LO STRANIERO, KURTZ, AHAB

Non è un’affermazione originale, dire che siamo intrisi di mito, che ci narriamo nel mito, che ne siamo consapevoli o meno. In questi giorni, ragionando su un corso che sto tenendo on line alla Holden, e che riguarda il mondo del lavoro, sto usando i miti, e rendendomi conto ogni giorno di più quanto camminino fra noi. Si pensi alla figura dell’eroe straniero che viene chiamato, o di sua iniziativa va, a riportare ordine, e a quanto questa figura, con tutti i pericoli che comporta, sia ancora fortissima nelle dinamiche aziendali. Per il terzo giorno, riporto un passo dall’Eroe imperfetto di Wu Ming 4. Un passo che ci parla da vicino. Buon week end.
Fin dalla cosiddetta scoperta dell’America l’atto di “scoprire” e già un atto lessicale di conquista, che precede l’atto violento, la sottomissione di coloro che sono stati raggiunti dagli occhi occidentali. Sotto questo aspetto quindi l’esploratore che al ritorno in patria si mette a scrivere i propri memoriali di viaggio ha un ruolo fondamentale. Questi avventurieri, spesso avvolti da un’aura romantica, sono stati gli apripista dell’imperialismo europeo, sia in senso geografico sia in senso culturale. E questo anche quando – come nel caso di Burton o Lawrence – hanno subito il fascino dell’alterità e hanno criticato duramente la miopia delle politiche coloniali europee.
Del resto è ancora la letteratura dell’epoca vittoriana a consegnarci uno dei romanzi più belli e importanti sulla figura dell’esploratore bianco, mostrandocelo già nella veste di mercante e colonialista. Mi riferisco a Cuore di Tenebra di Joseph Conrad (1899), uno degli autori preferiti di Lawrence (tanto da volerlo incontrare al ritorno dalla guerra).
Nessuno più di Conrad ha saputo mettere a nudo quel misto di ferocia capitalistica e misticismo del white man burden che ha caratterizzato la visione espansionistica occidentale e che si celava dietro la figura dell’avventuriero, sospinto dal proprio senso di superiorità e onnipotenza. Onnipotenza che nelle solitudini selvagge poteva portare gli occidentali a lasciarsi innalzare al rango di re taumaturghi, leader semi-divini, in nome di un’idealità destinata a diventare incubo collettivo. Nel romanzo di Conrad, la figura di Kurtz appare come una sorta di profeta perverso e folle, ma pur sempre gigantesco, immane, a suo modo grandioso. Emblematica è la distinzione tracciata nel romanzo dall’alter ego di Conrad, il marinaio Charles Marlow, che narra ai lettori la storia in questione. Marlow distingue tra “conquistatori” e “colonialisti”. Questi ultimi sarebbero quelli come Kurtz, imperialisti imperfetti, ma che credono davvero alla propria missione:
[i Romani] non erano colonizzatori; credo che per loro amministrare significasse solo spremere soldi, e basta. Erano conquistatori, e per conquistare basta la forza bruta […] La conquista della terra, che perlopiù significa portarla via a chi ha il colore della pelle diverso dal nostro o il naso un po’ più piatto, non è una bella cosa se ci si riflette su troppo. Solo l’idea può riscattarla. Un’idea cui possa appoggiarsi; non un finto sentimentalismo ma un’idea; una fede disinteressata nell’idea – qualcosa di superiore che uno si crea, di fronte a cui si inginocchia, a cui immola sacrifici.
(J. Conrad, Cuore di Tenebra, cap. I)

Questo elemento ideale acquista un peso enorme, perché riscatta la realtà brutale del colonialismo, assegnando a esso il compito di esportare la civiltà. Un’impresa eroica, salvifica, che trasforma i pionieri occidentali in missionari. “Kurtz è la luce che il bianco deve portare nelle tenebre, è il bene, la cultura (giornalista, pittore, musicista), la civiltà, che deve redimere il paganesimo” (R. Tumminelli, “Sterminate quei bruti!”: il Cuore di Tenebra dell’Occidente, 2004).
Volendo tracciare un parallelo con un’altra grande opera letteraria del XIX secolo, si può dire che per il Kurtz conradiano valgono le parole con cui Hermann Melville descrive il capitano Ahab in Moby Dick (1851):
Roso di dentro e arso di fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un’idea incurabile.
(Cap. XLI)

La figura dell’occidentale bianco che si reca presso i neri richiama quella dell’eroe che viaggia attraverso una terra sconosciuta, straniero in terra straniera, e può contare su una lunga tradizione mitico-leggendaria. E’ una delle declinazioni più ricorrenti e allo stesso tempo più antiche dell’eroe. L’archetipicità di questa figura sta nel suo essere solitaria, forte, unica perché giunta dall’esterno. L’eroe arriva in una terra selvaggia o esposta a una grande minaccia, e la libera, uccidendo il mostro, riportando l’ordine, eliminando la bestialità, le forze primitive della terra. Sono molti i precedenti che si potrebbero citare nel ruolo di stranieri salvatori. Nella mitologia classica greca si affollano personaggi come Teseo, Perseo, Giasone, Eracle… Nella genealogia del poema epico europeo vengono in mente Odisseo, Enea, Beowulf, Sigfrido, e molti altri.
Solo l’eroe straniero può compiere questa impresa “civilizzatrice”, perché gli indigeni non sono capaci di agire da soli, sono vittime della propria decadenza o selvatichezza, hanno bisogno di essere riscattati o sospinti al riscatto.

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