SCONGIURI E SIMULAZIONI

E così, ieri sera ero andata a dormire. Non solo per garantirmi un po’ di riposo prima di una nuova settimana impegnativa e prima del consueto risveglio all’alba (Lagna è fatto così: alle sei e trenta esatte poggia la zampa sul mio naso), ma perché anche io ho le mie stravaganze, come quella che se non guardo la partita poi la medesima viene vinta (in compenso se telefono durante una battuta di pesca altrui d’abitudine garantisco la buona riuscita, ma pazienza). Per dire, durante la famigerata finale del 2006, ero a Santa Severa con famiglia mia e altrui e mentre tiravano i rigori io ero girata di spalle a guardare un alberello del giardino, che ricordo talmente bene che potrei disegnarlo adesso, inclusi i giochi di luce dei lampioni tra le fronde. Invece, nell’altro 11 luglio così lontano, non mi ero ancora costruita troppe stramberie nella testa ed ero sul divano con mio padre e la mia amata Isabella, e tutti e tre siamo scesi nel vialetto di questa stessa casa, alla fine, ridendo per i caroselli di macchine.
Naturalmente il mondo è andato avanti, e il mio risveglio non era dovuto ai caroselli e alle trombette, che pure giustamente c’erano, ma da fuochi d’artificio clandestini sparati dal cortile accanto, a pochi metri dal giardino, e dunque all’allegria si è miscelato il terrore di ritrovare i gatti fritti da un bengala. E certo che l’allegria è contagiosa, l’euforia anche, e alla fine sono rimasta in piedi e pazienza per il poco sonno. Però c’era una certa vitalissima ferocia nell’esultanza del mio quartiere, qualcosa che andava al di là della felicità per la vittoria e che, è fin banale dirlo, celebrava l’uscita (mentale, probabilmente, non sanitaria) dai diciotto mesi più difficili delle nostre vite. Ben venga, ma certo. Ben vengano gli abbracci rubati, quelli che ti tentano quando torni a girare l’Italia per raccontare un libro uscito nel pieno della seconda chiusura, i sorrisi nascosti dalla mascherina, ma almeno liberi all’aperto. Ben venga il rito collettivo che ti fa buttare alle spalle le paure, il termometro due volte al giorno nonsisamai, i tamponi, tutto quello che sappiamo e che non vorremmo più sapere.
E allora? E allora, ieri come oggi, non capisco l’atteggiamento di chi rivendica il non aver guardato la partita perché aveva di meglio da fare: leggere un pregiato poemetto azerbaigiano, ascoltare i Vesperi a otto voci di Francesco Cavalli, meditare, laccarsi le unghie. Tutte attività sacrosante, intendiamoci, ma è l’esibizione pubblica che non stupisce (è vecchia, vecchissima) ma fa sospirare pensando che, ancora, esiste la credenza secondo la quale il Vero Intellettuale non si mischia con le passioni del popolo. E forse questa è la vera stramberia, non i miei riti del sonno.
Era uno strano sogno quello inseguito da questi maghi. Volevano farsi amare da chi amavano e vendicarsi di chi odiavano, ma, soprattutto, cercavano di diventare più grandi degli uomini comuni e di esercitare il potere degli dei.
Somerset Maugham, Il mago

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