davvero* da decenni, l’UNESCO lo ha segnalato più volte, ma nella nostra pseudo-intellighenzia la causa ha poco appeal perché sembra roba da Strapaese o addirittura para-leghista, e si preferisce agitare il falso problema dell’italiano che si estingue.
    L’italiano non è in pericolo: ha sessanta milioni di parlanti linguamadre, qualche altro milione che lo parla come seconda lingua e una moltitudine che lo studia a come lingua straniera.
    Secondo l’UNESCO in Italia si parlano una ventina di lingue principali, una delle quali è l’emiliano, la cui variante ferrarese ho usato per risponderti. E’ diversa dall’italiano ma non meno comprensibile di altre lingue romanze, con un piccolo sforzo. Non ti sarebbe stato difficile capire cosa dicevo in quei due commenti. Dicevo che l’italiano non è una lingua minoritaria e innocente, che non è in pericolo di estinzione, che quella della dittatura dell’inglese è una bubbola.
    Io non mi accapiglio con nessuno: con pazienza cerco di discutere, ancorando sempre quel che dico a una base di dati concreti e documenti verificabili. Non mi piace fare “sparate” alla cazzo di cane.
    Il problema è che, ogni volta che compare il nome “Wu Ming”, c’è chi pensa di poter evitare la fatica di approfondire, capire, confrontarsi con quel che scriviamo/diciamo, e crede di cavarsela con rispostine basate su preconcetti, sovente attribuendoci il contrario della nostra posizione.
    Se io mi permetto di farlo notare, non importa che io lo faccia in modo serafico o sarcastico, ironico o serioso, leggiadro o pesante: la reazione è sempre la stessa, dominata dalla stizza e dal livore. Si accrocchiano due o tre frasette presuntamente risolutive, e si annuncia la volontà di non proseguire il confronto. Confronto peraltro mai iniziato.
    Chiedo formalmente a Loredana di non inserire più nei post stralci da nostri testi, così eviteremo questo genere di situazioni.

  11. “tutto l’amore che provo per la lingua italiana, che non solo credo di conoscere a fondo, ma che cerco di vivere fin nei suoi più oscuri substrati.”
    WM1, sarai il capoccia della subcultura underground, sarai il più avanti di tutti nella fruizione del videogiuco, sarai fichissimo, sarai un calciatore coi fiocchi, però no, questa che tu sei un fine conoscitore della lingua italiana risparmiacela ti prego. Se c’è un problema che affligge i tuoi libri è che sono scritti malissimo, addirittura a me viene da pensare che NON sono scritti in italiano. Sono scritti in una lingua di plastica fastidiosa e poco evocativa. Si potrebbe fare un parallelo tra la tua capacità di usare la lingua italiana e la capacità di illustrare di Buzzati nel Poema a fumetti.

  12. credo che se Wu Ming1 portasse in superficie più spesso il cazzone che è in lui e usasse ogni tanto la seconda persona potrebbe veramente sparigliare le carte in quel gioco da bambini costruito ad arte da chi non ha niente da dire e nemmeno sa come farlo,configurato nell’odierno panorama culturale(be worry,be happy.Don’t quiet)

  13. mi chiedo perchè c si stressi ancora su queste cazzate , le lingue nn muoiono perchè ci sono cospirazioni volte a depauperare il contenuto di una lingua x sottometter culturalmente popoli , nè per l’alacre lavorio di orde di maestrini, ma semplicemente xchè nn le usa più nessuno e vengono studiate solo dai linguisti , cercare di far rivere una lingua per decreto o scrivendo articoli in giro è solo accanimento terapeutico.

  14. Mario, credo tu stia generalizzando una verità parziale. La fai troppo semplice, la tua è una sorta di teoria della mano invisibile, del libero mercato applicato alla lingua: “laissez fair, laissez passer”.
    Le lingue, però, si estinguono anche in seguito a politiche deliberate.
    A volte una lingua muore perché chi la parla subisce una strategia di sterminio (com’è accaduto a tantissime lingue amerindie). Questo è il caso più estremo di aggressione esplicita, ma esistono anche tentativi più “soft” di cancellare una koinè. A volte falliscono, a volte riescono.
    Durante il Ventennio in Istria e Slovenia i maestri punivano gli scolari slavi colti a parlare nelle loro lingue native.
    Il franchismo vietava l’uso di basco e catalano.
    A volte una lingua si perde perché si ha paura di parlarla, come accadde agli italoamericani che durante la seconda guerra mondiale smisero di tramandare ai figli i loro dialetti, per paura di essere identificati come nemici e finire internati come i giapponesi.
    E a volte una lingua si perde perché le istituzioni educative e culturali condizionano chi la parla a provarne vergogna, com’è accaduto per i dialetti di molte parti d’Italia.
    Il processo di selezione delle lingue non è affatto “innocente” e basato su automatismi impersonali.

  15. Invece tu mi sorprendi: pensavo che cogliessi quel bellissimo paragone che ho fatto sopra e che te lo appiccicassi come una medaglia al petto per il resto dell’esistenza. Invece non hai colto.
    La lingua comunque non va bene, nemmeno in Manituana.

  16. Hai ragione , una lingua può essere distrutta uccidendo tutti quelli che la parlano , e i colonizzatori hanno sempre cercato di imporre la propria lingua per togliere la loro identità ai colonizzati ,ma penso che questi siano dei casi ” limite ” e che la maggior parte dei mutamenti linguistici , come quello che a portato l’inglese a essere la lingua di internet , o la decadenza dei dialetti , vengono dalla semplice necessità delle persone di comunicare

  17. Mario, ma ne siamo sicuri?
    Guerre e invasioni (con tutte le loro conseguenze culturali) non sono affatto casi-limite, nella storia umana. Sono l’ordinaria amministrazione. Caso-limite è semmai il sessantennio di relativa pace goduto dall’Europa occidentale dopo il 1945, grazie al fatto che le guerre si combattono altrove e per procura.
    I dialetti (*). Ripeto, c’è verità in quel che dici, ma è una verità parziale che non si può presentare come generale e onnicomprensiva. Le cose non stanno proprio come hai detto tu, i dialetti hanno subito offensive molto esplicite.
    All’inizio degli anni Trenta il Min.Cul.Pop *proibì* i dialetti e addirittura ingiunse ai direttori di giornali di “non pubblicare articoli, poesie o titoli in dialetto” poiché “l’incoraggiamento alla lettura dialettale è in contrasto con le direttive spirituali e politiche del Regime, rigidamente unitario” mentre “il regionalismo e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione sono residui di secoli di divisione e di servitù della vecchia Italia.”
    “Vecchia Italia” – quella liberale post-unitaria – la cui classe intellettuale non aveva certo lesinato sforzi per bistrattare i dialetti.
    * Io sto con l’UNESCO: sono lingue. Non sono varianti locali dell’italiano, sono proprio cose diverse (sull’asse Aosta-Pesaro sono lingue molto più vicine al francese e al provenzale che all’italiano). Sono idiomi “cugini” dell’italiano. Per citare la nota battuta: tendiamo a chiamare “dialetto” una lingua priva di un esercito che la difenda.

  18. Comunque le traduzione che fa Wu Ming di Leonard, a me piacciono di più di quelle degli altri. Io credo che un traduttore debba prendersi una responsabilità del testo. Non credo in quelli che dicono ‘Lasciamo parlare l’autore, il suo testo!’. Il testo in sé, non ha da dire una mazza, è evidente. Un bravo traduttore è quello capace di rendere nella sua lingua quello che chi ha scritto il libro, voleva dire in un’altra.

  19. Se non è troppa saccenza, sulla politica linguistica del fascismo c’è un testo a suo modo strepitoso, pochissimo citato e pressocché misconosciuto, oltretutto fuori catalogo: Gabriella Klein, “La politica linguistica del fascismo”, Mulino, 1986, che descrive analiticamente, provvedimenti e circolari alla mano, il tentativo di “inventare” una lingua italiana attraverso tre pratiche fondamentali:
    1. l’unificazione linguistica mediante la repressione dei dialetti e l’assunzione del carattere normativo dell’insegnamento della lingua italiana
    2. l’assimilazione linguistica delle minoranze
    3. l’esasperazione della xenofobia linguistica attraverso la progressiva espunzione dalla lingua “pura” di termini di origine straniera.
    Il risultato è la surcodificazione della lingua italiana a partire dalla presupposizione di una lingua “maggiore”, il latino, che legittimerebbe come italiane solo quelle parole la cui radice è rintrcciabile nella lingua “madre”. Per chi conosce il concetto deleuzo-guattariano di “lingua minore” il lavoro della Klein è prezioso, perchè ne mostra l’opposto: l’uso normativo della lingua, concepita come veicolo di parole d’ordine e concatenamenti d’enunciazione che si raccordano con gli enunciati performativi (i “decaloghi” del regime) elaborati e diffusi nella società. Ne emerge, in filigrana, il carattere liberatorio, anti-autoritario e non-fascista di tutte quelle pratiche linguistiche che erodono la lingua maggiore e la mettono in costante variazione: dall’uso dei dialetti nel neorealismo (i toscanismi di Pratolini, ad esempio) fino al plurilinguismo di Gadda, per limitarci al passato, fino alle molte forme di mimesis linguistica, esposte o sottotraccia, che arricchiscono nel contemporaneo la lingua italiana.
    (a seguire, un post semi-OT sulla netiquette e sulla sua assenza)

  20. Roberto, il tuo sfogo sui post riportati con seguito nel link è parte di un problema più grande, e purtroppo insolubile per chi non crede nella normatività (ma di tanto in tanto qualche sano banneraggio ci vuole, come l’acido per sgorgare i lavelli) e si rassegna ad accettare, con l’auto-regolamentazione dei dialoganti, gli effetti della mancata assunzione di un’etica della comunicazione in rete (=netiquette). Come direbbero i filosofi analitici, non resta che tracciare una fenomenologia di certi comportamenti. Ne propongo 4, prometto di tornarci su:
    l’argomento del melone col prosciutto: si discute se il formaggio sia da accompagnarsi alle pere, ma compare inevitabilmente qualcuno che afferma che il vero argomento è il prosciutto col melone (corollario: non avere capito niente, meno male che arrivo io);
    l’argomento dei lacci della scarpa: tu stai argomentando della rava e della fava, ma qualcuno ti fa notare che hai le scarpe slacciate, e con le scarpe slacciate non puoi permetterti di parlare né della rava né della fava (lemma: ti sei allacciato le scarpe e vuoi riprendere, ma ti si fa notare che i lacci non sono in tinta con le scarpe);
    l’argomento del lupo e dell’agnello: è un classico, tu ti abbeveri e il lupo dall’alto ecc. ecc., tu gli fai notare che già Fedro ecc. ecc. e lui ti risponde che Enzensberger ha scritto un’ode in difesa dei lupi contro gli agnelli, e mentre tu cerchi di ricordartela e di capire se è OT o no (non lo è, ma fa lo stesso) sei sommerso di contumelie (variante: te la ricordi e la vai a cercare nella tua libreria, ma ti viene fatto divieto di parlare perché il libro che la traduce in italiano è edito da Berlusconi, ecc. ecc.);
    l’argomento “scusa cara ho avuto una giornata pesante”: (variante tipica di chi sublima i desideri sessuali con la rete): stai cercando di lanciare una discussione su Gianni Togni e l’eventuale sfondo nostalgico-politico delle sue metafore, ma qualcuno ti fa presente che solo a seguirti viene il mal di testa, che per certe cose esistono i libri, e insomma la rete deve rimanere luogo di svago, che già adesso ho un mal di tsta che non ti dico, e figurati se ho voglia di seguirti (variante: il mal di testa avanza, l’intera argomentazione di cui sopra viene sintetizzata nell’accusa di saccenza).

  21. Penso che la mazzata finale ai dialetti* sia stata data non dal fascismo o dai maestrini dell ‘ italia liberale , ma da cinema , televisione e radio e dalla migrazione interna ,i dialetti non sono morti perchè c’è stato vietato di usarli , ma perchè nessuno li capiva più .
    Tutte le violenze di cui parli c sono state , non si discute , ma nn penso (imho)che con decreti o leggi si possa distruggere una lingua .
    * Essendo sardo so che i dialetti sono lingue , fin dal’asilo mi hanno fratturato le palle con la lingua sarda , ho visto romanzi di merda , canzoni di merda , fumetti di merda , opere teatrali di merda avere buone recensioni (e sovvenzioni statali) perchè erano in sardo e ho visto il sardo e la cultura sarda usata populisticamente dai politici sardi ( cagate come la doppia dicitura italia/sarda negli atti della regione , o comuni che mettono come requisito per l’assunzione nelle sue amministrazioni la conoscenza della lingua sarda )e probabilmente sono prevenuto verso i dialetti anche per questo.
    ps
    x casi limite intendevo le mutazioni linguistiche date da genocidi/invasioni non i genocidi/invasioni in se

  22. Continuo la necessaria fenomenologia di Girolamo.
    l’argomento Mohammed Alì: sono il campione, sono il migliore, ci ho ragione sempre, sono il numero uno, davanti a me c’è lo zero, dopo di me c’è l’infinita fila dei gregari, se sbaglio non sbaglio, se ho ragione è ovvio, io cito, io mi attacco al testo, io scrivo il testo, io non sparo mai baggianate, gli altri sì, io faccio sacrifici per essere il campione, io quando perdo vinco perché perdo con lo sparring-partner. E’ vero mi sono preso due sonore pizze da Belinda, ma era solo una parentesi.

  23. Mario, le commedie in dialetto mi hanno sempre fatto scompisciare dal ridere. Quand’ero bambino il medico condotto del mio paesino, il dottor Paliotto, traduceva in ferrarese Molière, Shakespeare ed Eduardo. Ne traeva pièces esilaranti, che venivano interpretate dalla filodrammatica locale alla Festa de l’Unità. Ho trascorso serate meravigliose assistendo a quegli spettacoli, ce li ho nel cuore, e mi dispiace che la tua esperienza col teatro in sardo non sia stata altrettanto felice.
    Anch’io ho enunciato una verità parziale, per compensare quella enunciata da te. Le nostre posizioni sul caso specifico non si elidono a vicenda, ma coesistono, perché sono tante le cause dell’indebolimento e scomparsa dei dialetti.
    Io però dico una cosa, sperando che tu sia d’accordo: l’italiano è una lingua vitale perché si nutre di tanti substrati. Senza l’immenso serbatoio delle lingue minori e delle parlate locali, l’italiano sarebbe meno ricco di sfumature, di sinonimi, di alternative espressive.
    Quella in cui ci stiamo esprimendo rimarrà una lingua vitale finché sapremo valorizzare le diversità che la nutrono. Se si impoverirà e appiattirà, non sarà certo per via degli anglicismi come credono i gonzi, ma è perché avrà perso biodiversità *al proprio interno*.
    Sì, il sardo è considerato lingua, è protetto, è sovvenzionato. Cosa che non accade alla stragrande maggioranza delle lingue minori del continente, retrocesse a “dialetti” e soggette a una secolare aggressione.
    A scanso di equivoci, io non credo molto al “dirigismo” linguistico (la protezione di una lingua dall’alto, come fanno i francesi), come non credo al “turbo-liberismo” linguistico (il mercato delle lingue si autoregola, lasciamolo fare).
    Le lingue minori non vanno tenute sotto bacheca (cosa che le uccide), ma non vanno nemmeno lasciate a se stesse. La sfida è far vivere i substrati della nostra lingua nazionale, che vanno costantemente agitati e tenuti in movimento, “dal basso”.
    Io mi sforzo di mantenere vivo l’emiliano nel quale sono cresciuto, e credo che questo, anziché limitare e corrompere il mio italiano come pensavano i maestrini d’antan, al contrario lo vivifichi e ne ampli le possibilità.
    Dopodiché, nulla di male – anzi! – se un assessorato finanzia la pubblicazione di un dizionario dialettale.
    [Ah, un po’ per celia un po’ per esercizio, tempo fa ho tradotto in ferrarese le prime due parti di “The Wasteland” di Eliot. So che Stefano Bonaga ha fatto la medesima cosa in bolognese, ma la sua versione non l’ho mai letta.]

  24. bisognerebbe distinguere,qualora fosse possibile,il dialetto(la lingua)dal folklore.Il ballo tundu e tutto ciò che ci gravita intorno mi hanno sempre disgustato pur riconoscendo a coloro che lo praticano una tecnica pura altissima(in un vuoto armonico disarmante).E invece tutte la generazioni che mi hanno preceduto non saranno mai risarcite abbastanza per essersi lasciate sfuggire,durante gli sforzi compiuti nel periodo dell’armonizzazione linguistica,occasioni propizie relative a scelte future.Credo inoltre che ad averci colonizzati culturalmente non siano stati gli Usa della liberazione e del Piano Marshall ma quelli che importarono pellicole decisive nel convincerci che avremmo potuto lasciarci alle spalle le sofferenze che ispirarono il neorealismo in cambio di una beata gioventù,velata giusto da qualche ombra,da prolungarsi all’infinito contrabbandataci benissimo attraverso prodotti sul genere di grease e american graffitti

  25. xWM1
    Sono d’accordo , gran post ps: il problema è che per avere delle commedie divertenti in sardo bisogna tornare allo ziu Paddori di Efisio Vincenzo Melis , quello di cui ho potuto ridere io , per ragioni anagrafiche (Benito Urgu , La Pola , i video di iscallonarasa.com)è o in un misto di sardo e italiano o in ” Casteddaio”

  26. Ne approfitto per chiederti una cosa: cos’è esattamente il “casteddaio”? Un sotto-dialetto del campidanese, un gergo…? Qual è la differenza tra casteddaio e sardo normale?
    Come si dice dalle mie parti, “non ne so mezza” di questa cosa.
    Mi hai incuriosito, ho cercato in rete informazioni su Efisio Vincenzo Melis, ma mi sembra ci sia pochissimo. Temo poi che di “Ziu Paddori” non capirei quasi niente: alle orecchie di un continentale il campidanese suona *davvero* ostico. Per noialtri il gallurese è più familiare e comprensibile.

  27. Su Canarinu de su Rettore
    Su burricu chi tenet su rettore
    non meritat sa fama de molente,
    est a corrinos che un’accidente,
    invidio su sou bonumore.
    Cantende in su manzanu in la maggiore
    no est nudda a su mere differente
    parent bessidos de tott’una brente
    differenziant solu in su colore.
    Tott’un’idea de differente lana:
    unu a sa mola, s’atteru a sa missa
    In ue b’hat paghe ponent avvolottu,
    Ma si su pegus giughiat suttana
    pius de una tabaccona priorissa
    diad’a narrer: ‘custu sì ch’est dottu’
    Peppinu Mereu 1872-1901
    traduzione, non mia, ovviamente:
    Il Canarino del Parroco
    L’asino del nostro parroco
    non merita la fama di asino,
    raglia come un accidente,
    invidio il suo buonumore
    Quando canta al mattino in La maggiore
    non è per niente diverso dal padrone
    sembrano usciti dallo stesso grembo,
    sono diversi solo nel colore
    Hanno le stesse idee e diverso manto:
    uno è dedito alla macina, l’altro alla messa
    Dove c’è pace creano scompiglio,
    ma se l’animale avesse avuto la sottana
    più di una tabaccona prioressa
    gli avrebbe detto: ‘questo sì che è Sapiente’
    ………………..
    Chiaro che ogniriferimento a persone o fatti realmente accaduti (soprattutto quì) è puramente casuale.
    Consiglio invece la lettura delle poesie molto famose, pare, nella Sardegna del ‘logudorese’ di questo che per i sardi è un ‘poeta maledetto’ (ma tenete presente che anche questa etichetta è una traduzione).
    besos

  28. WM1
    Casteddu per i sardi è Cagliari, Caralis o come lo vuoi chiamare.
    Castello è la parte antica della città (devastata dalla seconda guera mondiale, ma ancora bella).
    Casteddaio dovrebbe essere la variante di sardo che si parla a Cagliari e dintorni. Mi sono informata: sia mai che mi dimentichi di fare i compiti 🙂
    besos

  29. Il Casteddaio , è l’attuale dialetto Cagliaritano o simil Cagliaritano che si parla da Elmas fino a Quartu e Monserrato , è un pò la lingua fast food che ha cancellato tutti i dialetti che si parlavano nei diversi paesi .

  30. Si differenzia dal classico dialetto Cagliaritano perchè utilizza parole in italiano ( es serrami sa finestra )ed espressioni sarde tradotte in italiano ( es scendere a Castello)

  31. Un ultima cosa , a Peppino Mereu dobbiamo i versi ” pani , casu e binu a rasu “(pane , formaggio vino in abbondanza ) che hanno dato il nome a innumerevoli ristoranti , pub e sagre in tutta l’isola

  32. premetto che non sono un cagliaritano puro avendo svernato sotto la statua di Eleonora(che in realtà,manco a farlo apposta era Giovanna la Pazza),ma credo che la calata casteddaia si differenzi dal campidanese per la sostituzione delle T con le erre e per le accelerazioni repentine(es “arrogu tottu” diventa “arrogu rottu”,o perlomeno così mi è parso)
    p.s. gli abitanti di Castello quando devono andare negli altri quartieri dicono,con sublime snobismo:devo andare a cagliari.E sono il centro del centro)

  33. Grazie a tutti, molto interessante. Però mi rimangono delle lacune. Non ho capito se Casteddu/Casteddo identifica sempre e solo il quartiere o anche tutta la città di Cagliari. E non ho capito come mai una lingua “fast-food” (in linguistica si direbbe “glottofaga”, cioè che mangia le altre lingue, quindi la metafora mi sembra perfetta!) imbastardita con l’italiano che si parla in provincia prende il nome dall’ombelico dell’ombelico storico di Cagliari. Scusate le domande da profano…

  34. X WM1
    Casteddu indica sia la città che il quartiere .
    Poi , nota bene , il “Casteddaio” non è il vero dialetto Cagliaritano (quello lo puoi trovare tra gli avventori dei bar di san Michele), ma una lingua nata recentemente come misto tra italiano e sardo o sardo tradotto in italiano , chiamata ” Casteddaio” perchè ha nel dialetto Cagliaritano la sua componente maggiore , ed usata dai Casteddai o dai wannabe .
    PS
    Io nn sono la persona più qualificata per parlare di queste cose , prendetele col beneficio del dubbio, e se dico cazzate nn me ne abbiate 😛

  35. Castello sarebbe piaciuto a Melville forse(che,a sentir dire,cercava di riprodurre,tutta una storia e..l’universo in ogni singola frase)

  36. Un’iscritta sarda alla nostra newsletter ha visto questa discussione e ci ha mandato questa mail:

    x wm1
    Casteddu (o come diciamo nel mio villaggio ‘asteddu, visto che aspiriamo alcuni tipi di consonanti e… non riesco a rendere altrimenti il suono) per noi sardi è la città di Cagliari e il ‘nostro’ nome è dato da Castello (casteddu) che è il centro storico di Cagliari.
    Per noi i cagliaritani sono casteddarjor (casteddaios) come i sassaresi (tattari) sono tattaresi o tzatzaresos (ma la trascrizione dei suoni non la conosco bene).
    Ehm, razzisticamente noi dell’interno li chiamamo anche maurreddos (marocchini) e loro ci chiamano affettuosamente bidduncolos (da bidda=paese) e quindi, in qualche modo, ‘villani/villici’.
    Il sardo ha (dovrebbe avere) alcune varianti: Logudorese quello più ‘conservativo’, gallurese parlato soprattutto a nord e campidanese del campidano e dintorni. Il casteddarjo è una variante di campidanese molto imbastardita con l’italiano (non c’è disprezzo in questo, tutti tendiamo in quella direzione), ma con una pronuncia terribile, che, personalmente, trovo molto buffa. se vuoi farti un’idea leggiti ‘bellas mariposas’ di Atzeni. Non so se lo scrittore ti piace, ma in quella raccolta c’è anche uno spaccato di vita cagliaritana dei sobborghi con modi di dire e di fare da ‘scompisciarsi’.

    Di Atzeni (grossa lacuna) ho letto solo “Il figlio di Bakunin”, che mi è piaciuto molto a parte il finale troppo repentino.

  37. scusate, ma Fisietto?
    prima che gli amanti del fumetto patinato ce lo facciano trovare tra gli allegati di Repubblica.
    http://www.fisietto.com/test/
    Ecco un piccolo glossario di questo abitante di Casteddu non propriamente, come dire, introdotto nei migliori salotti.
    http://www.fisietto.com/glossario/glossario.asp
    Arrori ddu coddiri
    poi ci sarebbe anche un racconto di S. Atzeni con delle ragazzine e un quartire che facevano scompisciare, una delle sue cose che mi piacevano di più, ma di cui non ricordo il titolo.
    besos

  38. Interessante che anche a cagliari risuoni l’epiteto “maurreddos”. I “Moros” (cioè i Mori di Spagna) erano in realtà i “Mauritanos”, i mercenari africani di colore arruolati dai marocchini che civilizzarono, con la loro presenza, la penisola iberica: da cui, per metonimia, divennero indistintamente “Mori” tutti i mussulmani di Spagna. Nella parlata cagliaritana l’origine del termine risuona con evidenza

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