Oh, gli anniversari. Quanto sono ghiotti quando fanno cifra tonda. Quanto ci coinvolgono, sia pure per un giorno, quanto siamo disposti a commuoverci, ad andare indietro col pensiero a dieci anni fa, quando sotto i nostri piedi tremava il pavimento delle nostre case -perché noi si era a Roma, spaventati ma tranquilli (Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, e terra magnum alterius spectare laborem).
L’Aquila, dieci anni fra poco. Cosa è rimasto, cosa è? Leggete l’intervento di Alessandro Chiappanuvoli su Artribune, che termina così:
“Le uniche cose che invece sono nate, le uniche che hanno arricchito il territorio rispetto a ciò che era dieci anni fa, sono legate a iniziative private o individuali. Tanti aquilani, nel terremoto, in quello stato d’indeterminatezza, si sono come trovati, hanno scoperto la propria passione e l’hanno seguita raggiungendo ottimi risultati. Oggi sono fotografi, scrittori, editori, cantanti, musicisti, o insegnanti, professori, ricercatori, e medici, avvocati, ingegneri, architetti, o hanno aperto un bar, un pub, un ristorante, un negozio in un centro commerciale, hanno fondato associazioni, cooperative che lavorano nel sociale o mirano al rilancio del territorio. Molti, purtroppo, sono andati via per cercare la propria strada altrove. Altri, una minoranza, sono rimasti, siamo rimasti – chissà poi perché – e resistiamo con le nostre idee in una città senza idea di se stessa dove per altro le idee dei suoi cittadini faticano indicibilmente ad attecchire. Sopravviviamo, tanto è, in attesa di un ritorno alla normalità che però già sa di beffa, già odora di vecchio, stantio, già incarna i medesimi difetti che c’erano dieci anni fa: «com’erano-dov’erano». Se questa narrazione, che è solo il punto di vista di un cittadino, scrittore e sociologo, pare essere eccessivamente negativa, se non dà sufficiente conto ai tanti sforzi fatti anche in buona fede, che ci sono stati non lo nego, me ne rammarico. Ma solo in parte. In realtà, la mia è una provocazione mirata. Da chi si sente chiamato in causa e offeso mi piacerebbe essere smentito. Vorrei, prove e fatti alla mano, essere attaccato, demolito, colpevolizzato, perché, a essere onesto, ritengo insopportabile, a dieci anni dal terremoto, vivere ancora in una città senza identità, in una città che fatico a riconoscere, in una città che ha avuto, e a carissimo prezzo, la più grande opportunità possibile di rilancio e l’ha sprecata. E spero infine con tutto il cuore che i tanti e differenti territori devastati dal terremoto del Centro Italia, che oggi, a oltre due anni, tra disinteresse politico e rallentamenti burocratici, si trovano nella nostra stessa situazione di allora, non prendano da noi esempio e che, prima di iniziare la ricostruzione delle loro case, sappiano mettere a fondamento della loro rinascita un’idea e un senso identitario profondo di comunità”.
Me lo auguro anche io, ma è con tristezza profonda che, almeno al momento, noto che ogni tentativo di ritrovare quel senso di comunità viene schiacciato da chi considera il terremoto come un’opportunità, sì: per il turismo sulle coste, però.