CINQUE. SPOPOLARE I BUCOLICI: PER LA RESTANZA DI MELIBEO.

L’alternativa, dunque. Perché infine, in questi strani tempi, non si ragiona più mettendo insieme i tasselli, provando a costruire una visione che diventi reale, immaginando un futuro lungo e che non duri il tempo di una generazione, o di mezza, quanto basta per mandare a casa con congrua pensione coloro che reiterano il modello vecchio. Quel che si chiede è: è così, oppure? Oppure significa There is no alternative, come agli antichi ma mai trascorsi tempi di Thatcher. Invece l’alternativa c’è sempre, a volerla perseguire.
Ieri pomeriggio, a Fahrenheit, discutendo di economia, ambiente e prospettive e anche di spopolamento, sono arrivati diversi messaggi. Ascoltatori e ascoltatrici che avevano scelto di vivere in valli e borghi. Ed erano convinti della scelta, non fosse che mancavano una rete internet veloce, la navetta per la scuola nel paese più vicino, il presidio sanitario. I famigerati servizi, in cui non si investe perché, e riecco il vulnus, lo si considera non redditizio. Sarà non redditizio nell’immediato, ma non sono convinta che le famigerate moto d’acqua sul lago di Caccamo lo siano di più (i noccioleti magari sì: ma a un costo altissimo).
Come scrive Domenico Cersosimo, che di mestiere peraltro fa l’economista, è questione di sguardi:
Per Riabitare l’Italia bisogna prioritariamente “invertire lo sguardo”. Cambiare la quota della rappresentazione, osservare il Paese dalla montagna, dai paesi polverizzati, dalle periferie, dall’Appennino. Non c’è futuro per le aree interne italiane senza un cambiamento degli sguardi e della postura narrativa, se non si considerano contemporaneamente partenza e restanza, fuga e nostalgia, abbandoni e ritorni, de e ri-contadinizzazione, vecchie e nuove produzioni.
Raccontano sempre meno le immagini dicotomiche: la pianura come luogo della ricchezza e del dinamismo e l’Appennino come luogo della povertà e della persistenza; l’agricoltura intensiva a scala industriale come il sentiero unico per l’efficienza e le produzioni di nicchia come pratiche subottimali e residuali; la velocità del quotidiano urbano come icona di modernità e innovazione e la bassa intensità della quotidianità rurale come un segno di arretratezza.
Non guardare il Paese con gli occhi di chi è sceso a valle o si è trasferito in città, di chi alimenta lo storytelling della metrofilia, di coloro che pensano che l’agglomerazione urbana sia l’unico paesaggio antropologico, degli osservatori che sorvolano i luoghi senza mai atterrarci. Di chi continua a considerare le metropoli come motori di tutto il movimento: una tardiva illusione fordista di città industriale che performa il resto, che informa di sé relazioni sociali, sentimenti e aspettative, ritmi urbani, poteri economici e politici, dentro e fuori i propri confini. Una narrativa senza dubbio efficace per catturare visibilità e interessi, per dettare l’agenda delle politiche pubbliche, e per trasferire più risorse a chi già ne ha di più, ma molto meno efficace in termini di risultati complessivi, dal momento che l’Italia è cresciuta pochissimo nell’ultimo quarto di secolo, tanto rispetto al passato quanto agli altri paesi europei”.
Le alternative ci sono sempre. Ne conosco, solo io, di singole: chi apre un rifugio e chi torna a fare formaggi, chi alleva pecore e chi libri. Le storie sono tante: ma a quelle storie occorre dare rilevanza perché siano rete: e una rete si sta già formando, nelle  cosiddette aree interne, quelle dell’abbandono, quelle da spopolare ancor di più per creare addensamenti che ripropongono quel modello consumato e liso e che pure non vuole rendersi conto di non avere prospettive. Ho la sensazione che bisognerebbe ritorcere quel There is no alternative a chi lo ha fin qui pronunciato. Se non lo comprende ora, sarà costretto a comprenderlo fra pochissimo. Intanto, Melibeo lascia la sua terra. Ma Titiro, guarda un po’, resta felicemente sotto l’ombra del suo faggio. Qualcuno gli ha permesso di farlo, certo. Ma erano altri tempi, o almeno lo spero. Stavolta potrebbe rimanere anche Melibeo. E non solo lui.

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