“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura. A volte, quando lavoro fino a tardi vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza”.
(Adriano Olivetti, Un secolo troppo presto)
Non c’è molto da aggiungere. Se non che questa è la risposta migliore all’orrore delle dichiarazioni rilasciate ieri dal presidente di Confidustria Macerata, Domenico Guzzini, e di quella frase (“”Le persone sono un po’ stanche e vorrebbero venirne fuori, anche se qualcuno morirà, pazienza”) davanti alla quale non esistono scuse, non esiste possibile assoluzione.
Perché non si tratta solo di dire la cosa sbagliata: questa non è una gaffe, una mancanza di tatto, un’ineleganza. E’ il Sistema non nuovo che ci troviamo davanti, messo a nudo, in questi mesi. Se non compriamo non solo le insalatiere e i contenitori Guzzini, ma se non ritroviamo in fretta quell’abitudine a incamerare oggetti, le nostre vite non contano.
Nel 1994 studiavo un testo interessante, che spiegava questo: ai tempi di Henry James un personaggio di The Bostonians indovina il carattere e i gusti della cugina osservando attentamente i suoi divani, gli acquerelli, i libri ordinati in scaffaletti simili a mensole, “come se un libro fosse una statuina”. Il protagonista di The Ambassadors che accede alla dimora parigina di Madame de Vionnet, ne intuisce l’ orgoglio di casta dall’accurata esposizione di miniature e medaglioni, “non volgarmente numerosi, ma ereditari, prediletti, squisiti”. A Henry James si sono rivolti un’ antropologa e un economista, Mary Douglas e Baron Isherwood, autori de Il mondo delle cose, per spiegare che gli oggetti sono i cardini di un sistema di informazione. Già nel 1994 il signor Strether di The Ambassadors avrebbe dovuto fare i conti non più con medaglioni e miniature: ma con essiccatori per funghi e asciugascarpe, scacciatopi a ultrasuoni, aspiratori d’ aria per buste da frigo e rivelatori d’ acqua contro lavatrici debordanti. E’ stato calcolato che agli inizi del secolo scorso una famiglia di quattro persone manipolava duecento oggetti contro i tremila di fine Novecento: tremila “cose” di cui non sempre erano chiare l’ utilità, l’ appartenenza o meno alla categoria del superfluo, la modalità d’ impiego. Oggi sono molte di più.
E fin qui ci siamo, ed era persino accettabile fino a quando una frase malaccorta ha messo sul piatto quello che ci era noto, ma che così è in piena luce. Le nostre vite non sono che insignificanti ingranaggi di un meccanismo morente. Magari, vale la pena di riprendere in considerazione Olivetti.
“Beh, ecco, se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”.
(Adriano Olivetti, Un secolo troppo presto)
mah, io mi sento più a sinistra di sinistra e più sensibile del sensibile, ma questo linciaggio di guzzini in nome del politically correct francamente non lo capisco… ma che ha detto? ogni volta che usciamo di casa, che scriviamo una frase, che mangiamo la nostra merendina la mattina facciamo una scelta del genere, portiamo pazienza perchè qualche altro sta morendo al posto nostro… col covid e le malattie è proprio anzi proprissimo lo stesso…
Politically correct un par di palle, tanto per essere scorretta. Non dica idiozie.
Caro liviobo, ricordo che quando Johnson si permise di dire che ogni inglese avrebbe dovuto calcolare e tollerare almeno 3 o 4 morti in famiglia pur di non fermare l’economia, ci levammo tutti sdegnati (soprattutto noi italiani) tuonando che era immorale sacrificare delle vite per il vil danaro. Ricordo le vignette e i meme saracastici su di lui, alimentati dal patriottardo sentimento mai sopìto contro la “Perfida Albione”. Stesso trattamento riservammo a Trump e Bolsonaro. Ma all’epoca ci sentivamo i migliori, sfilavano le bare a Bergamo ed eravamo terrorizzati. Soprattutto non avevamo capito il senso del “fare sacrifici” perché ancora non ci avevano toccato direttamente in massa.
Oggi che la pandemia è ridotta dai massmedia a una banale elencazione di numeri statistici e che le difficoltà economiche dilagano insieme alle disuguaglianze sociali, le persone che si ammalano e muoiono non contano più nulla perché le abbiamo ridotte allo stato di Auschwitz: dei gelidi e anonimi numeri, per l’appunto (che, peraltro, in sé sarebbero pure terribili, ma ormai non ci rendiamo conto neppure di questo!). Finché, naturalmente, la pandemia non ci tocchi di persona (e così abbiamo ripreso a relegare nel privato un dramma collettivo).
Proprio mentre il virus mutato sta contagiando sempre più persone in giovane età costringendone una parte alle cure ospedaliere ma consegnandone pure un’altra direttamente alla morte, si sono aperte le fogne pubbliche a dar libero sfogo ai peggiori (ri)sentimenti collettivi: è toccato prima agli immancabili migranti (peccato che, data la loro provenienza geografica, siano tra coloro che meno diffondono la malattia, ma tant’è…), poi ai vecchi (Toti -eletto in una delle regioni più longeve d’Italia- docet) e ora a tutti gli ammalati di Covid in genere. In pratica siamo riusciti a diventare peggio del Johnson di qualche mese fa, il quale, però, nel frattempo ha imparato la lezione sulla sua pelle e sta applicando nel suo Paese misure ben più draconiane rispetto alle nostre a volte fin troppo “sgangherate”.
E allora, per essere politically uncorrect come il mio conterraneo Guzzini, potrei risponderle che, dato che “la gente è stanca”, può anche morire lei di Covid pur di far andare avanti la vita e l’economia; ma siccome sono un inguaribile buonista non lo faccio e la invito invece a riflettere sull’imbecillità di quanto è stato dichiarato dall’ex Presidente di Confindustria Macerata.
P.S.: In Italia non c’è MAI stato un problema di eccesso di linguaggio pubblico corretto, la perenne (ormai stantìa) accusa di “buonismo” è sempre servita solo a mascherare l’eccesso di “cattivismo” e di intolleranza che dilaga da anni nel nostro Paese e che è stata ampiamente adottata nel discorso pubblico fungendo da pessimo esempio e da volano per note carriere politiche. Non confondiamoci con gli Stati Uniti e con altre Nazioni dove questo problema esiste davvero portando a interessanti quanto imbarazzanti paradossi, per favore.