STORIE CHE VACILLANO, E UNA STORIA NEL MEZZO

Questa mattina ho letto l’intervento di Ian McEwan sui momenti, lunghi o fulminei che siano, in cui le storie e le parole si allontanano da noi. Scrive dunque McEwan (la traduzione è di Luis E. Moriones):
“Quando il dio della narrativa ti abbandona, bisogna liberarsi di tutto. Della chiesa tappezzata di libri, del pulpito con il microfono, della rispettosa congregazione, del catechismo dell’intervistatore, delle confessioni travestite da domande, della riga che supplica il potere di guarigione di una firma, della benedizione o maledizione del critico letterario. Lo confesso, ho fatto parte di quei gruppi con i miei compagni di fede, mentre intonavamo la liturgia che gli esseri umani sono affabulatori, che “non possiamo vivere” senza storie. Non è possibile vivere, suggeriscono sempre i preti, senza di esse. (Oh sì, possiamo.) Il mio cuore di scettico viene meno quando vago nel reparto narrativo di una libreria e vedo torri smisurate sul tavolo delle novità, le citazioni imploranti sulla copertina (Lui l’amava, ma lei lo avrebbe ascoltato?), i sommari della trama in sovraccoperta nel loro grave tempo presente: Henry spezza i legami del suo matrimonio e si imbarca in una serie di selvagge… Questo accade quando penso che scenderò nella tomba senza aver letto Anna Karenina per la quinta volta, o Madame Bovary per la quarta. Ho 64 anni. Se sono fortunato, potrebbero restarmi ancora una ventina d’anni di buone letture. Insegnatemi che cos’è il mondo! Datemi i cosmologi sulla creazione del tempo, i cronisti dell’Olocausto, il filosofo che ha sposato la neuroscienza, il matematico che può descrivere la bellezza dei numeri a uno zuccone, lo studioso dell’ascesa e caduta degli imperi, gli adepti della guerra civile inglese. A parte qualche raro piacere, che cosa ne avrò o saprò al termine dell’ennesimo romanzo sul rimorso o il trionfo di Henry? Potrebbe un romanziere gentilmente dirmi perché iniziò la rivoluzione industriale o come il bosone di Higgs conferisca massa alle particelle fondamentali, o come si sia evoluta la morale, o che cosa pensasse Salieri del giovane Schubert nel suo coro? Se mi importasse qualcosa dei mal di pancia di Henry, potrei leggermi un canto dai Dream Songs di Berryman in meno di quattro minuti. E con le quindici ore risparmiate, soffermarmi su qualche caso legale (eventi reali!), un’introduzione buona come un’altra alle stranezze e alla ferocia del cuore umano”.
Ora, al di là della parentesi temporale in cui il narratore viene preso da disgusto o stanchezza (o dal  desiderio di smettere, semplicemente, come Philip Roth), mi sembra che quell’atto di fede di cui parla McEwan (non possiamo vivere senza storie) stia in effetti perdendo forza. Mi sembra, anzi, che le storie siano diventate più piccole, più brevi, dimenticabili in un batter di ciglia, subito sostituite da altre.
Faccio un esempio e, insieme, vi racconto anch’io una storia, da cui in effetti ha avuto origine la riflessione. Sabato pomeriggio ero sul balcone di casa mia, a stendere il bucato. Mentre allargavo magliette e contavo calzini, un rumore: metallico e insieme cavernoso, preceduto da una specie di ronzio (erano, a posteriori, voci confuse in un eeeee corale). Mi volto, mi affaccio: quattro piani sotto, c’è un uomo in terra, la faccia schiacciata sull’asfalto, le braccia aperte, gli indici e i medi delle due mani uniti, come per una benedizione o un ammonimento. L’hanno investito, dico a mio marito, chiamiamo l’ambulanza. E mentre ce lo diciamo si alza un pianto di donna che dice “perchè l’hai fatto?” e ci rendiamo conto che non è stato un incidente, ma che quell’uomo, col giubbotto indosso e gli indici e medi uniti, si è ucciso, gettandosi – probabilmente – dal terrazzo. Siamo rimasti a guardare, senza sapere bene perché e senza sapere cosa fare, mentre arrivava un’auto dei carabinieri e poi una delle polizia, mentre gli abitanti del quartiere si riunivano in capannello e andavano su e giù rispondendo a chi, dai balconi, chiedeva chi fosse l’uomo, e qualcuno l’ha riconosciuto e qualcuno, semplicemente, continuava a camminare su e giù, finché – ed era passata mezz’ora, ma sembrava di più – sono arrivati quattro paramedici che hanno appena guardato il corpo e poi hanno aperto un lenzuolo bianco (allo stesso modo in cui si apre una bandiera, tenendolo per gli angoli) e glielo hanno lasciato cadere sopra.
Questa è la piccola parte di una storia. Mi sono resa conto che mi ha accompagnato per tutto il pomeriggio di sabato e per l’intera domenica, e che continuavo a interrogarmi sulla sincronia, sul fatto che mentre io aprivo sbuffando la porta del balcone con la mia bacinella piena di panni, lui apriva la porta del terrazzo dopo aver indossato il giubbotto come se stesse per uscire a bere una birra al bar sotto casa, e che mentre io mi giravo, la schiena al palazzo di fronte, per cercare le mollette, lui era già in piedi, a guardare – forse – la strada. Lo conoscevo? Non lo so, e questa è ancora un’altra parte della storia: sicuramente l’avrò incrociato dal fruttivendolo o davanti alla pizzeria a taglio, ma non mi sono mai chiesta, come è normale che sia, chi fosse.
Ora, la storia in sè non è nulla, è anzi un frammento di cronaca più che una storia vera e propria, un episodio del quotidiano (appena più spaventevole se si pensa che a Roma, dalla mezzanotte di quel sabato fino al mezzogiorno in cui il mio disperato dirimpettaio è salito sul terrazzo, i suicidi sono stati tre). Ho pensato però, ieri mattina, guardando l’asfalto lavato e le crepe che ancora segnavano il punto dell’impatto, alla rapidità con cui tutti noi avevamo assorbito e dimenticato. Una rapidità crescente. Ne abbiamo tante, troppe, di storie, per appassionarci come un tempo: i meteoriti in Russia e l’invasione di uccelli nel Kentucky, il papa che abdica e il campione disabile che uccide la compagna. E’ come se non riuscissimo a starci dietro, o ci appagassimo di quei frammenti che un tempo sarebbero bastati per mesi e forse anni. Nostalgia? Non è questo il punto. Essere nostalgici, ribadirebbe severo un amico che vede nella frammentazione delle storie e nella fine dell’autoralità la salvezza, non serve. Forse no. E forse non serve neanche riflettere sulla polarizzazione con cui le storie vengono accolte, e di cui parlavo qualche minuto fa con un’altra amica, una scrittrice: ormai, l’accoglienza si divide fra complicità e ingiuria, che sono  le facce della stessa medaglia: l’odio e l’adorazione si manifestano come i due estremi di chi ha smarrito la sintassi, e riesce difficilmente a narrare la complessità dei sentimenti umani, e delle umane vite.
Questo per dire, banalmente, che lo capisco, McEwan.

14 pensieri su “STORIE CHE VACILLANO, E UNA STORIA NEL MEZZO

  1. Esplorare la frammentarietà (da parte di uno scrittore) vuol dire essere figli di questo tempo. Ma la vera questione è che – prima dei social – la scrittura era il filo testo sopra il quale lo scrittore “funambolava” sopra al vuoto, mentre oggi non c’è tensione perchè i social si mangiano il tempo della scrittura e lo scrittore glielo lascia fare.

  2. Barthes diceva che non ci sono miti eterni, e aveva ragione. Oggi non sono le storie a vacillare ma i miti. Non mutano gli endocetti e gli archetipi, ma ci sono miti che si indeboliscono, altri che si rafforzano, alcuni scompaiono e qualcuno nasce. Tutto questo avviene in modo apparentemente caotico e accelerato. Ma per “orientarsi” in questi tempi interessanti si può usare come stella polare la morte, le sue rappresentazioni e la sua forma nel nostro immaginario.
    Ed è proprio quando la morte diventa centrale, preponderante, che i miti cambiano più velocemente.
    Però non mi pare che gli scrittori siano “impreparati”, mi sembrano assolutamente in grado di percepire il mutamento. Penso ad autori come Murakami, King, che parlano di realtà talmente mutevoli da poter essere rappresentate sotto forma di universi paralleli. Penso a manga come Gantz, che narra morti e resurrezioni. E penso anche ad autori italiani, come la tua amica Chiara, la sua trilogia di Mirta-Luna e Nel bosco di Aus.
    Ecco, io credo che noi viviamo in tempi di grande cambiamento, tempi in cui un giorno vale un anno, tempi, purtroppo o per fortuna, interessanti.
    Poi, naturalmente, questa è una mia sensazione, una mia idea che si è formata leggendo e osservando, altri sapranno vedere e interpretare meglio di me, e scriveranno.

  3. Già, direi che il problema è proprio questo, la rapidità con cui tutto si sedimenta e viene assorbito senza alcun tipo di analisi. La rapidità con la quale nuove storie/ riflessioni/ notizie ti vengono proposte è disarmante, una raffica di pentametri giambici, mi verrebbe da dire. Come con i meteoriti in Russia, ti vengono addosso all’improvviso, senza darti il tempo di capire di cosa si tratti ed eventualmente che direzione prendere e se sia il caso di fermarsi a osservarli da vicino, con tutti i rischi che comporta. Superata quella pioggia poi, finisce quasi sempre per rimanerti in mente solo il ricordo del suono o il bagliore accecante di quella scia luminosa. Dal mio punto di vista è frustrante. Non si riesce starci dietro. Non si ha tempo di elaborare nulla. Tutto/i van di fretta e tu ti domandi che gusto ci sia, salvo poi illudersi di poter esprimere un parere, nella cosidetta “democrazia della paletta” specie sui social. Non c’è spazio e/o non sembra esserci tempo e modo di formulare qualcosa di diverso da una sintetica approvazione o dal suo contrario. Bipolarsimo concettuale cancerogeno.
    E’ come essere catapultati in una curva di ultras, dove ” la complessità dei sentimenti e della vita” non è contemplata. Si ragiona per schemi e fede. E’ tifoseria da stadio che punta solo al risultato. Non è il mio sport.

  4. Non so bene se sono le notizie, i fatti che ci risucchiano, e dentro di essi ci perdiamo, o se siamo noi a risucchiarli e dentro ci girano come azionati da una centrifuga. Certo è che il momento della riflessione, l’esigenza del voler capire, analizzare, occupano uno spazio sempre minore, perché arrivano immediatamente altre storie, altri fatti, e sgomitano e si sorpassano l’un l’altro. A volte non lasciano tracce, in noi, del loro passaggio, a volte lasciano lividi, che non ci ricordiamo neppure da cosa siano stati procurati.
    La scorsa primavera ho vissuto un’esperienza simile alla tua di sabato. E anch’io mi sono chiesta se quel signore, vestito da una tuta azzurra, che aveva deciso di non aver più nessun motivo per continuare a vivere e si era buttato da un balcone accanto alla mia casa, lo avessi mai incontrato, e se i suoi pensieri, o i suoi occhi, si fossero per un momento incrociati con i miei. Non c’era nessuno, con lui: solo due carabinieri a guardia del suo corpo, in attesa dell’arrivo del furgone della polizia mortuaria. Passo davanti a quel marciapiede più volte al giorno e ci penso, a quel signore. Ecco, questa è una storia che mi è rimasta dentro, anche se in realtà ne conosco solo la fine.

  5. Ci sono delle consolazioni e degli antidoti per questo bellisismo post.
    Io in questo mi sento fortunata, come molti dei miei colleghi, e in specie dei colleghi di formazione psicodinamica, perchè noi lavoriamo in una maniera decisamente anacronistica rispetto al tempo corrente – noi infatti abbiamo davanti delle persone che ci raccontano la storia di una vita, e questa storia attraverserà delle rinarrazioni successive, delle riebolarazioni semantiche e di significati che quasi devono raggiungere la soglia della nausea, per avere una loro funzionalità. Alcune storie di vita, ce le rigiriamo per anni. Ci pare di confezionare insieme a un altro coautore, che anzi èè quello col nome scritto grosso, – lunghi romanzi. E’ per questo che mi sento, relativamente protetta. Non so se questo tipo di protezione sia spendibile fuori dalla mia stanza di lavoro. Penso che però la funzione dei buoni romanzi, sia la dilatazione delle singole trame narrative, e la capacità di dare un senso, di fornire cioè una specie di resistenza di argine, perchè le trame narrative che fanno il vecchio grande romanzo – sinceramente spero di non scandalizzare nessuno dicendo che sia Chesyl Beach che Solar ne sono validissimi epigoni – procurano un modo di pensare, un ombrello.
    Ma anche un ombrello delle giuste dimensioni, perchè dimenticare, passare oltre ha una sua utilità. Non mi fido del ricordo ossessivo ed emotivamente caricato di vicende che sono estraneee, non mi fido del buon cuore proclamato. E anche mi lascierebbe perplessa nella narrativa esasperata ma a ben vedere raffreddata di un dolore passato. Non so spiegarmi: c’è qualcosa di umano e necessario e affidabile in una giusta dose di egoismo, di contingenza, di dimenticanza.

  6. Forse non è un caso che nel descrivere la tragedia di un suicidio, saltino fuori scrittori al livello di philp roth o di mcewan che sulla distruzione di senso hanno innalzato valori intramontabili com il prezzo di copertina,
    comunque in questo post c’è la solita interessante sovrapposizione tra; il disgusto, la stanchezza e il desiderio di smettere del narratore, e l’uomo morto suicidato sull’asfalto. Stanchi di scrivere, stanchi di vivere. In mezzo alla finestra gli stanchi di leggere. Mi è venuta in mente una canzone di Cocciante, la solita canzone ingenua. nel tentativo di descrivere la gioia a un certo punto diceva così “l’opaco senso si perde e vince la vita, ogni giorno diversa un abbraccio, una corsa, nessuna storia mai persa. Nessuna storia mai persa. che mi era asembrato un bel tentativo d immaginare la pienezza della felicità . memento mori forse è giusto ricordare e ammettere con un po’ di tenerezza che noi persone siamo troppo piccole per sopportare tutto il dolore e anche tutta la filicità ma sono io oppure sei tu.
    ciao,k.

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