MCCARTHY E LA STRADA

Su Repubblica di oggi, lunga intervista di John Jurgensen per il Wall Street Journal a Cormac McCarthy. Eccola.
San Antonio (Stati Uniti)
il romanziere Cormac McCarthy rifugge le interviste, ma apprezza le conversazioni. Siamo a novembre e l´autore è seduto nel frondoso patio del Menger Hotel, costruito circa vent´anni dopo l´assedio di Alamo, di cui accanto sorgono i resti.
La conversazione pomeridiana, a cui prende parte anche John Hillcoat, il regista di The Road, la versione cinematografica de La strada, va avanti fino al tramonto, poi ci trasferiamo in un ristorante lì vicino per cenare. Vestito in jeans con le pieghe e stivali da cowboy marroni con le fossette, McCarthy comincia la cena con un Bombay Gibson, Up (un Martini con una cipollina al posto dell´oliva).
Il primo grande successo del 76enne scrittore americano fu il romanzo Meridiano di sangue, o Rosso di sera nel West, una storia di mercenari americani che vanno a caccia di indiani al confine con il Messico. Il successo commerciale arrivò più tardi, nel 1992, con Cavalli selvaggi, vincitore del National Book Award e prima puntata della Trilogia della frontiera. I critici hanno sviscerato approfonditamente la dettagliata visione del West, le vivide descrizioni delle scene violente e la prosa muscolare, quasi sprovvista di punteggiatura, di McCarthy.
L´autore si è rivelato più sfuggente. Non si fa mai vedere alle fiere del libro, alle letture e negli altri posti dove si riuniscono i romanzieri. Preferisce vedersi con «gente brillante» estranea al suo settore, come giocatori di poker professionisti e pensatori del Santa Fe Institute, una fondazione di scienze teoretiche del Nuovo Messico dove McCarthy insegna da tempo.
Negli ultimi anni il grande scrittore si è gradatamente fatto strada a Hollywood. Molti nuovi lettori lo hanno scoperto grazie al film del 2007 (tratto dall´omonimo romanzo di McCarthy) Non è un paese per vecchi, un thriller che ruota intorno a una valigetta piena di narcodollari e a un killer spietato. Diretto da Joel e Ethan Coen, il film si è aggiudicato quattro Academy Awards.
Ora è uscito The Road, adattamento per il grande schermo di un romanzo che ha segnato un´altra fase importante nella carriera di McCarthy. Intimo quanto lugubre, il libro racconta la storia del legame di un uomo con il figlio di undici anni sullo sfondo di una lotta per la sopravvivenza, anni dopo un cataclisma che ha cancellato la società. Il romanzo ha vinto un premio Pulitzer nel 2007.
Il film, che ha come protagonista Viggo Mortensen nella parte del padre e Kodi Smit-McPhee (undici anni al momento delle riprese) nella parte del figlio, segue da vicino la cupa trama del libro, inclusi gli scontri con i cannibali. Hillcoat, il regista, è un australiano che nel 2005 ha girato La proposta, un violento western ambientato nell´Outback australiano. Per riprodurre gli scenari desolati del romanzo, Hillcoat ha girato gran parte del film in inverno, a Pittsburgh, dove le rovine dei tempi in cui la città era un grande centro dell´industria carbonifera e siderurgica offrono il giusto grado di squallore.
L´antefatto del romanzo è profondamente personale, perché nasce dal rapporto fra Cormac e John, il figlio di undici anni avuto dalla terza moglie, Jennifer. Con la morte sempre in agguato, il protagonista de La strada protegge ossessivamente il figlio e lo prepara a proseguire da solo«Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Diceva: se lui non è la parola di Dio, allora Dio non ha mai parlato». […]
McCarthy e Hillcoat mostrano grande affabilità, nonostante una collaborazione che avrebbe potuto rivelarsi spinosa. Hillcoat gli dice: «Mi hai tolto un peso enorme dalle spalle quando hai detto: “Guarda, un romanzo è un romanzo e un film è un film, e sono due cose diversissime”». Con un tono di voce basso, inframmezzato da frequenti risatine e accompagnato dallo sguardo intenso dei suoi occhi grigio-verdi, McCarthy ci parla delle differenze fra libri e film, dell´apocalisse, di padri e figli, di progetti passati e futuri, di come scrive; e di Dio.
Quando vende i diritti dei suoi libri, nei contratti si riserva una qualche forma di supervisione sulla sceneggiatura o li cede per intero?
«No, li vendi, te ne torni a casa e ti metti a letto. Non ti vai a immischiare nel progetto di qualcun altro».
Quando si è recato per la prima volta sul set, quanta differenza c´era con la visione che aveva nella sua testa del romanzo?
«Beh, sicuramente la mia idea di quello che succedeva nella storia non includeva sessanta-ottanta persone e un mucchio di telecamere. Una trentina d´anni fa feci un film con il regista Dick Pearce nella Carolina del Nord e pensai: “Ma questo è l´inferno. Come si fa a fare una cosa del genere?”. Io invece mi alzo dal letto, mi faccio una tazza di caffè, cincischio un po´, leggo qualcosa, mi metto seduto e batto qualche riga al computer e guardo fuori dalla finestra».
Ma non c´è qualcosa di trascinante nel processo collaborativo, rispetto al lavoro solitario dello scrittore?
«Sì, ti trascina a evitarlo a tutti i costi».
Quando ha discusso con John dell´ipotesi di ricavare un film dal suo romanzo, lui le ha chiesto maggiori dettagli su che cosa fosse stato a provocare il disastro?
«Molti me lo chiedono. Io non ho un´opinione al riguardo. Al Santa Fe Institute ci sono scienziati di tutte le discipline, e alcuni geologi mi hanno detto che a loro sembrava un meteorite. Ma avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, l´attività vulcanica o una guerra nucleare. Non è veramente importante. La questione essenziale ora è: che cosa fai? L´ultima volta che la caldera di Yellowstone ha sbuffato tutto il continente nordamericano è finito sotto trenta centimetri di cenere. Quelli che vanno a fare le immersioni nel lago di Yellowstone dicono che sul fondo c´è una protuberanza che adesso è alta quasi trenta metri, e sembra quasi che pulsi. Se chiedi a persone diverse ti danno risposte diverse, ma potrebbe succedere fra tre o quattromila anni o potrebbe succedere giovedì prossimo. Nessuno lo sa».
Che tipo di cose la inquietano?
«Se pensi ad alcune delle cose di cui parlano scienziati intelligenti e riflessivi ti rendi conto che fra cento anni la razza umana sarà diventata qualcosa di irriconoscibile. Potremmo essere in parte delle macchine, avere dei computer impiantati. Impiantare nel cervello un chip che contenga tutte le informazioni di tutte le biblioteche del mondo è già ora qualcosa che non è possibile solo a livello teorico. Come dicono le persone che discutono di queste cose, si tratta solo di capire come fare i collegamenti. Ecco una questione su cui ragionare».
La strada è una storia d´amore fra padre e figlio, ma non dicono mai «ti voglio bene».
«No. ho pensato che non avrebbe aggiunto nulla alla storia. Ma molti dei dialoghi del libro sono conversazioni, trascritte parola per parola, fra me e mio figlio John. È questo che intendo quando dico che lui è il coautore del libro. Molte delle cose che dice il ragazzino del libro sono cose che ha detto John. John diceva: “Papà, che cosa faresti se io morissi?”; e io: “Vorrei morire anch´io”; e lui: “Così potresti stare con me?”; e io: “Sì, così potrei stare con te”. Semplicemente una conversazione che potrebbero avere due persone».
Perché non firma mai copie de La strada?
«Ci sono copie autografate del libro, ma appartengono tutte a mio figlio John, così quando avrà diciotto anni potrà venderle e andarsene a Las Vegas o quello che vuole. No, quelle sono le uniche copie autografate del libro».
Quante ne ha?
«Duecentocinquanta. Ogni tanto mi arrivano lettere da librerie o altri che dicono: “Ho una copia autografata de La strada”, e io dico: “No, non è vero”».
Com´è stato il suo rapporto con i fratelli Coen per Non è un paese per vecchi?
«Ci siamo incontrati e abbiamo chiacchierato qualche volta. È stato piacevole. Sono intelligenti e molto dotati. Come John, non hanno avuto bisogno di nessun aiuto da parte mia per fare il film».
Anche Cavalli selvaggi è stato trasformato in un film (uscito in Italia col titolo di Passione ribelle), con Matt Damon e Penélope Cruz come protagonisti. È rimasto soddisfatto del risultato?
«Poteva venire meglio. Se lo si tagliasse potrebbe venir fuori un film piuttosto buono. Il regista aveva l´idea di poter mettere su schermo tutto il libro. È impossibile. Devi scegliere la storia che vuoi raccontare e far vedere quella. Perciò ha fatto questo film di quattro ore e poi ha scoperto che se voleva farlo uscire davvero nelle sale avrebbe dovuto tagliarlo della metà».
Questo discorso della lunghezza si applica anche ai libri? Un libro di mille pagine è troppo?
«Per i lettori moderni, sì. La gente apparentemente è disposta a tollerare la lunghezza solo per i gialli. Per i gialli e i polizieschi più è lungo meglio è, la gente leggerà qualunque cosa. Ma quei libroni compiaciuti di ottocento pagine che scrivevano un centinaio di anni fa oggi non li scrivono più, la gente non ci è abituata. Se qualcuno ha in mente di scrivere qualcosa come I fratelli Karamazov o Moby Dick, si accomodi. Nessuno lo leggerà. Non importa quanto sia bello, non importa quanto siano acuti e intelligenti i lettori. Sono diverse le loro intenzioni, il loro cervello».
Qualcuno ha detto che Meridiano di sangue non può essere trasformato in film perché è una storia troppo cupa e violenta.
«Sono tutte stronzate. Il fatto che sia una storia cupa e sanguinosa non ha niente a che vedere con la possibilità o meno di ricavarne un film. Non è questo il punto. Il punto è che sarebbe molto difficile da fare e richiederebbe qualcuno con un´immaginazione sfrenata e due palle così. Ma il risultato potrebbe essere straordinario».
L´idea dell´invecchiamento e della morte che effetti produce sul suo lavoro? La spinge a lavorare più in fretta?
«Il tuo futuro si accorcia e tu te ne rendi conto. Negli ultimi anni non ho voglia di fare nient´altro che lavorare e stare con mio figlio John. Sento qualcuno che parla di andare in vacanza o cose del genere e io penso: ma a che serve? Non ho nessun desiderio di fare un viaggio. La mia giornata perfetta consiste nello starmene seduto in una stanza con un po´ di fogli bianchi. Questo è il paradiso. È oro puro e tutto il resto è solo una perdita di tempo».
Questo orologio ticchettante come influenza il suo lavoro? La spinge a voler scrivere storie più brevi, oppure a coronare il tutto con un´opera grande, a tutto campo?
«Non mi interessa scrivere storie brevi. Qualunque cosa che non ti occupi anni interi della vita e non ti spinga al suicidio mi sembra che sia qualcosa che non vale la pena».
Gli ultimi cinque anni sono sembrati molto produttivi per lei. Ci sono periodi di stanca nella sua scrittura?
«Non credo che ci siano periodi ricchi o periodi di stanca. È solo una percezione che ricavate voi basandovi su quello che viene pubblicato. Il giorno più impegnato può essere quello in cui te ne stai a guardare delle formiche che trasportano briciole di pane. Qualcuno ha chiesto a Flannery O´Connor perché aveva fatto la scrittrice e lei ha detto: “Perché ero brava a farlo”. E secondo me questa è la risposta giusta. Se sei bravo a fare qualcosa, è molto difficile non farla. Se parli con persone anziane che hanno avuto una vita felice, inevitabilmente uno su due ti dirà: “La cosa più significativa della mia vita è che ho avuto una fortuna straordinaria”. E quando senti dire questo, sai che stai sentendo la verità. Non è uno sminuire il loro talento o il loro impegno. Puoi averne quanto ti pare e non farcela lo stesso».
Può dirmi qualcosa del libro su cui sta lavorando, riguardo alla storia, all´ambientazione?
«Non sono molto bravo a parlare di queste cose. È ambientato per lo più a New Orleans intorno al 1980. Parla di un fratello e di una sorella. Quando il libro comincia lei si è già suicidata e il libro parla di come lui affronta la cosa. Lei è una ragazza interessante».
Alcuni critici fanno notare che lei di solito non approfondisce molto i personaggi femminili.
«Questo è un libro lungo e parla in gran parte di una giovane donna. Ci sono scene interessanti inframmezzate nel libro, e hanno tutte a che fare con il passato. Lei si è suicidata sette anni prima. Erano cinquant´anni che volevo scrivere su una donna. Non sarò mai competente abbastanza da farlo, ma a un certo punto bisogna provare».
Lei è nato nel Rhode Island ed è cresciuto nel Tennessee. Perché è finito nel Sudovest?
«Sono finito nel Sudovest perché sapevo che nessuno ne aveva mai scritto. Oltre alla Coca Cola, l´altra cosa conosciuta in tutto il mondo sono i cowboy e gli indiani. Se vai in un villaggio di montagna in Mongolia scopri che tutti conoscono i cowboy. Ma nessuno prendeva l´argomento sul serio, da due secoli a questa parte. Ho pensato: ecco un buon soggetto. Ed era vero».
Lei è cresciuto cattolico irlandese.
«Sì, un pochino. Non era granché rilevante. Andavamo in chiesa la domenica. Non ricordo nemmeno che si parlasse mai di religione».
Il Dio con cui è cresciuto in chiesa ogni domenica è lo stesso Dio che il protagonista de La strada interroga e maledice?
«Forse sì. Ho una grande simpatia per la visione spirituale dell´esistenza e penso che sia significativa. Ma personalmente sono una persona spirituale? Mi piacerebbe esserlo? Non nel senso che penso a un qualche aldilà dove mi piacerebbe andare, semplicemente nel senso di essere una persona migliore. Ho degli amici al Santa Fe Institute. Sono persone brillantissime che fanno un lavoro veramente difficile risolvendo problemi difficili, e loro dicono: “È molto più importante essere buoni che essere intelligenti”. E io sono d´accordo, è più importante essere buoni che essere intelligenti. È tutto quello che posso offrirvi».
La strada è un romanzo molto personale, ha avuto qualche esitazione a lasciare che venisse trasformata in film?
«No. Avevo visto il film di John, La proposta, e lo conoscevo un po´ di fama, e ho pensato che probabilmente avrebbe fatto un buon lavoro rispetto al materiale. Inoltre la mia agente, Amanda Urban, è eccezionale. Non avrebbe venduto il libro a qualcuno se non avesse avuto fiducia in quello che ci avrebbe fatto. Non è solo una questione di soldi».
John Hillcoat: Non avevi scritto inizialmente Non è un paese per vecchi come una sceneggiatura?
«Sì, l´avevo scritta. L´ho fatta vedere a qualcuno, ma non erano sembrati interessati. Anzi, dicevano che non avrebbe mai funzionato. Anni dopo l´ho ritirata fuori e l´ho trasformata in un romanzo. Non ci è voluto molto. Ero agli Academy Awards con i Coen. Prima della fine della serata il loro tavolo si era riempito di premi, lì in fila come lattine di birra. Uno dei primi premi è stato quello per la migliore sceneggiatura, e Ethan quando è tornato al tavolo mi ha detto: “Beh, io non ho fatto niente, però me lo tengo”».
Per romanzi come Meridiano di sangue ha fatto un´approfondita ricerca storica. Che tipo di ricerche ha fatto per La strada?
«Non so. Ho semplicemente parlato con alcune persone di come potrebbero essere le cose in una serie di situazioni catastrofiche, ma non ho fatto grandi ricerche. Ogni tanto ho questi dialoghi al telefono con mio fratello Dennis e spesso viene fuori qualche scenario terribile da fine del mondo, e finiamo sempre a riderci su. Quando qualcuno ascolta queste conversazioni dice: “Perché non ve ne tornate a casa, vi infilate in una vasca piena d´acqua calda e vi tagliate le vene?”. Parlavamo di uno scenario in cui restava viva solo una piccola percentuale della popolazione umana e ci chiedevamo che cosa avrebbero fatto questi sopravvissuti. Probabilmente si sarebbero divisi in piccole tribù e, quando non c´è più niente, l´unica cosa che resta da mangiare è il prossimo. Sappiamo che è storicamente vero».
Che cosa fa suo fratello Dennis? È uno scienziato?
«Sì. Ha un dottorato in biologia ed è anche un avvocato, una persona riflessiva e un caro amico».
Una chiacchierata tra fratelli che sfocia nell´apocalisse, così, naturalmente?
«Più spesso di quanto non sarebbe logico».
I padri che tipo di reazioni hanno avuto a La strada?
«Ho ricevuto la stessa lettera da sei uomini diversi. Uno dall´Australia, uno dalla Germania, uno dall´Inghilterra, ma tutti dicevano la stessa cosa. Dicevano: “Ho cominciato a leggere il suo libro dopo cena e l´ho finito alle 3.45 del mattino, poi mi sono alzato, sono salito di sopra, ho svegliato i miei figli e sono rimasto lì seduto sul letto a tenerli stretti”». […]
JH: Qualcuno all´istituto ti ha dato qualche informazione riservata? Ci puoi dire una data?
«Per cosa, per la fine del mondo? [Ride] No, non hanno la data».
JH: La tua scrittura è una forma di poesia, ma moltissimo di quello che leggi e studi è tecnico e basato sui fatti. C´è un confine fra l´arte e la scienza, e dove cominciano a confondersi?
«C´è sicuramente un´estetica nella matematica e nella scienza. È anche così che Paul Durac finì nei guai. Durac era uno dei grandi fisici del Ventesimo secolo, ma lui era davvero convinto, come altri fisici, che dovendo scegliere fra qualcosa di logico e qualcosa di bello, fosse più verosimile affidarsi all´estetica. Quando Richard Feynman mise insieme la sua versione aggiornata dell´elettrodinamica dei quanti, Durac non la giudicò vera perché era brutta. Era caotica. Non aveva la chiarezza, l´eleganza che lui associava alla grande matematica o alla fisica teorica. Ma si sbagliava. Non esiste una formula per questo».
C´è una differenza nel modo in cui viene rappresentata l´umanità ne La strada e il modo in cui viene rappresentata in Meridiano di sangue?
«In Meridiano di sangue di personaggi buoni ce ne sono pochi, mentre La strada parla proprio di persone buone. È l´argomento principe».
JH: Ricordo che mi avevi detto che Meridiano di sangue parla della malvagità dell´uomo, mentre La strada parla della bontà dell´uomo.Solo quando è nato mio figlio mi sono reso conto che una personalità è qualcosa di innato in una persona. La puoi vedere mentre si forma. Ne La strada, il ragazzo è nato in un mondo in cui la morale e l´etica sono al di fuori, quasi come in un esperimento scientifico. Ma lui è il personaggio più morale. Pensi che la bontà sia innata nelle persone?
«Io non penso che la bontà sia qualcosa che impari. Se vieni lasciato alla deriva a imparare dal mondo a essere buono, non è facile. Ma ogni tanto la gente mi dice che mio figlio John è proprio un bambino d´oro. Io dico che lui è talmente superiore a me che mi sento stupido a correggerlo su certe cose, ma qualcosa devo fare, sono suo padre. Non puoi fare molto per cercare di trasformare un bambino in qualcosa che non è. Ma qualunque cosa sia, di sicuro puoi distruggerla. Se sei meschino e crudele, puoi distruggere la persona migliore del mondo».
Che cosa fate insieme, lei e suo figlio? Dove trovate un terreno comune?

«La mia sensazione è che la consanguineità in realtà significhi poco. Io ho una grande famiglia e c´è solo uno di loro a cui mi sento vicino, ed è il mio fratello minore Dennis. Lui è il mio tipo di persona. E anche John è il mio tipo di persona».
Siete tutti e due padri di bambini piccoli. Guardandoli, avete la sensazione che il talento artistico sia qualcosa che si trasmette dai genitori ai figli?
«John sta sempre a disegnare, ma devo dire che non è molto bravo, mentre io lo ero. Ero un artista bambino, un bambino prodigio. Facevo tutte quelle cose là. Grandi disegni vistosi di animali. Sono anni che non lo faccio più. Tutto svanito. Non gli ho mai dato seguito […] Ho fatto delle mostre a otto anni. Era solo per la gloria. Mostre locali. Mi ricordo alcuni di quei dipinti. Uno raffigurava un rinoceronte alla carica. Non era male. Un grande acquerello, una cosa a tecnica mista. Un altro era un rosso molto acceso, un vulcano in esplosione. Era divertente. Successivamente ho dipinto uccelli e cose del genere. Quadri naturalistici».
Ha la sensazione, nella sua opera, di cercare di affrontare gli stessi grandi interrogativi, solo in modi diversi?
«Il lavoro creativo spesso è stimolato dal dolore. Se non avessi qualcosa nel profondo del tuo cervello che ti fa diventare matto, forse non faresti niente. Non è una buona soluzione. Se fossi Dio, non avrei fatto le cose a questo modo. Certe cose di cui ho scritto ormai non rivestono più alcun interesse per me, ma certamente mi interessavano prima di scriverle. C´è qualcosa, sul fatto di scrivere di determinate cose, che le appiattisce. Le hai consumate. Io dico alla gente che non ho mai letto nessuno dei miei libri, ed è vero. Loro pensano che li stia prendendo in giro».
Prima ha accennato al ruolo che gioca la fortuna nella vita. In che momento è intervenuta la fortuna per lei?
«Non c´è persona dai tempi di Adamo più fortunata di me. Non mi è successo nulla che non fosse perfetto. E non lo dico per fare lo spiritoso. Non c´è mai stato un momento in cui non avevo soldi ed ero infelice, un momento in cui qualcosa non arrivava. E questo ogni volta, ogni volta, ogni volta. Ce n´è abbastanza di che renderti superstizioso».

48 pensieri su “MCCARTHY E LA STRADA

  1. Scrittore immenso. Invece di dare il Nobel a oscuri carneadi, alle volte…
    Tanto per agganciare la discussione del post precendente a questa intervista, ecco uno che ne “La Strada” riproduce un discrimine tra Bene e Male senza per questo essere manicheo o fascista (e lo fa su uno scenario immaginifico, per altro). Ecco uno che afferma senza mezzi termini di prediligere la bontà all’intelligenza. Quanto alla reazione dei lettori “padri”, confermo… su di me ha avuto precisamente lo stesso effetto.

  2. Vero. Non avviene spesso (saper riprodurre quel discrimine), ma avviene. Il terzo che aggiungerei alla lista è King. E proprio in The Dome, che in apparenza sembra essere, invece, manicheo…

  3. Se qualcuno mi dice che King in ‘the dome’ è manicheo (che poi il povero Mani non era manicheo per niente, è stato uno di tanti calunniati della storia) o, per l’ennesima volta, che il finale è posticcio o frettoloso potrei avere una crisi isterica.
    E, sì, McCarthy è un grande.

  4. Anch’io adoro McCarthy, come credo mezzo mondo. E mi sorprende quando ammette di essere tanto felice: hai in mente certe pagine stupende ma quasi illegibili, ovunque male senza speranza, l’unico motore sembra una specie di animalesca ferocia senza ragione e senza fine (l’insostenibile atmosfera de La strada, le terribili disavventure del protagonista de Il buio fuori, tutto Meridiano di sangue – il giudice Holden, personaggio inarrivabile, sembra la personificazione della gratuità e onnipotenza del male…), insomma, pagine assolutamente cupe, di pura disperazione: mi aspettavo una specie di autore-orco, anche per vie delle voci sulla misantropia che lo avrebbe spinto fino a sparare sui giornalisti per tenerli lontani. E invece si scopre che queste meraviglie letterarie sono, soprattutto, frutto di una grandiosa – e lucida, temo – immaginazione, che però il suo dato biografico sembra negare in pieno. Non so se mi spiego: una visione così pessimistica del mondo e invece una vicenda personale così felice: non pensavo fossero conciliabili, per lo meno non me lo aspettavo.
    Quanto alla scarsa consistenza dei suoi personaggi femminili, banalmente mi viene da dire che in atmosfere come quelle, dove domina violenza e soppraffazione, forse è inevitabile che le donne (e i valori che potrebbero simboleggiare: amore, continuità della vità ecc.) finiscano per avere poco spazio

  5. A me La Strada è piaciuto molto meno di altri romanzi di Cormac McCarthy. Non è certo brutto, non credo ne sia capace.
    Quello che mi ha disturbato è il pessimismo portato alle estreme conseguenze, senza nemmeno il grottesco di Meridiano di Sangue. In certi momenti di La Strada sentivo un vago odore di parodia.
    Uno non legge McCarthy per l’ottimismo, chiaro, e tutti accettiamo il fatto che il male nel mondo c’è. Ma…
    Un dato storicamente ovvio: in letteratura è più facile e divertente mettere in scena il male che il bene. Persone che nella vita eviteremmo con ogni cautela ci ispirano simpatia sulla pagina o sullo schermo. Così la descrizione di una battaglia o di un campo di concentramento ci appassiona di più della descrizione della costruzione di una diga e se le famiglie felici si assomigliano tutte quelle infelici lo sono ognuna a suo modo.
    Nell’intervista McCarthy accenna all’idea che, di fronte ad una catastrofe enorme come quella che descrive, la gente si dividerebbe in piccole bande in lotta.
    Ora, una delle letture più rasserenanti dell’anno scorso è stata ‘Un paradiso all’inferno’, di Rebecca Solnit (Fandango, 20 euro). La Solnit analizza in dettaglio una serie di catastrofi, umane e naturali, avvenute sul continente nordamericano, dal terremoto di San Francisco all’uragano Katrina, dimostrando come, in tutti i casi, la reazione della gente sia stata assolutamente ammirevole: solidarietà, testa a posto, autoorganizzazione, pochissimo crimine, subito al lavoro – i problemi se mai erano provocati dalle reazioni scomposte delle autorità convinta di dover gestire una folla senza legge. A un certo punto la Solnit cita l’Inghilterra durante il Blitz: tutti hanno ammirato la forza e la solidarietà degli inglesi in quel momento così difficile e l’hanno attribuita al carattere inglese: lei invece ritiene che il comportamento degli inglesi sia il comportamento naturale di tutti i popoli di fronte a una catastrofe.
    Nel mondo post-disastro di McCarthy invece ciò non accade e il fatto che il disastro non sia specificato aggiunge alla disperazione ed anarchia collettive. Beh, in questo McCarthy si adegua all’opinione convenzionale, quella che la Solnit definisce la teoria delle elites per cui la gente non saprebbe badare a se stessa… Il bene, nel romanzo, è appannaggio di un individuo (o pochissimi) mentre la massa dei sopravvissuti è regredita allo stato ferino.
    Insomma, il mondo offre ottimi motivi di pessimismo ma, almeno in questo caso, credo che McCarthy abbia passato il limite del probabile e finito nella scuola di pensiero del ‘life is a shit and then you die’.

  6. A me McCarthy fa questo effetto: io cerco sempre di non rispondere a domande del tipo “i 5 migliori romanzi” o “i 5 migliori autori” ecc., perché penso sia probabile che esistano grandi scrittori e grandi romanzi che non ho letto, che forse non ho mai sentito nominare; leggendo McCarthy ho la sensazione, ogni volta, di essere sicuro di star leggendo, se non il più grande, uno dei due-tre maggiori scrittori contemporanei. So che molti hanno proposto parallelismo tra “La strada” e Beckett: io l’ho pensato leggendo “Il buoi fuori” (poi ho messo su Google McCarthy+Beckett per vedere se qualcuno l’aveva pensato, e ho trovato i parallelismi con “La strada”). Leggendo quest’ultimo romanzo, non sono riuscito a non tenere costantemente una matita in mano. Tra le cose che ho annotato: tutte le sfumature della luce, cioè tutte le variazioni di grigio (contrastate dai colori nei sogni e nei ricordi del pre-catastrofe). Lo avevo fatto, a suo tempo, con “Il partigiano Johnny”, dove Fenoglio lavora molto sul grigio, sul bianco-sporco, su questo tappeto monotono terra-cielo che dà l’idea di una natura ostile. E ho avuto la sensazione che persino Fenoglio (un grandissimo) non possa reggere il confronto con McCarthy (il che non cambia di una virgola la mia ammirazione per il partigiano Beppe).
    Non so se gli daranno in Nobel, vai a capire come funzionano queste cose, ma credo che nel caso reagirebbe come Anna Magnani quando fu svegliata nel cuore della notte perché aveva vinto l’Oscar: «e che c’era bisogno di svegliarmi per una cosa così», disse, e tornò a dormire.

  7. Ma trovi che La Strada sia all’altezza, superiore o inferiore, dei romanzi precedenti? Cioè, siamo su un livello di eccellenza uniforme oppure…?

  8. Io ho letto ‘la strada’ in modo diverso, e non mi è sembrato per niente un libro pessimista.
    A me non pare che McCarthy si sia basato su dati antropologici o sociologici, ma su dati dell’immaginario, cioé sul modo in cui la maggior parte di noi pensa alla catastrofe.
    E la maggior parte di noi quando immagina non è influenzata dalla sociologia, dall’antropologia o dalla statistica ma dalla lettereratura, dal cinema, dai media. Cosa che può pure non piacerci, ma credo sia un fatto.
    Per questo ho trovato il libro di McCarthy strepitosamente metanarrativo (cioè: ‘anche’ metanarrativo). E, in questo senso, mi sono pure divertita a leggerlo.
    La gabbia di genere c’è, e ci sono mille ammiccamenti al lettore. E’ un viaggio attraverso un mondo di cui il nostro presente potrebbe essere l’archeologia (e quale che sia il futuro, ogni presente sarà archeologico). E questo sì fa paura. E’ come se quello che ci vediamo intorno fosse solo una pellicola che un niente può sollevare e di cui rimarranno solo tracce fumanti e cenere. Con tutte le gradazioni del grigionero che McCarthy ci descrive in ogni sfumatura. E in questo è davvero grandissimo.
    Per me non si tratta di quantificare i buoni e i cattivi per decidere quanto pessimista sia, o non sia, questo libro. L’amore è nel bambino, in quella speranza di futuro che c’è e che può esserci, ci dice McCarthy, solo nella bontà e nell’empatia.
    Ecco. Il fatto che abbia suicidato all’inizio la donna, ‘la madre’, dopo averne fatto un precipitato di comportamenti isterici e irrazionali, non glielo perdono. Ma tant’è.

  9. Avendo letto i due libri a poca distanza l’uno dall’altro il paragone mi è venuto spontaneo. Il pessimismo, col tempo, mi urta sempre di più, specie quando è così estremo. Da giovane Cioran mi entusiasmava: ora lo trovo illeggibile. Il pessimismo non mi pare più una visione realistica della natura umana, certo non più realistica di un inconsulto ottimismo (che comunque in arte e filosofia è pochissimo frequentato).
    Succede che uno scrittore, uno bravo, ti presenti una visione del mondo (ben oltre una visione politica) che tu da lettore non condividi: riconosci il merito ma aggiungi un ‘no, grazie’.
    Da dire poi che il riflesso condizionato da lettore di Urania mi ha fatto pesare il fatto che la catastrofe sia indefinita: noi lettori di ‘genere’ ci aspettiamo sempre la spiegazione…
    Diciamo che avrei preferito che McCarthy il grande successo di massa l’avesse ottenuto con la trilogia della frontiera.

  10. Concordo con Valeria. E lo dico da lettore-padre che ha avuto i crampi allo stomaco leggendo La Strada. Il mondo post-catastrofe vede l’umanità divisa in bande, è vero, ma ci sono alcuni che stanno provando a organizzarsi e che soprattutto non cedono all’antropofagia, all’homo homini lupus. Sono “i buoni”, quelli che padre e figlio stanno cercando, quelli che rifiutano di regredire (o evolvere) allo stato ferino. Beh, a me sembra piuttosto uno spaccato del mondo pre-catastrofe… E mi sembra anche che McCarthy ribadisca con grande tensione etica che esiste una possibilità di sopravvivenza per l’umanità nonostante la desertificazione dilagante: una possibilità che passa attraverso la conservazione del proprio senso umano, di specie, di comunità possibile nonostante tutto, a partire dalla sopravvivenza della relazione primaria genitore-figlio.

  11. E’ strano come si tenda a valutare un libro secondo la “visione del mondo” che prospetta. Ma la letteratura non è coincidenza di atteggiamenti esistenziali, pessimismo/ottimismo in letteratura sono categorie superflue, o fuorvianti. “La strada” è la trasposizione introspettiva di parecchia fantascienza anni ’50/’60, assai più superficiale nell’analisi ma anche più densa nella narrazione, assai meno pretenziosa che non il furbo affresco di McCarthy, studiato per coinvolgere attraverso una creatività solo apparente. Insomma, meglio la scrittura “di genere” che non il suo epigono nobile, o presunto tale.

  12. Grazie per la traduzione, anche se da Repubblica mi sarei aspettato piu’ attenzione. In particolare:
    a)Nel 99% dei casi, e scommetterei anche in questo, ‘theoretical’ in italiano fa ‘teoriche’ e non ‘teoretiche’.
    b)Paul Dirac (non Durac) e’ uno dei fisici piu’ importanti del Novecento, non l’ultimo arrivato. Chiedere che il nome sia scritto giusto non mi pare troppo.

  13. Perfetto, secondo me, il commento di Wu Ming 4: non c’è puro pessimismo antropologico – quello che ha fatto impazzire certi recensori di destra…- così come una lettura neo-evangelica del romanzo è una deriva interpretativa. La strada ha questa forza perché porta ad un livello davvero trascendentale questo rapporto filiare, questo senso della “staffetta” nel mondo che ha dentro sempre, qualunque siano le condizioni, una possibilità. Una chance di portarsi il dolore ma anche il riscatto di essere umani.

  14. La Strada è un romanzo che ho letto negli ultimi tempi e ha cambiato la mia vita (soprattutto letteraria, ma non solo). E’ un testo perfetto. Anzi, è IL testo perfetto. Poi ho letto Non è un paese per vecchi e l’ho trovato un noir mozzafiato, senza l’aggressione verso il lettore che i Coen esercitano verso lo spettatore, cioè nella scrittura non vi è la violenta caduta di tensione per la morte del fuggiasco, mentre vi è nel film, che fa identificare lo spettatore col fuggiasco e poi lo distrugge così, con sadismo registico.
    Scopro Mc Carthy a poco a poco, senza la voracità che di solito si impadronisce di me, perché l’impatto che ha su di me lettore un talento come il suo potrebbe essere travolgente, troppo.
    L’intervista è molto americana, interessante nella sua straordinaria semplicità.

  15. LA STRADA non è un libro esclusivamente pessimista, lo è molto di più MERIDIANO DI SANGUE, che però a mio avviso è un libro migliore. In assoluto il miglior libro di McCarthy è SUTTREE, una specie di moderna ODISSEA. Quanto all’autore, è fra i più grandi contemporanei viventi e non, con un piccolo difetto: tende a parodizzarsi, a mccarthyzzarsi un po’, lui insomma così rude tende qua e là a piacersi.

  16. Avete letto la recensione di Gamberetta a La Strada? Non centra niente con le dissertazioni letterarie che si fanno qui. Però sono un punto di vista in un certo senso sanamente estraneo alla letteratura…

  17. Che l’atmosfera generale de “La Strada” sia pessimistica è indubbio. Ma sinceramente non vedo cosa ci sia di pessimista nel finale in cui il sacrificio del padre consente al figlio (cioè al futuro, alla speranza) di raggiungere i “buoni” e ritrovare una possibile comunità. Speranza flebile, ridotta all’osso, non per questo meno riconoscibile, anzi, più essenziale e riconoscibile.

  18. C’è molta speranza nel finale di “La strada”. Se non è un libro ottimista è un libro che vuole farti sperare, anche al di là di ogni realistico pessimismo.
    Non ho figli, per cui a fine lettura sono andato ad abbracciare la mia compagna, va bene comunque.

  19. Non so chi sia Sascha, ma sono d’accordo con lui. McCarthy avrebbe meritato di ottenere il successo di vendite con la Trilogia della frontiera. Invece ha ottenuto (solo) il successo della critica. Per vendere ha dovuto andare sul grand guignol, e questo mi dispiace tremendamente perché, anche così, McCarthy resta grande: un grande che si butta via.

  20. Grand Guignol? In un libro nel quale al posto di una (intuibile) scena alla Romeo, o Argento, o peggio alla Saw o Hostel (la sorte dei prigionieri nella cantina, dopo che il padre ha portato il figlio altrove), c’è solo un eco di urla che dura lo spazio tipografico necessario per nominarlo? Mah…

  21. Scusa Paolo S. come fai a dire che la recensione di Gamberetta è ‘sanamente estranea alla letteratura’? A me pare che ci sia dietro una precisa idea della letteratura o forse, meglio, della scrittura.
    Leggo poco Gamberetta, e quel poco che leggo in genere mi piace, però quella de ‘La strada’ non è una recensione, ma un esame autoptico.
    Per molti versi interessante ed istruttivo, e gli intenti sono – se non ho capito male – dichiaratamente pedagogici (guarda come scrive, prendi quello che può esserti utile, butta tutto il resto).
    Ma sezionare un cadavere non è esattamente capire che cos’è un essere umano. Gli studenti imparano sicuramente molto da un’autopsia, ma se pensano di aver capito qualcosa della persona di cui gli hanno spiegato per filo e per segno gli organi inerti mi sa che si fanno qualche illusione.
    E poi, scusa, che significa alla fine ‘non c’è niente di wonder’? Lo aveva detto all’inizio di sapere che non era un libro fantasy, e allora?

  22. Concordo con Wu Ming 4 delle 2.36 su pessimismo/ottimismo, però mi chiedo: ma perché bisogna “riscattare” un romanzo se per caso è pessimista? Cioè, dobbiamo chiedere agli scrittori di stare sull’ottimista, mentre scrivono, perché altrimenti un romanzo cosiddetto pessimista è disdicevole?

  23. @ Baldrati
    Più che altro oggi (ma per tutto il XX secolo) è l’ottimismo a doversi giustificare: la speranza dev’essere dosata con estrema parsimonia, altrimenti si passa per poco seri, mentre la disperazione può essere diffusa a piene mani e si passa per ‘pensosi’ dato che, si sa, viviamo in tempi terribili, basta guardare la tivù…

  24. Stimolato dalla discussione ieri sono andato in biblioteca e ho ripreso La Strada e l’ho riletto.
    Continuo a non essere convinto, anche se ho cercato di leggere il romanzo dal punto di vista della speranza. Ma questo ha focalizzato di più il vero problema, per me.
    Una (secondo alcuni la) tendenza della cultura americana è quella della fuga del maschio dalla civiltà, rappresentata dalla donna. Donna e civiltà castrano l’uomo mentre la libertà è quella dell’uomo solo o in gruppo con altri maschi, in viaggio o in lotta contro la natura e il Male, lontani dall’affollamento, dalle regole, dagli interessi. Si intende che la civiltà sia inevitabile, da cui il tono di rimpianto di tanta arte americana, sia high che low.
    Nella Strada fin dall’inizio sono scomparsi sia la società, travolta da un disastro non precisato, che la donna, suicida. Quel che resta non è la libertà, anzi è un inferno puro e semplice: la fantasia di libertà mostra il suo vero volto. Ma in cambio l’uomo ha la possibilità di mostrare un eroismo assoluto, senza se ne’ ma. La società non c’è, gli altri sono un pericolo o non aiutano ma soprattutto la donna ha preferito la morte al dovere di proteggere il figlio: nulla osta all’uomo di mettere in gioco tutto se stesso. Così, per quanto possano soffrire i personaggi McCarthy ha, esteticamente, la sua botte piena e la sua moglie ubriaca…
    Leggendo con lo spirito del lettore di fantascienza non potevo fare a meno di chiedermi quale fosse stata la catastrofe. L’unica cosa certa è che non è stata lenta e graduale ma improvvisa e devastante (niente global warming, troppo poco eroico): una guerra atomica o un meteorite?
    Il pensiero cattivo era ‘se in un romanzo di fantascienza non ti spiegano cosa è successo rivuoi i soldi indietro; ma se è un romanzo d’arte puoi anche farne a meno e ti dicono pure bravo’.
    McCarthy come Kafka, ma senza rinunciare ne’ al pathos ne’ all’avventura: a differenza di K. l’Uomo agisce, decide, spara.
    Piuttosto, se la catastrofe fosse precisata si aprirebbero questioni che McCarthy non ha interesse ad affrontare: ha messo a nudo la fragilità dellla nostra civiltà e morale, d’accordo, ma non sarebbe la stessa cosa se fosse stata opera dell’uomo oppure puramente naturale.
    Lasciando da parte l’altra questione, quella di come il mondo avrebbe reagito a una catastrofe così immane: l’evidenza storica porterebbe a un certo ottimismo (ricordo il libro della Solnit di cui avevo parlato) ma si trattava di disastri limitati, mentre questo, implicitamente, è mondiale (tutto il pathos evaporerebbe se, per un attimo, pensassimo che in Europa o in Asia la vita tira avanti).
    Detto questo viene da pensare che in mano a uno scrittore minore la faccenda sarebbe naufragata nel ridicolo dopo una ventina di pagine.

  25. L’altro fastidio della Strada è relativo alla ricezione da parte del pubblico, cioè il fatto che con questo romanzo McCarthy abbia ottenuto il successo più vasto possibile che non aveva ottenuto in precedenza, pur avendo sempre avuto un suo pubblico e l’entusiastica approvazione della critica.
    La perfezione di cui parla Baldrati secondo me McCarthy l’aveva raggiunta con la Trilogia della Frontiera. Lì, non avendo cui appoggiarsi che un genere esangue e poco popolare, il western moderno, McCarthy aveva imposto il suo mondo, senza doversi appoggiare alle risorse di generi più popolari, solo in forza di uno stile che ci aveva costretto a vedere di nuovo scenari, umani e naturali, ormai usurati dalla troppa familiarità. E se proprio volete della violenza, beh, ce n’è più a sufficienza ma in un mondo comune in cui la gente vive e dorme e cena solo più vivido del nostro…
    Invece…
    Non è un paese per vecchi si appoggia, magistralmente, alle convenzioni del noir. Funziona alla grande e il simbolismo di Chigurh è ben piantato in un mondo reale. Inoltre, sarà anche vero che è meglio essere buoni che intelligenti ma la rovina di Moss è provocata da un suo rimorso di coscienza, non dal suo furto…
    Meridiano di Sangue, sì, ci siamo divertiti. La parodia del western spaghetti portata a un punto tale da essere infilmabile, Harold Bloom entusiasta…
    E poi la Strada dove, secondo me, la cosa comincia a mostrare la corda.
    L’articolo letterario più triste del 2009 l’ho letto sul Corriere. Commentava l’ultimo romanzo di Thomas Pynchon, Inherent Vice (non ancora tradotto), un romanzo più semplice dei grandi monoliti pynchoniani (Gravity’s, Mason e Dixon…) nella linea dei ‘divertimenti’ (The Crying, Vineland). Ma soprattutto Inherent Vice è un giallo con tutti i crismi con tanto di soluzione finale. Cosa che nell’articolo permetteva a vari luminari del genere (Michael Connelly! Andrew Wachss!) di accogliere con condiscendenza il figliol prodigo: ecco, ora hai capito come si fa, basta con quelle menate che non piacciono alla gente, il giallo sì che spiega la vita, hai visto i giornali? la tivù? Ah, signora mia, che tempi, non si può più essere sicuri nemmeno a casa propria…
    Che McCarthy sia la Trilogia della Frontiera è idea mia: magari invece l’ha scritta con sforzo e preferisce queste incursioni nei ‘generi’ che alla fine gli hanno portato maggior successo: ma non posso fare a meno di pensare a un abbassamento di tensione e potenza…

  26. Due ultimi pensierini cattivi.
    ‘2012 per le masse, La Strada per l’elite. Le masse si sono divertite – continuavano a ridere ed applaudire allo schermo – l’elite invece potrà mettere in mostra la sua pensosità e sensibilità…’
    Certe scene, certe atmosfere, certe descrizioni mi facevano venire in mente la Russia o la Siberia. Se La Strada, per il resto del tutto identico, avesse un autore russo e s’intendesse svolgersi in Russia ci farebbe lo stesso effetto? ci commuoverebbe allo stesso modo? l’avremmo mai letto? ne andremmo a vedere il film russo, con attori mai sentiti nominare?

  27. Ecco un’altra ottima lettura fatta grazie a questo blog. Grazie Loredana.
    Immenso, anche se ho avuto l’impressione di averlo già letto; mi ha riportato alla mente alcune scene di “Io sono leggenda”. La mia memoria è piena di questo tipo di immagini post-catastrofe; almeno su ciò, forse, ha ragione Niki Lismo del 10 gennaio (7:47), e ha ragione Sascha nel non esaltarlo troppo.
    Immenso, quindi, con riserva. Però è una riserva gustosa. E non è poco.
    Sull’ottimismo, francamente, proprio non riesco a coglierlo. Il finale dice proprio il contrario: una volta i salmerini saltavano e ti davano gioia; solo che era una gioia solo percepita, poiché nel loro dorso era già segnato il divenire del mondo: non si poteva rimettere a posto, non si poteva aggiustarlo.
    Rispetto al parallelo fatto con Beckett: è solo apparente. Riguarda la secchezza delle frasi, l’incedere a sbalzi della lingua, la sua capacità di piegarla alla descrizione, forse il “clima” (il girare a vuoto)… La differenza ra i due autori è nel fatto che a Beckett non interessavano le “storie”, mentre McCarty è tutto sulla vicenda narrata. È, direi, una differenza di non poco conto, e i cui esiti differiscono radicalmente …
    Saverio

  28. Sì, Valeria, anche secondo me la recensione di Gamberetta ha molto a che fare con la scrittura, ma ben poco con la letteratura. Trovo il tuo paragone dell’autopsia azzeccatissimo. C’è una specie di voluta ignoranza del valore letterario, sostituito da una asettica valutazione delle capacità tecniche.
    E il mio ‘sanamente’ ha una valenza ambigua, innanzitutto per me e il mio modo abituale di leggere e valutare ciò che leggo.
    In un certo senso, mi ha fatto vedere delle gabbie di pensiero che manco sapevo di avere. Quindi, ho visto esattamente ciò che tu dici, non ho condiviso buona parte dei contenuti ma ho trovato molto sano il gesto di appropriazione compiuto da Gamberetta. Non posso proprio farlo mio, ma non trovo giusto etichettarlo e sbarazzarmene. Ci devo pensare su… e la tua immagine dell’autopsia mi aiuta a meditarci!

  29. Sascha, hai sostanzialmente ragione, è un libro pessimista; ma considerato che siamo davanti all’autore di MERIDIANO DI SANGUE uno spiraglio d’ottimismo (sotto forma di vaghissima speranza nella sopravvivenza del figlio) c’è.
    Sulla questione della donna: la caratterizzazione dei personaggi femminili, e più in generale la resa della psiche femminile è a mio avviso il vero punto debole di McCarthy: tutte le donne dei suoi libri sono piatte, scontate, monotone anche quando dovrebbero avere fascino e carisma. Del resto nell’intervista lui stesso allude a questo problema e lo ammette.
    Sul valore del libro torno a ripetere: MERIDIANO DI SANGUE e SUTTREE valgono di più.

  30. il migliore non c’è un cazzo da dire. E noi ancora con i carofigli, staming e compagnia danzante. La letteratura europea e italiana non ha più niente da dire che non sia ammuffitto, già visto o minimo (non minimalista)

  31. Saverio, il mio “immenso” all’inizio del thread era riferito all’autore non al romanzo. Anch’io ritengo che i suoi romanzi più grandi siano altri. Meridiano di Sangue e la Trilogia della frontiera su tutti… Però se ci pensi sono romanzi che hanno finali più tragici di quello de La Strada (che però, paradossalmente, nel complesso è un romanzo molto più greve). Penso all’ecatombe di MdS, o all’infanticidio (con allusione al cannibalismo) de Il Buio Fuori, all’amore negato di Cavalli Selvaggi, alla solitudine e alle lacrime finali di Oltre il confine, o all’amore impossibile e fatale di Città della pianura. Per non parlare di Figlio di Dio…
    Almeno nel finale de La Strada uno ce la fa e questo inevitabilmente allude a una speranza per l’umanità. Che poi è il fondamento del rapporto genitore-figlio.
    Sui personaggi femminili… La letteratura di McCarthy è “al maschile”, non ci piove, cioè le donne sono viste comunque da occhi maschili. E’ una scelta. Così come è una scelta l’aver tolto di mezzo la madre dal nucleo famigliare de La Strada. Una soluzione narrativa a mio avviso poco plausibile: non mi suona bene che una donna si separi in quel modo dal proprio figlio. Ma provo a interpretare la scelta di McCarthy per come la vedo io anche alla luce dell’intervista. Lui voleva raccontare del rapporto padre-figlio maschio. Ovvero maschio alfa – maschio beta. E’ l’essenza di quella relazione che gli interessava e ha scelto di stagliarla su uno scenario estremo, quasi primordiale: lo stato di natura nudo e crudo. Sacrificio, tutela, educazione alla sopravvivenza (alla vita), trasmissione di tabù, cioè di un barlume etico. In questo il padre ha successo, anche se gli costa la vita. Ma è così, a tutti i padri costa la vita, prima o poi. E devono andarsene dopo averla infusa in qualcun altro e averlo accompagnato per un tratto di strada importante, affinché possa poi continuare il cammino da solo.

  32. Ma fa un po’ peggio che eliminare la madre: la mette in cattiva luce rispetto al padre.
    ‘Holding it with a certain elegance…’ – finisce che la donna pare un ostacolo al profondo rapporto padre-figlio.
    La rappresentazione della donna è un limite di McCarthy, certo, ma in generale un limite del romanzo americano (e forse un motivo della sua popolarità).

  33. @Paolo S. ho trovato anch’io interessante la recensione di Gamberetta, anche se non la condivido nella sostanza. Ha un metodo di analisi che non mi appartiene, di cui non sarei nemmeno lontamente capace in realtà, ma proprio per questo molto utile.
    Per quel che riguarda l’esclusione della madre, da donna potrei parlarne per ore, ma proprio per questo preferisco chiudere qui.

  34. A me non viene voglia di dire se “La strada” sia migliore o peggiore, più pessimista o più ottimista di “Meridiano di sangue”. Trovo che i due libri svolgano due diversi, anche se complementari, discorsi sul tma del male, che è una delel cifre di McCarthy. “Meridiano di sangue” contiene (tra le tante cose) una durissima considerazione sulla presenza del male nella storia, sull’attribuzione all’umano, e non al divino, della responsabilità del male, e sull’origine stessa degli Stati Uniti da un banco di macelleria. “La strada” non parla del male ontologico, ma delle scelte morali dell’uomo di fronte al male dispiegato. In questo senso, in “Meridiano” non era possibile un finale consolatorio, mentre è il tema stesso di “La strada” a permettere un’opzione. Che Cormac McCarthy abbia scelto quel finale, potendo concludere in modo diverso, è un elemento decisivo. E credo che non sia casuale che a vedere la speranza in “La strada” sia, tra i molti qui intervnuti, una picocla comunità di padri (tra i quali sono anch’io)

  35. Mi dispiace contraddirti, Girolamo, ma anch’io sono padre, e proprio di un bambino di 11 anni, come quello de La strada, e non ho proprio colto la speranza nel finale del romanzo. Ma, davvero, al di là dell’immagine salvifica dell’uomo buono che accoglie il bambino una volta morto il padre, resta il mondo così com’è: che non si può rimettere a posto, che non si può riaggiustare. Questo dice il finale. Il bambino, e la comunità dei buoni dove andrà a vivere, anche se ancora in vita, restano all’interno di un contesto inquietante, disperante: non c’è alcun elemento, all’interno del romanzo, che quella comunità riuscirà a salvarsi dalle aggressioni dei cattivi. Anzi, visto l’andamento della vicenda, tutto farebbe presupporre un’ulteriore tragedia … Se il testo deve essere l’oggetto di attenzione dello sguardo del lettore (che è sempre interprete), credo che, almeno sul piano critico, sia astuto accantonare la propria condizione biografica …
    Saverio

  36. Diciamo che è McCarthy stesso, nell’intervista, a chiamare in causa la dimensione biografica… Ma soprattutto: è chiaro che non sappiamo che fine farà quel bambino affidato all’uomo buono. Come dice Saverio, non c’è alcun elemento all’interno del romanzo che ci dica se riuscirà a salvarsi dalle aggressioni dei cattivi. Potrebbe finire malissimo un minuto dopo, o invece bene, ritrovare una comunità in cui crescere e nel corso degli anni riaccendere un barlume di civiltà. Vinceranno gli antropofagi o i “buoni”? Non lo sappiamo, McCarthy non ce lo dice. Perché una risposta non c’è, la battaglia è perenne, e riguarda tutti, ieri, oggi e domani. Ma il finale è aperto, ovvero tragico e speranzoso assieme, incentrato su una morte e una sopravvivenza. Tuttavia l’accento, proprio per come si dà il sacrificio del padre e il passaggio di consegne al figlio, è sbilanciato sul secondo elemento. Come è naturale che sia.

  37. Sono molto d’accordo con Wu Ming 4.
    Non ho condiviso ovviamente il modo in cui MC descrive e sopprime la donna, ma non voglio focalizzarmi su questo.
    Anche per me ‘La strada’ è un romanzo sulla paternità, un grande romanzo.
    Non insisterei con la coppia di opposti pessimismo vs ottimismo per decidere dove si posiziona l’ago della bilancia.
    La positività del romanzo, che non vuol dire ottimismo, sta nel fatto, secondo me, che il padre assume stoicamente e fino in fondo la funzione di padre, e porta a termine le sue consegne, etiche, culturali e tecnologiche, nella più totale incertezza del futuro. Anzi, se qualche certezza c’è da parte sua, è sbilanciata più verso una visione di morte che di vita, per sè, per il figlio, per il mondo.
    In uno scenario di cupa apocalisse non mi pare nemmeno che MC si abbandoni a condanne moralistiche nei confronti della tecnologia, anzi. La maggior parte di quello che il padre consegna al figlio è sapere tecnico, tutto ciò, quel minimo, che della tecnica si è salvato va conservato e tramandato scrupolosamente. C’è qualcosa di molto commovente e tragico in questa consegna.
    Il padre ha la tecnica, il figlio ha l’amore. I semi di un nuovo, e rinnovato, futuro ci sono.
    Per questo, secondo me, la madre è stata suicidata all’inizio. Perché, coincidente in pieno con il più vieto stereotipo misogino, è identificata con la natura, incapace di qualsiasi progettualita e di qualsiasi visione che vada al di là del presente e del contingente. Incapace, insomma, di cultura.
    Ed è questo che proprio non riesco a perdonare al grande Mc.

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