QUESTA NON E' UNA RECENSIONE

Mi pare di averlo già detto: Come
dio comanda
e la vostra eccetera hanno avuto un rapporto non
facilissimo. Se a qualcuno interessa conoscere le varianti emotive di una
lettrice per professione, sappia che in questo caso sono state decisamente
simili agli stadi descritti da Elisabeth Kübler Ross in Sulla
morte e sul morire:
diniego, rabbia, negoziazione, depressione,
accettazione. Solo che alla fine non di accettazione parlerei, ma di felicità di
lettura.
Per meglio dire: inizialmente mi ha respinto la cupezza del mondo
senza riscatto descritto da Ammaniti, e quello che ho ritenuto –a torto –
essere un canto funebre per una società condannata. Poi, dallo scoppio della
tempesta in poi, ho cominciato a cedere, a capire, e a condividere. Fino a
concludere che, sì, questo è il romanzo più bello di Niccolò (promemoria:
ricordarsi di chiedere dopodomani a Filippo La Porta come fa a sostenere
che la narrativa italiana non ha il senso del male dopo aver letto, e
apprezzato, questo libro). Penso, in sintesi estrema, che non siano molti gli scrittori che sanno raccontare le
disprezzate masse senza appartenervi, e sapendo restituirle alle stesse.

Poi, penso che il mio amico Andrea Cortellessa dovrebbe,
qualche volta, scendere dal suo sopramonte e quanto meno imparare com’è
fatto un manga. La mia non è una recensione, però una stroncatura così
concepita
mi lascia un po’ interdetta.

14 pensieri su “QUESTA NON E' UNA RECENSIONE

  1. ti do’ ragione , Loredana.Anch’io mi domando, ammirata, come faccia Nicolò Ammaniti adescrivere in modo cosi’ efficace epotente il mondo degli emarginati senza speranza; al pari dell’infanzia e dell’adolescenza(li’ ho sempre pensato a una forte influenza del padre , Massimo Ammaniti).
    Si’, decisamente Niccolò Ammaniti ha il senso del male (e anche del bene e della tenerezza, è questo che lo rende, a mio avviso, un grande)

  2. Vabbè, non è una recensione. Però sarebbe utile capire perché lo definisci il romanzo più bello di Ammaniti.
    Io l’ho letto con piacere e d’un fiato, però mi ha dato molto fastidio il palese, troppo palese, tentativo di fare un affresco sociologico del nord-est. A questa descrizione piuttosto superficiale e didascalica, si sommano alcuni aspetti che non saranno manga, ma fumettistici lo sono molto (à la Sin City).
    Cortellessa starà sul Supramonte, ma “Io non ho paura” resta su un piano diverso.

  3. Rigoni, “Io non ho paura” è, semplicemente, un altro libro. Questo, a mio modo di vedere, è il romanzo più bello di Ammaniti proprio perchè trasforma quello che avrebbe potuto essere un affresco sociologico in narrazione. Personaggio dopo personaggio, dalla ragazzina narcisista fino al chirurgo malinconico, va a costituirsi un universo di epica del quotidiano, molto apparentemente innocuo, in realtà ferocissimo.
    Mi hai fatto l’esempio di Sin City ed io non posso che concordare: ma ho l’impressione che di quel film abbiamo opinioni diverse.
    Boe: non è una recensione perchè esprime quello che nelle recensioni, per me, non dovrebbe trovare posto. Ovvero, le reazioni “a pelle” di chi legge.

  4. @ rigoni
    tu scrivi: “affresco sociologico del nord-est”. Dove lo vedi il nord-est? Io non trovo alcuna specificità, potrebbe essere la provincia laziale o quella emiliano-appenninica. L’indinstinto topo-geografico (un luogo “qualunque”) corrisponde alla lingua volutamente medio-bassa, senza idioletti specifici: gente qualunque in un paese qualunque. È un effetto voluto da Ammanniti, uno dei meriti stilistici del libro (ciò non toglie che io capisca, pur non condividendola, la tua scelta in favore di “Io non ho paura”).
    @ Boe S.
    è una recensione come se ne scrivono oggi, cioè una non-recensione su commissione. Perché non è una vera recensione? Perché Cortellessa non ci ha speso neanche dieci-minuti-dieci per ricordarsi cos’è la mimesis linguistica, e la confonde per uno “sbracamento linguistico” (e già l’uso di questa espressione basterebbe…). Perché sembra scritta da uno che non sa la differenza tra provvidenza e destino (o che ha fretta e non si accorge che la differenza c’è), tra dramma e tragedia, tra “Promessi Sposi” e “Adelchi”. Perché ha (o sembra aver) letto il libro a sbalzi, e prende evidenti cantonate: che Cristiano sia un “bambino” solo perché ha 13 anni è ridicolo, che “guarda agire stupefatto come il Michele di “Io non ho paura”” gli adulti è una stupidata. Perché volendo finire col botto cita Manzoni, ma a sproposito sia rispetto a Manzoni che rispetto al romanzo, non capendo il doppio senso del motto usato come titolo da Ammanniti. Perché, infine, non è neanche furbo: avendo già deciso (“altri” per lui) che il libro andava stroncato prima di leggerlo, poteva evitarsi la fatica di leggerlo in fretta e a sbalzi: in genere queste non-recensioni si scrivono leggendo la quarta di copertina e rubacchiando un paio di recensioni. Perché è una non-recensione all’altezza della quarta di copertina di “Come dio comanda”: che è una boiata, ma per capirlo bisogna sapere cosa c’è nel libro.

  5. Questa, invece, è una recensione (e non perché ne parla bene: perché ne parla con metodo e cognizione):
    “Come Dio comanda”, affresco straordinario dell’Italia di oggi
    di Elisabetta Mondello (Liberazione, 24 ottobre 2006)
    Va riletto l’ultimo romanzo di Ammaniti per apprezzarlo quanto merita. Per capire che “Come Dio comanda” libro attesissimo a cinque anni da Io non ho paura, risponde bene alla pesante sfida affrontata dall’autore: confrontarsi col suo stesso successo. Lo si sapeva rinchiuso, immerso nella scrittura, oppresso dal peso di chiudere il romanzo. Ma “Come Dio comanda” rifiuta paragoni con l’opera precedente fin dalla struttura che abbandona la misura breve, per imboccare la via più complessa di una macchina narrativa che necessita di 500 pagine per risolversi.
    E’ un libro importante, denso nella sua apparente linearità, che vuole una seconda lettura per due ordini di questioni: sia per un motivo esterno al testo, cioè per ridefinire le aspettative del lettore il quale, inevitabilmente, si attende un romanzo che si collochi nella scia di Io non ho paura e si trova di fronte a tutt’altro; sia per una ragione più forte, interna alla sua struttura, ossia che il cuore di “Come Dio comanda” è costituito dalla seconda delle tre sezioni (più un Prologo) che lo compongono. Questa parte, l’unica con un titolo, “La notte” (emblematicamente, le altre sono definite “Prima” e “Dopo”), disvela il progetto su cui è costruita la fitta impalcatura del libro, folgora chi legge proclamando ciò che le prime pagine non dichiaravano, obbliga il lettore a ripensare ciò che ha letto.
    “Come Dio comanda” cresce strada facendo. All’inizio sembra preso da una sorta di ritegno: è violento ma sussurra, prepara, accumula indizi. Potrebbe essere una delle tante storie “nere” che affollano le librerie, caratterizzate da un plot (talora scontato) in cui si muovono personaggi sfigati, eccessivi, border line. Invece ad un certo punto si rompe il velo e il romanzo si rivela uno straordinario affresco della contemporaneità italiana, dipinto con una scrittura che ripropone i tratti distintivi di Ammaniti ma con una corposità maggiore, sviluppando in modo magistrale l’aspetto eversivo del noir, assumendone l’elemento di critica sociale, esaltandone la funzione politica del suo essere uno strumento per decifrare il reale.
    «Un padre un figlio. Una banda di poveri mascalzoni. La nostra provincia sola e malinconica»: così nel suo sito Ammaniti sintetizza la storia di “Come Dio comanda”, «la più difficile da realizzare». «Ho scritto e riscritto smaniando, come un malato di enfisema, ho amputato, come un malato di cancrena, un sacco di arti di questa creatura che stava diventato un millepiedi». La descrizione dell’autore rivela uno dei procedimenti narrativi del testo: l’allargamento graduale delle prospettiva, all’inizio focalizzata sulla coppia Rino-Cristiano Zena, padre-figlio legati da un rapporto di violenza, disperazione e amore, che si amplia ai due amici dell’uomo, al disadattato e strambo Corrado Rumitz, detto Quattro Formaggi, e al disperato Danilo Aprea, segnato dalla morte della figlia e dall’abbandono della moglie. L’improbabile terzetto progetta un colpo facile, svaligiare un bancomat, per realizzare il sogno di esistenze migliori. Nuovo ampliamento: dai quattro protagonisti originari si passa ad una miriade di figurine e storie – è davvero un millepiedi questo romanzo – che si muovono in una pianura dell’Italia contemporanea (il Nord-Est?), ricca, sorda alle sue contraddizioni, desolatamente fatta di uomini e donne omologati nei consumi culturali, nelle emozioni e nei comportamenti. Interviene un evento che è un topos narrativo: una notte di pioggia devastante modifica il corso degli avvenimenti, sconvolge la natura e obbliga i personaggi a ridefinire la propria identità. La tragedia, lo stupro e l’omicidio di una ragazza, è per tutti un punto di non ritorno.
    Si è parlato di una ripresa di Ammaniti degli stilemi di “Fango”, il secondo libro del 1996, ossia di una cifra nera che esalta gli aspetti pulp o splatter della scrittura. Alcuni sottintendendo: una sorta di regresso. Certo la parte centrale di “Come Dio comanda” ricorda il primo racconto (ma anche altri testi degli anni’90) di quella raccolta, L’ultimo capodanno dell’umanità, fin dalla struttura: un susseguirsi di brevissimi brani enumerati in sequenza; il continuo volger lo sguardo dell’autore a seguire, in ogni flash, una delle diverse storie; la crudeltà esplicita dei dettagli; la costruzione di una rete orrorifica in cui, in un crescendo, resta impigliato il lettore che rimane attonito, mosca prigioniera di un ragno che ha tessuto con abilità la sua tela narrativa. C’è anche questo e chi si attendeva il realismo tranquillo di Io non ho paura, il cui la suspance è affidata alla crescita di un ansia infermabile e al dato di un orrore mai esplicitato trova tutt’altro tono. Ma Ammaniti non abbandona la carta del realismo, la assume in alcune parti del romanzo, mentre in altre la contamina con registri diversi, con il comico, il grottesco, la deformazione espressionistica. Propone all’interno di una forma-romanzo del tutto nuova alcuni tratti già presenti in “Branchie” o in “Fango”, in primis il racconto della realtà attraverso i consumi, assunti come un elemento che definisce il self dei personaggi: le merci puntigliosamente citate secondo le marche (il vecchio piumino Cesse, la cassettiera Ikea, le strisce per denti AZ White Strips, i tanti modelli di auto e motorini), le musiche, le modalità comunicazionali (cellulari e sms), l’ossessiva presenza della tv, davanti alla quale si addormentano e si svegliano i personaggi, e dei suoi programmi (non manca una lunga invettiva di Rino contro il trash della neotelevisione che odia, ma di cui non sa fare a meno). La descrizione della pianura come un conglomerato di una modernità fatta più di non-luoghi che di luoghi, cinema Multiplex, negozi, ipermarket, centri commerciali in cui c’è tutto “fuorché una libreria”, e di una disperata, conformista e banale umanità, tutti pupazzetti di un presepe reale come quello costruito dal delirante Quattro Formaggi che assembla una Natività in cui i pastorelli sono sostituiti da Pokémon, Puffi, King Kong, Barbapapà, nuovi simboli della mitologia infantile. Il tutto sostenuto dalla lingua tipica di Ammaniti, la cui struttura sintattica e il cui lessico sono ascrivibili ad un’“italiano dell’uso medio” (talora “alto”) con il ricorso insistito, ripetuto, ossessivo, al tessuto figurale e soprattutto alla similitudine, espediente letterario di antica tradizione, qui piegata e deformata in chiave grottesca, parodistica, caricaturale (Rino odia il suo ex datore di lavoro «con la stessa devota intensità con cui un monaco cistercense ama il suo Signore», una zuppiera si disintegra «come se fosse stata colpita da un Cruise»).
    L’Italia attuale viene sezionata ferocemente e messa in scena impietosamente, esattamente come l’universo emotivo e cognitivo dei personaggi i quali, non avendo alcuna saldezza personale, scomodano il Padre eterno per giustificare nefandezze, atti gratuiti o banalità. Tutti si rivolgono a Dio in cerca di giustificazione o di messaggi di conferma, re-interpretando così il proprio destino.
    Quel modo di dire assunto a titolo, “come Dio comanda”, definisce un’assenza di razionalità che non sta in un disegno divino ma nella grammatica del vivere contemporaneo. E Ammaniti non ha il divertito sguardo degli anni ’90.

  6. @ La Lipperini
    Concordo sulla ferocia, che non mi disturba, anzi.
    Il problema credo stia proprio nel fatto che il passaggio dalla sociologia alla narrazione non mi pare pienamente compiuto. Faccio un esempio: come si fa a chiamare un personaggio Quattro Formaggi? E’ evidente che si passa subito al fumetto.
    Oppure, la scena del campeggio nel temporale: c’è un’epica del quotidiano?
    Mi paiono più effettacci per palati non proprio fini.
    In “Io non ho paura” c’era una descrizione degli anni ’70 che colpiva al cuore tutti coloro che avevano allora l’età dei protagonisti. C’era una descrizione intelligente di quel “mutamento antropologico” di cui parlava Pasolini.
    E quì? La descrizione dello sfarinamento di ogni rapporto sociale, della famiglia, degli adolescenti, mi paiono molto di maniera. Come in Sin City, del resto.
    @ girolamo
    Il paesaggio urbano e umano mi pare chiaramente quello del nord-est per come ci è stato raccontato da tutta una certa letteratura para-sociologica (Stella, etc.)e da un certo teatro (Paolini).

  7. @ La Lipperini
    Concordo sulla ferocia, che non mi disturba, anzi.
    Il problema credo stia proprio nel fatto che il passaggio dalla sociologia alla narrazione non mi pare pienamente compiuto. Faccio un esempio: come si fa a chiamare un personaggio Quattro Formaggi? E’ evidente che si passa subito al fumetto.
    Oppure, la scena del campeggio nel temporale: c’è un’epica del quotidiano?
    Mi paiono più effettacci per palati non proprio fini.
    In “Io non ho paura” c’era una descrizione degli anni ’70 che colpiva al cuore tutti coloro che avevano allora l’età dei protagonisti. C’era una descrizione intelligente di quel “mutamento antropologico” di cui parlava Pasolini.
    E quì? La descrizione dello sfarinamento di ogni rapporto sociale, della famiglia, degli adolescenti, mi paiono molto di maniera. Come in Sin City, del resto.
    @ girolamo
    Il paesaggio urbano e umano mi pare chiaramente quello del nord-est per come ci è stato raccontato da tutta una certa letteratura para-sociologica (Stella, etc.)e da un certo teatro (Paolini).

  8. @ rigoni
    Stella e Paolini hanno raccontato il nord-est quando è nato uno “specifico nord-orientale”. Poi è passato del tempo. La mia impressione è che oggi (nell’anno in cui esce il libro di Ammanniti) lo specifico nord-orientale si sia generalizzato, un po’ come il modo di produzione del “miracolo del nord-est” (il lavoro autonomo di terza generazione) si è diffuso in tutto il sistema-Italia. Non mi va di usare espressioni come “genocidio culturale” (per me il genocidio è ben altro), ma riprendendo Pasolini mi viene da dire che al mutamento antropologico è seguito il suo assestamento, la sua generalizzazione, la sua banalizzazione (ecco, adesso pioveranno i post sulla lesa pasolinità e se la prenderanno con me, te e Ammanniti :-)). Mi sembra questa l’Italia che Ammanniti vuole raccontare: da qui le volute involuzioni linguistiche, i mutamenti di codice, ecc., rispetto a “Io non ho paura” (e non dimenticherei, come raffronto non solo cronologica, “Ti prendo e ti porto via”). A me questo libro convince, a te evidentemente no: e sarebbe lungo il discorso sui codici fumettistici, sui modelli adolescenziali (dio, sto parlando come Crepet), ecc. Ti faccio solo notare che in questo scambio di post tu hai recensito negativamente “Come dio comanda”: nella tua critica c’è un’idea di letteratura, una valutazione del contenuto, un paragone tra questo e quello, una riflessione su Ammanniti che non nasce da ieri, ecc. Evidentemente non è poi così difficile scrivere una recensione negativa che sia una buona recensione: basta avere qualcosa di concreto da dire.

  9. aiuto! il sopramonte do Cortellessa mi fa paura…
    accidenti, quanto dovrebbe cambiare,’sta benedetta editoria.
    quanto alla non recensione, la trovo fantastica. i commenti “a pelle”, anche se non deontologici per il recensore, sono un meraviglioso termometro di umanità…scampoli di emozioni troppo spesso riposte a favore dio intellettualizzazioni eccessive, astratte, fredde con cui si sollazzano molte “intellighenzie” editoriali…evviva un po’ di sana “pancia”, evviva.

  10. Penso che i libri di Ammaniti beneficiano di una raffinata e a volte spregiudicata capacità narrativa, beatamente intelligenti, ma senza compiacimento, non credo che egli persegua sotterranei scopi introspettivi, macchiati di una sociologia territoriale, semplicemente racconta delle storie. Troppo banale già! Tutte queste induzioni ad interpretare le sue storie, baluginando canalizzazioni letterarie, fagocitanti un “turistico” dogmatismo, non so quanto appartenga all’esistere delle sue storie e quanto invece agli odori che transitato nelle vicinanze del luogo in cui si sta leggendo il libro. Personalmente ritengo “Come Dio comanda” un libro riuscito, come del resto i precedenti, ha una completezza di ingredienti letterari invidiabile, a tratti prevedili, rapina sagacemente l’attenzione del lettore, trattenendola fino alle ultime pagine, malgrado tutto questo, non accende il mio entusiasmo.

  11. ho letto il libro su suggerimento di Girolamo de Michele. Molto probabilmente i miei pregiudizi isterici mi avrebbero portato ad altre letture. Girolamo era entusiasta, che è dire poco, era andato ben oltre. Aveva detto una cosa del tipo: se c’è gente che scrive così io cosa scrivo a fare (Girolamo per chi non lo sapesse ha scritto Scirocco, non la saga dei Puffi). La cosa mi aveva destabilizzato.LO SO CHE NON DOVREI SBATTERE SU BLOG chiacchere in pizzeria, non si fa… vengo comunque al punto. Non sento l’urgenza di questo testo, è come se fosse la sua stessa linearità a denunciarlo, è una scrittura tonda, nessuna linea spezzata, niente strozzature, niente spigoli vivi, le pagine ti accompagnano amiche, senza ingannarti o deluderti, chi lo ha scritto è un bravo scrittore e il bravo scrittore deve scrivere e pubblicare libri ogni tot anni fiscali. Certo è che alla lettura si scioglie come burro, le pagine scivolano leggere, ma il dolore non ti segna, ti lascia apiccicato addosso solo il fastidio di certi servizi di cronaca di Studio Aperto. Magari ti ci fa scavare dentro. Ma è un viaggio che non porta da nessuna parte. Questo libro lo giustifico come lettore, è un ottimo prodotto di intrattenimento, mi mancano una ventina di pagine, e non vedo l’ora di rituffarmici di vedere come se la gioca Cristiano. Mi sto contraddicendo? Ribadisco, da lettore lo rispetto, non lo mollo, lo strizzo fino all’ultima riga, ma come persona che ha come hobby la scrittura, no, insomma, meno. La letteratura importante è altrove. E’ nelle pagine di Genna, Ellis, Saviano. Io questi li invidio apertamente. Ammaniti, no. E’ una questione di pelle, umori difficili da decifrare, non ho i mezzi critici per essere più preciso. Forse mi sto fottendo da solo, mi imbroglio perchè Ammaniti al contario dei 3 esempi che ho citato non ha usato l’io narrante. Rischiando di apparire così “meno onesto”, più marchettaro. Magari solo ai coglioni come me.

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