NON E' UN PAESE PER MORTI

Il fatto che in questa città e in non poche altre del nostro paese non si riesca a dar sepoltura ai morti è inenarrabile, indecente, intollerabile. E se la situazione si è di certo aggravata con la pandemia, anche prima non era diverso. Adesso passano settimane e persino mesi prima di potersi congedare dai propri cari. Ma questo è un problema endemico. Questo è quello che ho scritto nel 2014. E non passa, nonostante gli anni.
Arriva, infine, dopo un’ora e mezza.
Un’ora e mezza in cui hai messo alla prova ragione, sentimento, ricordi, paure. Tutto ciò che contribuisce a comporre la parola mancanza. O, se si preferisce, la parola lutto.
Che si possieda o meno una fede, la cerimonia dell’addio è quella a cui è impossibile rinunciare. Di cui si ha anzi un disperato bisogno affinché la tua mente, o se si preferisce il tuo cuore, “mettano le cose a posto”, ovvero ti aiutino a prendere consapevolezza che nulla sarà più come prima, che il tuo essere nel mondo è irrimediabilmente diverso da ora e per sempre, che non potrai più essere sventatamente e lievemente figlia, ma che sei solo madre, e da quel punto di vista, quello del tuo passato, sei altrettanto irrimediabilmente sola in quello stesso mondo che hai conosciuto fin qui.
Dunque, hai bisogno di dire addio, secondo le cerimonie che hai a disposizione. Di piangere e salutare e portare i tuoi fiori anche se hai la perfetta consapevolezza che appassiranno in poche ore, ma va fatto. Di onorare il desiderio tante volte espresso da lei, tua madre, di essere sepolta accanto a tuo padre.
Ma questo, nella nostra capitale-corrotta-nazione-infetta, non è possibile se non toccando con mano l’orrore, l’ignominia, la mancanza di dignità, l’indifferenza e il disprezzo tributati ai morti. E  ai vivi che li piangono.
Provate a far cremare una persona cara che avete perso. Certo che è possibile: previa attesa che varia da cinque a dieci giorni. A me è andata bene: ce ne sono voluti sei. In cui ti sforzi di non pensare il luogo dove chi hai amato attende il proprio turno. In cui sei ancora incerto e sospeso nella tua cerimonia dell’addio, perché non sei riuscito a dirlo. Perché te lo rateizzano.
Dunque, passano sei giorni e poi altri cinque, perché le tumulazioni nel cimitero Flaminio sono tante e c’è la fila anche là, e naturalmente,, signor presidente dell’AMA, sappiamo bene quanto sia grande questa città e, oh, sappiamo i problemi dell’invecchiamento della popolazione e, oh, anche dei vostri bilanci traballanti.
Ma è indegno, inumano, ingiusto, feroce, barbaro il modo in cui viene affrontata la morte in questa città.
Perché dunque arriva, dopo un’ora e mezza di attesa, nella tristissima cappella del cimitero Flaminio progettata da uno sconosciuto e inverecondo burocrate che ha immaginato di trattare i morti come prodotti da esporre negli scaffali di un supermercato, senza luce, senza un minimo di accudimento, mucchi di immondizia e fiori marci e, certo, una scopa e una paletta e un cassonetto lasciati alla pietà dei vivi affinchè provvedano a ciò cui chi dovrebbe non è in grado di provvedere.
Arriva dunque  l’addetto dell’AMA, su un camioncino AMA identico a quelli della nettezza urbana, e afferra l’urna cineraria come la borsa della spesa, e mica dice “condoglianze” o almeno tace, come si dovrebbe, ma quasi litiga col muratore in attesa dicendo “aò, mica è corpa mia, nun l’ho visto sto foglio” (il foglio porta il nome di tua madre, ma per lui è “sto foglio”), e non solo, sale sulla scala per scalzare la lastra di cemento e naturalmente il cellulare gli squilla in tasca e mentre porta alla luce la bara di mio padre lui parla al telefono, “mo’ ci ho da fa’, te richiamo”, e subito dopo il muratore borbottando lo raggiunge ricordando che lui “so’ trent’anni che fa questo lavoro”.
Questa, signor sindaco di Roma e signor presidente dell’AMA, è stata la mia cerimonia dell’addio.
Vergognatevi.

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