SCHIAVI DI UN DIO MINORE

In questi mesi, il socio Giovanni Arduino e la sottoscritta hanno lavorato zitti zitti a un progetto. Non un’inchiesta giornalistica sul lavoro,  ma la narrazione di alcune storie emblematiche che fanno capire come si sia svuotata la stessa parola.
Il risultato è un piccolo libro che uscirà agli inizi di settembre. Un libro, appunto, che prova a raccontare perché il lavoro è diventato non un diritto ma un “accontentati di quel che passa il convento”,  e perché studiare  è diventata faccenda di cui vergognarsi (ah, gli intellettuali! Combatteteli tutti).
Qui sotto c’è la quarta di copertina. Dovrebbe essere in libreria intorno al 6 settembre. Avremo modo di riparlarne. Per ora, grazie a chi ha creduto nell’idea.
“Gli schiavi di un dio minore vivono tra noi, anche se non li vediamo. Ne rimangono tracce sui giornali: il trafiletto su un bracciante morto di stenti in un campo di raccolta, l’editoriale sui magazzinieri che collassano a fine turno. Quelli che invece vivono lontani sono ridotti a numeri, statistiche: il tasso di suicidi nelle aziende asiatiche dove si producono a poco prezzo i nostri nuovi device, la paga oraria delle operaie cinesi o bengalesi che rendono così economici i nostri vestiti. D’altra parte si sa, l’abbattimento dei prezzi, senza intaccare i guadagni, si ottiene sacrificando i diritti e a volte la vita dei lavoratori, a Dacca come a Shenzhen o ad Andria. Ma non si tratta solo di delocalizzare o impiegare manodopera immigrata. La schiavitù si insinua nelle pieghe della modernità più smagliante: non c’è in fondo differenza tra i caporali dei braccianti e i braccialetti elettronici, i microchip, le telecamere e le cinture GPS, strumenti pensati per la sicurezza ma votati al controllo. Per non parlare della mania del feedback, del commento con le stellette, l’ossessione per il costumer care che mentre coccola il cliente dà un altro giro di vite alla condizione dei lavoratori. E dove manca il padrone, c’è lo schiavismo autoinflitto dei freelance, che sopravvivono al lordo delle tasse, senza ferie pagate, contributi, tempo libero. Indipendenti, sì, ma incatenati alle date di consegna e al giudizio insindacabile dei committenti, ai loro tempi biblici di pagamento. Nella trionfante narrazione dell’oggi, tutta sharing economy, start up e “siate affamati, siate folli”, non c’è spazio per questi schiavi moderni. Ed è proprio raccogliendo le loro storie, le loro voci soffocate, che Giovanni Arduino e Loredana Lipperini smascherano gli inganni del nostro tempo, in cui la vita lavorativa si fa ogni giorno più flessibile, liquida, arresa: se la struttura legislativa del lavoro si smaterializza, tornare a parlare di corpi, a far parlare le persone, è un modo per non rassegnarsi e resistere”.

9 pensieri su “SCHIAVI DI UN DIO MINORE

  1. Bel progetto, non vedo l’ora di leggerlo!
    Una volta all’ennesimo ripetuto “siate affamati, siate folli” ho risposto che con i lavori e gli stipendi del giorno d’oggi fare la fame è normale 🙁

  2. La cosa che dovrebbe essere di un’evidenza palmare e che purtroppo, a quanto pare, non lo è per la maggior parte di noi, è che la storiella edificante di quelli che ce l’hanno fatta, degli Steve Jobs e dei Mark Zuckerberg, non significa che TUTTI possono farcela: significa che ce l’hanno fatta in pochi perché in questa società, con queste strutture economiche e produttive, i posti buoni sono POCHI. Punto. Poi ci sarebbe anche una questione etica, di quelle che oggi proprio non vanno di moda, e che potremmo riassumere in modo semplice osservando che le capacità di uno Steve Jobs non è che ce le abbiano proprio tutti, perché soggetti così è vero che sgobbano duro, ma mica sgobbano e basta: c’hanno pure il genio, che è merce rara e non puoi pretendere che solo chi lo possiede abbia facoltà di mettere insieme il pranzo con la cena. Vero è che alla maggior parte delle persone basterebbe, appunto, mettere insieme il pranzo con la cena, senza necessità di fondare imperi economici; ma ci siamo strutturati in modo tale da lasciare massima libertà quei pochi che sono in grado di fondare gli imperi; libertà di farlo comprimendo i diritti degli altri. E che ti vuoi perdere la genesi di un nuovo impero solo per garantire una bicocca e tre pasti al giorno a un esercito di commoner? E no, eh, perbacco!

  3. sono estremamente curiosa di leggerlo e mi sento di sottoscrivere le parole del commento precedente di maurizio. non agogno il demodè “il lavoro nobilita l’uomo”: mi basterebbe l’applicazione della frase di einaudi che campeggia appesa dietro la mia scrivania “senza felicità, nel lavoro non c’è efficacia”

  4. Buongiorno, lo leggerò , anche se credo accentuerà l’ansia sottile ma sempre presente rispetto a quello che riserverà il futuro ai nostri figli. Quali opportunità ma soprattutto quali atteggiamenti troverà mia figlia che oggi ha cinque anni? Saluti e grazie per il suo lavoro.

  5. Tra gli schiavi di un dio minore inseriti in questo testo, potrebbero essere incluse le invisibili ragazze del terzo mondo, schiave che affittano il proprio corpo al desiderio di genitorialità dei ricchi liquidi, e arresi occidentali. ma quelle in effetti più che a un dio minore, fanno riferimento al dio maggiore falso e innominabile del nostro tempo decostruito. Ma è comunque da incoraggiare qualsiasi tentativo volto a far luce sullo sfruttamento delle persone e del loro corpo, soprattutto direi quello degli immigrati nell’agricoltura .
    Mi sembra a me che in genere il lavoro prima di essere insegnato come diritto andrebbe pensato come un dovere, forse così i più deboli potrebbero trovare sostegno.
    ciao,k.

  6. loredana, il libro sembra interessante e il tema è quantomai decisivo, lo leggerò di sicuro.
    posso fare un’annotazione da correttrice di bozze? spero che quel che ha riportato non sia un “copia e incolla” preciso della quarta di copertina, perché c’è un errore: si scrive “CUSTOMER” care, non “COSTUMER”. spero siate in tempo per correggerlo, altrimenti… sarà per la seconda edizione!

  7. No, dai, K. Il lavoro come un dovere no, ti prego. Te lo dico come debole che non lavora da quasi dieci anni. Tra l’altro mi si è rotto un altro dente due settimane fa, colpa mia che non lavoro. Il dovere è importante, già, me lo merito. Già. Social card per stabilmente inoccupati a Cuneo no, eh? E sì che ho la terza media, fossi laureato soffrirei di più. Ma tanto di più. Il lavoro come un dovere dove lavoro significa non cambiare nulla della propria condizione – la salute sì che cambia – cos’è? In Origine era ‘S’, il resto vien da sé. Poi, certo, ti rivolgi a chi il lavoro lo crea, a chi governa, a quel dovere. Certo. Ma il piano è ribaltato, a chi vorresti insegnare quel dovere?

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