PATRIMONIO: DA DOVE VIENE LA PRATICA DI DE-UMANIZZARE

Una delle domande più frequenti che sento porre in questi giorni è “perché ci commuoviamo per i ragazzini nelle grotte thailandesi e seguiamo col fiato sospeso le operazioni di salvataggio, mentre i corpi di altri bambini affogati suscitano reazioni divisive, sospetti di fake e di complotti?”. Naturalmente non ho la risposta. Così come non vorrei cadere nella solita trappola voi mostri noi buoni, banalmente perché non serve. E non è neppure del tutto vera, o almeno non in questi termini. Ancora una volta è una questione di linguaggio e contesto. Ieri a Fahrenheit Chiara Volpato rifletteva sulla deumanizzazione. Che è una pratica, non una divisione tra bene e male. La gran parte degli sms diceva, grosso modo, come vi permettete di darci dei disumani? Ecco, proviamo a continuare la riflessione. Cosa significa deumanizzare? Da dove parte quella pratica? Qui un intervento di Volpato stessa, di qualche anno fa:
“Il mito degli “Italiani brava gente” non costituisce una peculiarità italiana. Ogni colonialismo europeo è stato accompagnato da analoghi strumenti di autoassoluzione nazionale (Labanca, 2005; Vala, Lopes & Lima, 2008). Dopo un certo periodo, però, questi strumenti sono stati oggetto di analisi storica e di discussione politica, che hanno condotto le maggiori potenze coloniali ad assumersi, almeno parzialmente, la responsabilità delle azioni passate. La Gran Bretagna, ad esempio, ha stabilito attraverso il Commonwealth un diritto preferenziale di migrazione verso il proprio territorio per i cittadini provenienti dalle ex colonie. Allo stesso modo, la Francia ha per decenni facilitato l’immigrazione e il diritto di cittadinanza agli immigrati provenienti dai territori d’oltremare. Quello che distingue la situazione italiana è, invece, la durata della rimozione, l’impermeabilità dell’opinione pubblica di fronte agli inviti alla riflessione critica sul comune passato, la straordinaria persistenza del mito del bravo italiano e la sua capacità di continuare a influenzare opinioni e comportamenti. L’Italia non ha mai posto in atto sostanziali strategie di riparazione nei confronti delle ex colonie. Il governo italiano è stato criticato nel 2010 dalla Human Rights Watch e da altre agenzie europee per aver indiscriminatamente respinto migliaia di migranti provenienti da Eritrea, Somalia, Etiopia. Le strategie di riparazione attuate dalle istituzioni italiane sono state sporadiche e prevalentemente simboliche: il governo si è limitato a scusarsi nel 1997 con il presidente etiope per i crimini passati e, solo dopo molti rinvii, ha restituito all’Etiopia l’obelisco di Axum.
Il mito del bravo italiano opera quindi ancor oggi profondamente nella coscienza della nazione; particolarmente importanti sono i suoi effetti sugli atteggiamenti e sui comportamenti degli italiani nei confronti degli immigrati. Come è noto, nei primi anni Novanta l’immigrazione ha investito prepotentemente e, per quanto riguarda l’opinione pubblica, inaspettatamente, una società italiana impreparata e ancora una volta in ritardo rispetto a quelle società europee che avevano già da tempo accolto al loro interno numerose comunità immigrate. Di fronte all’imponenza e alla subitaneità dei flussi migratori, la nostra società ha reagito facendo ricorso al patrimonio coloniale di immagini, credenze, atteggiamenti, un patrimonio che si credeva scomparso, ma che si è invece rivelato ancora vitale. Lo prova una ricerca, condotta con strumenti antropologici da Paola Tabet (1997), la quale ha mostrato come i bambini nati negli anni Ottanta ponessero in atto, di fronte agli immigrati, atteggiamenti e vissuti che attingevano direttamente all’immaginario attivo nella prima metà del Novecento, nel quale l’Africa appariva come un Eden selvaggio e incontaminato – il regno di Tarzan – popolato da abitanti primitivi e bisognosi di tutto. Da queste “caverne immaginarie di un’Africa preistorica” parevano arrivare i neri, “chiamati extracomunitari” e “creati poveri”, presenze inquietanti che suscitavano sentimenti di rifiuto, paura e disgusto, misti al desiderio di insegnare loro “la vita degli esseri umani”. Il lavoro di Tabet pone alla ricerca psicosociale una serie di interrogativi, non ancora risolti, sulla persistenza sotterranea delle rappresentazioni sociali del passato e sulla loro capacità di incidere sul presente, al di là della consapevolezza degli attori sociali.
La presenza attiva del mito del bravo italiano nella nostra società si è coniugata con pregiudizi di lunga data, come quello della presunta superiorità “culturale” degli italiani rispetto agli immigrati, contribuendo così alla formazione di una rappresentazione sociale che salda la vecchia immagine dell’indigeno con quella odierna dell’immigrato (Blanchard & Bancel, 1998) e che impedisce di vedere nei nuovi abitanti del nostro paese dei cittadini dotati della capacità di rinnovare e arricchire la vita della collettività (Volpato, 2011b).”

Un pensiero su “PATRIMONIO: DA DOVE VIENE LA PRATICA DI DE-UMANIZZARE

  1. Da dove provenga questa volontà di de-umanizzare è un enigma. Frustrazione, superbia, alienazione… Tante le ragioni, ma non saprei indicare con sicurezza un filo conduttore, una o più linee culturali di massa. Per il medico chirurgo, ad esempio, l’umanità del paziente risulta fuori luogo: egli vede il fegato, la mammella, il colon. A ragione e a torto insieme. Quel colon potrebbe svelare qualcosa di più su di sé se quel medico accogliesse l’umanità del paziente, se non giudicasse inopportune le considerazioni di chi con quel colon, con quella mammella, con quel fegato convive da una vita e, dunque, conosce in modo speciale e inaccessibile al medico chirurgo. Mentre la conoscenza medica risulta quantomeno accessibile, aperta con la regola di apprenderne la nomenclatura.
    Non si assiste forse ad una pratica di de-umanizzazione?
    O, ancora, la volontà di immettere informazioni e nozioni per sentirle ripetere, sminuire le costruzioni originali inascoltandole, talvolta sanzionandole, imporre il criterio pedagogico verso l’esternazione emotiva: non è pure de-umanizzare? Non è forse questa la prassi della scolarizzazione di massa escluse poche, marginali, impotenti eccezioni destinate, data la potenza della prassi, a deperire in una contorta, isolata campagna svilente?
    Senza occupare ulteriore spazio, mi chiedo quale uomo e quale donna abbiano ancora in sé lo stimolo di considerare l’uomo o la donna vicini, che incontrano nelle loro solitudini, come universi da esplorare, nominarne le costellazioni, scoprirne le strutture. Quali uomini e quali donne usano le proprie energie in questa direzione con abitudine, giornalmente?
    Un saluto.

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