QUA E LA'

Lo tiro su dai commenti. Il post di Michela Murgia su altre due pubblicità merita.
In mail, mi è arrivata la fotografia del cartellone sulle poppe più famose d’Italia. Ve lo risparmio.
Sempre in mail, mi arrivano altre risposte-identiche e copiaincollate- della ING sullo spot del contoarancio. Almeno variare, no?
Su Repubblica di oggi, un articolo di Carlos Fuentes sulla scrittura. Finisce così:
C´è chi scrive per essere amato: Dickens, García Márquez.
C´è chi scrive per essere odiato: Céline, Houellebecq.
C´è che scrive per essere gustato: Saramago, Nélida Piñon, artefici della lingua più gostosa, la lusitana.
C´è che scrive per in-vertire: Balzac, Galdós, Dos Passos.
C´è che scrive per sov-vertire: D.H. Lawrence, Juan Goytisolo, Jean Genet.
C´è che scrive per di-vertire: Sterne, Saki, Diderot.
C´è che scrive per con-vertire: Mauriac, Bernanos, Graham Greene.
C´è che scrive per av-vertire: Swift, Voltaire, Orwell.
Temuto, amato, odiato, lo scrittore nasconde il segreto desiderio di essere, al tempo stesso, un disturbo per il mondo che è, e un creatore del mondo che può essere.
Il fine ultimo è, in ogni caso, il lettore e lo scopo dell´autore è avere un effetto sulla vita affettiva del lettore, tendere fra sé e il lettore un ponte per l´intimità anche a costo dell´intimidazione, rinnovare nella lettura lo spirito del lettore e l´esistenza del libro.
Perché sappiamo che il lettore, protagonista del post-meridiano, conosce il futuro. Lo scrittore, no. Inoltre, perché lo scrittore consegni un libro al lettore, deve scrivere una letteratura che crei lettori, non una letteratura che conti lettori.

12 pensieri su “QUA E LA'

  1. Carlos ci ha mostrato la strada da percorrere molto tempo prima di internet dicendo che “uno scrive per vincere la propria solitudine,e la solitudine degli altri(ed è autore di una delle frasi più acrobatiche in circolazione.In spagnolo suona così:”Primero tuvo que dejar de odiar a tomas Arroyo por ensenarle lo que pudo ser y luego prohibirle que jamas fuese lo que ella pudo ser.”Il resto lo trovate qui:
    scribd.com/doc/6630636/Fuentes-Carlos-Gringo-Viejo

  2. Scusate e poi mi ritiro, perché questo è un tema che mi appassione e non vorrei entrare in fissa.
    Copio questa frase dall’articolo:
    “Se ieri sera sapevo quello che avrei scritto oggi, come scriverò adesso quello che prima ignoravo? Credo che la risposta vada ricercata nell´annosa questione del destinatario della scrittura. Sospetto degli scrittori che, fin dal primo momento, proclamano di scrivere per la gente. E detesto gli scrittori che conoscono la ricetta preconfezionata del successo di vendite. Invece mi sento attratto – come da un abisso, è vero – dall´avventura di un mistero iniziale (per chi scrivo?) o dall´onanismo di una giustificazione solitaria (scrivo solo per me), per approdare, nelle mie sette ore di sonno che sono l´altra metà della vita, alla rivelazione dei destinatari concreti: i più vicini, i più cari, quelli che se ne sono andati seguendo la legge del fiume profondo, ad aspettarci in un tempo senza lancette”.
    Ecco, sta qui forse la differenza tra la costruzione di un mito di cui si parlava nell’altro post (e di cui parla, tra gli altri, l’innominabile) e la costruzione di un format (Arisa e il contrario di Arisa, tanto per intenderci)?
    Così, tanto per pensare ad alta voce.

  3. Credo che sia assai meglio la parte postata dalla Lipperini.
    Nel senso che alla fine non esiste mai una sola motivazione per scrivere, né – soprattutto – una più giusta.
    Io non sospetterei neanche di chi scrive dichiaratamente per la gente. La prima idea, il seme da cui parte tutto, è sempre una situazione intima, nel senso che nasce nella testa dell’autore. Ma anche se un nanosecondo dopo tu la uccidi dicendo: “Ma l’hanno già fatta”, oppure “è uscita da poco”, comunque c’è una propria forma d’onestà.
    Un autore, e con questo provo a rispondere alla tua domanda, non pensa mai di costruire un mito e neanche un format. L’unico suo mestiere deve essere raccontare una buona storia e farlo bene. Con onestà. Ma sarà la Storia a determinare miti e leggende.
    Insomma sapeva forse John Ford che con “Ombre rosse” avrebbe creato un film germinale? O anche lo stesso Kubrick con “2001”?

  4. Non lo so, Ekerot, ci sono dei momenti in cui il mio cervello si mette a zompettare attorno a un tema.
    Da un po’ di tempo questo tema è il mito.
    ‘Raccontare una storia con onestà’ fin qui ci arrivo. E la mia impressione è che un format, a differenza di un mito, è costruito con meno onestà e con più consapevolezza, per non dire cinismo.
    Sono ferma qui.

  5. Sì, scusami Ekerot, quando si scrivo su un blog è come se parlassi ad alta voce, quindi spesso uso un lessico personale e impreciso.
    Per me ‘format’ sta per prodotto costruito pensando ad un target di riferimento ben preciso, di cui si siano individuate, con strumenti più o meno sofisticati, alcune caratteristiche.
    Che questo prodotto sia un dado da brodo o un romanzo non fa molta differenza.
    Le canzoni di Arisa che, stuzzicata dal post di Dag, mi sono andata ad ascoltare su youtube, è un format.
    I pupi de mamma se so stufati de sesso? e noi je damo i sentimenti. i pupi de mamma c’hanno un lavoro precario? e noi je parlamo de lavoro precario (pure senza pensione, così speziamo il prodotto con un po di talk). i pupi de mamma se so stufati de feste rave? e noi je damo festicciole in casa, coi genitori, amici parenti, vino rosso e tovaglie a quadrotti rossi e bianchi, ecc. ecc. ecc.
    E’ un panino, sempre lo stesso, che si modifica nel tempo come quelli di mcdonald, che adesso c’hanno dentro l’origano e la pancetta nostrana.
    Non è che, nell’immediato, al format penso di opporre il mito (oltretutto già qualche decennio fa Campbell notava che, almeno per il momento, il nostro terreno culturale è ancora troppo sterile per produrre nuovi miti) ma un prodotto meno plastificato sì, neppure un capolavoro guarda, ma un prodotto meno mistificato e che non sia uscito fuori da un monitoraggio di esperti di marketing.
    Perchè poi io potrei avere pure l’ambizione di entrare in contatto con quei fermenti che, per essere stati intercettati da volpi così sopraffine, sicuramente nella società ci sono, ma da uno scrittore, un intellettuale o chi diavolo sia pretenderei pure un trattamento diverso, una confezione diversa.
    Perchè il format irrigidisce quei fermenti in un modello rigido e in questo irrigidimento sta il pericolo, non nei fermenti in sè, che io considero tutti legittimi.
    Ma questo è stato detto da altri su questo blog molto meglio di me.
    Mi accordo di aver parlato solo di confezioni oneste. Per il momento mi va bene pure così.

  6. Guarda io ti posso parlare per la mia piccola esperienza di piccolo sceneggiatore.
    Quello che tu chiami format è sostanzialmente qualsiasi prodotto audiovisivo originato da una committenza. Forse capita meno raramente nel campo dell’editoria dove uno scrittore deve rispondere solo all’editore e comunque le cifre in campo sono assai inferiori.
    Ma al Cinema e in televisione praticamente il 100% delle opere sono collegate ad un format. E presumo anche nel campo discografico, seppur in via minore.
    Vorrei farti un esempio riguardo all’onestà del prodotto.
    “Elisa di Rivombrosa” è stato uno dei successi clamorosi di Canale 5. Una fiction che si girò unicamente perché, essendo già stati stanziati dei soldi, la rete li avrebbe persi comunque. Così lo girarono senza speranza. Chiamarono lo story editor e lui bene o male tirò fuori un mélo in costume su cui nessuno avrebbe scommesso un cent.
    Si rivelò un successo pazzesco.
    Per la seconda stagione richiamarono lo story editor che voleva apportare un po’ di modifiche alla storia. E invece a parlargli furono gli esperti di marketing. Che praticamente gli dissero: “secondo noi, si fa così, così, così, in tale modo ripeteremo il successo”. L’editor contrario si è rifiutato loro l’hanno costruito a modo loro e puntualmente gli ascolti precedenti NON si ripeterono.
    Nonostante agli occhi esterni tutte e due le stagioni possano sembrare “disoneste”, io ci vedo due grosse differenze. Perché nel primo caso, pur tra mille paletti, l’autore ha avuto una certa libertà di movimento. Nel secondo, era imbrigliato da scelte che con “l’arte” non hanno niente a che vedere.
    Parlo di “certa” libertà, perché com’è noto gli autori dell’audivisivo assai raramente hanno potuto fare quello che credevano, come lo volevano. Welles e Kubrick sono trai pochissimi. Ma, ripeto, Ford che era un semplice “direttore” d’attori non ha forse espresso una sua poetica? un suo stile?
    E poi c’è da aggiungere che i lavori onesti e puri al 100% sono pochissimi, rarissimi. Sono opere spesso rifiutate dal grande pubblico per la loro difficoltà. Spesso e volentieri, ma non c’è niente di eticamente errato in questo secondo me, si accettano tanti compromessi con lo spettatore\lettore\ascoltatore. Proprio perché è lui che compra il biglietto e ti mantiene.
    Sta all’autore l’abilità di seguire il proprio codice samurai e saper dribblare i paletti. E Dio benedica i paletti, aggiungo io!
    p.s. Credo di averti solo in parte risposto, ma non volevo monopolizzare la discussione con una lenzuolata.

  7. Oggi ho visto e ascoltato il grande poeta Bonnefoy a Vicenza, devo dire che ci sono poeti che sanno parlare all’anima, per calmarla, fra una carezza e una pausa ritmica. Non poco di questi tempi alienanti.
    C’è chi scrive per ammansire.

  8. Guarda io non ho niente contro i paletti. Anche le regole di versificazione sono dei paletti, anche quelli dell’oulipo si andavano a capare i paletti più svariati e si martoriavano con regole bizzarre e facevano ottime cose. La forma vive di paletti.
    Non ce l’ho nemmeno con la committenza, anzi sia benedetta sempre la committenza.
    Non credo nemmeno nel mito romantico della cosiddetta libertà degli artisti. Pochi sono stati liberi, ache perchè una delle muse più esigenti è sempre stata la fame.
    Di fronte alle questioni, spesso di lana caprina, che mettono in campo ‘alto’ e ‘basso’ rimango sempre perplessa. Non sono comunque tra qulli che sbavano a tutti i costi per l’alto.
    E potrei continuare con questa sfilza di premesse per ore.
    Però….. tu hai ricordato Welles, bene. Quando girava l’Otello la produzione gli tagliò i fondi e gli tolse non solo i soldi, ma si riprese indietro pure tutti gli abiti di scena.
    E lui, senza una lira, girò una delle scene più suggestive del film, il duello tra Jago e Roderigo in un bagno turco, con gli attori coperti solo da uno straccio sui fianchi.
    Stiamo parlando di un genio d’accordo, però è proprio del genio lavorare nei e sui limiti.
    E, secondo me qualsiasi prodotto viene fuori da un insieme di limiti, i più svariati: canoni estetici, committenza, soldi, salute, tempo, e chi più ne ha più ne metta. Il genio ci fa cose sublimi, il buon artigiano cose buone, la mezza calzetta cose pessime.
    Al di là della qualità dell’operatore, per usare un termine neutro, si tratta di andare a vedere anche la natura dei limiti e il modo in cui vincolano il cosiddetto artista. Tu hai fatto un ottimo esempio.
    Il marketing, che vuole colpire il bersaglio (‘target’ questo vuol dire) in modo chirurgicamente preciso secondo me è un pessimo vincolo, ma proprio pessimo.
    Perché, parliamoci chiaro, colpire l’obiettivo dai tempi dei tempi è sempre stato l’ambizione di qualsiasi artista che con l’arte ci campa. Poteva capitarti di dover colpire il gusto raffinato di un sofisticato committente oppure quello di un pubblico famelico che pagava il biglietto e voleva che tu lo accontassi.
    Eppure c’era sempre uno scarto e una specie di contrattazione implicita. Se vogliamo parlare di up e down per la relazione tra artista e pubblico potremmo dire che l’artista è sempre stato up e il pubblico è sempre stato down, poi la misura della verticalità in qualche modo è stata mediata dai più diversi fattori.
    Il marketing ha ribaltato completamente questa relazione è ha fatto del pubblico l’elemento costantemente up e dell’artista l’elemento costantemente down.
    E, paradossalmente, questa non è affatto una vittoria della democrazia ma del mercato.
    Scusa l’approssimazione del linguaggio, ma io rifletto su queste cose da ‘pubblico’ e, in quanto tale, non mi piace essere titillata, blandita, divinizzata.
    Percepisco in questa attenzione un inganno in cui non voglio essere invischiata.

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