STRANGE DAYS

Sai come faccio a sapere che è la fine del mondo Lenny? Perché tutto è già stato fatto, capisci? Ogni genere di musica è stata provata, ogni genere di governo è stato provato, capisci? Ogni cazzo di pettinatura, ogni orrendo gusto di gomma da masticare, i cereali per la colazione, ogni tipo di schifoso… capisci che intendo? Che ci resta da fare? Come faremo a sopravvivere, per altri mille anni? (Max Peltier in “Strange days” di Kathryn Bigelow, 1995)
Strange days. Luoghi d’Italia dove cittadini auto-organizzati (così pare) danno l’assalto ai profughi. Dove un vicepresidente del consiglio regionale delle Marche minaccia di somministrare olio di ricino (sic) al prefetto di Roma per il trasferimento dei profughi medesimi a Casale San Nicola. Giornali d’Italia dove si pubblica una vignetta che, qualsiasi cosa sostenga l’autore, vellica i bassi istinti che già sono ampiamente diffusi (non lo sapeva? Davvero?). Però, ecco, se parli di queste cose, e se ne scrivi, il problema sei tu.  “Con tutto il tempo che passa a indignarsi, chissà se alla Lipperini resta tempo di fare anche altro”, twitta l’eroico sviluppatore da Londra. “Polemizzare a oltranza non è il modo giusto per affrontare le cose”, incalza la ragazza su Facebook. Allora, il problema sei tu che ne scrivi, perché diamine è luglio, fa un caldo bestia, abbiamo le nostre foto del mare e della montagna da commentare, che noia questi indignati.
Strange days, davvero. Per fortuna c’è Federico Faloppa, docente universitario in Gran Bretagna, attentissimo da anni al linguaggio che diffonde, consapevolmente o meno, il razzismo. Uno di quelli che ti fa sentire meno sola. Il suo post, qui sotto, è attualmente sospeso dal Fatto quotidiano in quanto ritenuto eccessivamente polemico. E io ve lo pubblico. Strange days.

Un colpo al cerchio, un colpo alla botte. E – nel dubbio – due colpi in testa ai profughi: ché tanto non possono reagire. Un editoriale, a firma di Cesare Martinetti sulla “Stampa” di sabato. E una vignetta di Giannelli, sul “Corriere”, sempre di sabato. A ricordarci che quando si trattano certi argomenti l’informazione non solo è carente, parziale, e – paradossalmente – poco informativa. Ma – quando va bene – è cerchiobottista. E – quando va male, e va sempre peggio a giudicare da ciò che si legge in giro – è manipolatrice. Cominciamo dall’editoriale di Martinetti “Profughi: il grande assente è lo stato”. Che, tanto per (ri)suonare un vecchio disco, di fronte agli scontri di Casale San Nicola, accusa lo Stato di non esserci. Di aver abbandonato i suoi cittadini. E quindi in qualche modo giustifica la “rabbia” (così è definita nel sottotitolo) degli abitanti di quella zona a 25 chilometri dal centro di Roma. Ora: ovviamente bisognava esserci, lì in mezzo, per capire veramente ciò che è successo. Ma tutte le fonti sembrano concordi nel dire che una cinquantina di militanti di Casa Pound, assecondati da un numero imprecisato di abitanti del luogo, si è scontrato con le forze dell’ordine per impedire l’arrivo di diciannove “migranti” provenienti da Gambia, Nigeria, Bangladesh e traferiti qui da una struttura di Via Tiburtina. Questa la notizia, quindi: una cinquantina di teppisti organizzati – così li definiremmo, mica attivisti politici, se gli scontri fossero avvenuti davanti a una discoteca, a uno stadio – assale la polizia per impedire che i “migranti” scendano dal pullman che li ha portati fin lì. E gli abitanti del luogo? Dall’editoriale de “La Stampa” si ricava poco su di loro. Sono presentati come un insieme compatto, contrario all’accoglienza di quelle diciannove persone. Ma chi sono? Non è dato saperlo. Non è dato sapere la loro provenienza sociale (ci vengono presentati come impauriti e impoveriti, nel classico schema della “guerra fra poveri”, ma chissà…), il modo in cui si sarebbero auto-organizzati, il perché ce l’abbiano tanto con i nuovi arrivati (quali paure hanno? Si può capire dall’articolo se siano giustificate, queste paure?). Quale che sia la loro composizione, per l’editorialista della “Stampa” vanno comunque compresi: perché abbandonati dallo Stato. Che va sempre bene additare a responsabile di tutto, in una – ritrita, stantia – visione dicotomica Stato (astratto, lontano, che impone scelte discutibili sul territorio) vs cittadini (reali, legati a un territorio, naturalmente dotati di diritti e ragioni legittime). Come se quei cittadini non fossero anche loro “Stato”: non avessero anche loro responsabilità nei confronti dello Stato. E ancora: che cos’è Casale San Nicola? Qual è la storia della sua urbanizzazione? Come è nata quell’ostilità nei confronti dei diciannove migranti? Ma lasciamo perdere. Meglio parlare di assenza dello Stato senza fare – e farsi – troppe domande. I vecchi dischi d’altronde, anche se consumati, rassicurano e suonano familiari, a prescindere. E continuiamo nella lettura dell’editoriale. Che non è solo viziato da omissioni, ma è anche privo di uno scatto, un giudizio netto su quanto accaduto: che ci vorrebbe, tuttavia, a dire che Casa Pound ha agito nella completa illegalità? A dire che la loro violenza fascista è stata illegittima, certamente più dell’assenza dello Stato? Ma no: meglio non farsi nemici, meglio non schierarsi. Meglio prendersela in astratto con lo Stato – che, proprio in quanto “astratto”, non può neppure rispondere alle accuse – che fare nomi e cognomi dei responsabili di un pomeriggio di pura guerriglia; che dire che è intollerabile che Casa Pound sia libera di organizzare azioni violente come e quando vuole; che si è trattato di un atto di intolleranza pretestuoso e quindi non giustificabile.
D’altronde, c’è di peggio. La cautela di quell’editoriale lascia il posto all’incomprensibile satira di Giannelli sul “Corriere”. Che con una vignetta a dir poco… ambigua lascia intuire che le nostre abitazioni siano a rischio di invasione da parte dei rifugiati. Della serie: cari lettori, sapete che cosa avete lasciato partendo per le vacanze, ma non sapete che cosa troverete al ritorno. Attenti: forse nel vostro salotto troverete accampati un gruppo di rifugiati, chi può dirlo… È divertente questa provocazione? Qual è il suo obiettivo? Mettere alla berlina le paure degli italiani (ma l’operazione non sembra affatto riuscita)? Far sollevare un polverone per far vendere qualche copia in più (e qui l’operazione parrebbe più riuscita…). A me pare che si tratti, semplicemente, di cattivo gusto. La vignetta poggia su un paradosso, ma – paradossalmente – riesce a rendere credibile l’incredibile: che l’invasione arriverà addirittura dentro le nostre case (ma quando mai, su! Quando mai c’è stata e ci sarà violazione di proprietà privata da parte di uno solo rifugiato?!). Volente o nolente, rischia di gettare benzina sul fuoco, in giorni in cui i fuochi veri divampano già (come a Treviso). E riesce ad alimentare panico e paure già abbondantemente alimentati da attori politici in cerca di facile consenso anche sulla pelle dei rifugiati. Fa cadere le braccia, insomma, per l’incredulità di essere arrivati tanto in basso. Non è neppure caustica: è solo noiosa nel ripetere un mantra che sulle colonne di un quotidiano come il “Corriere” dovrebbe essere, perlomeno, accolto col beneficio del dubbio. E a questo proposito c’è da chiedersi se i caporedattori che hanno dato il via libera alla vignetta di Giannelli non potessero pensarci un attimo: pensare, dico, tanto all’efficacia quanto all’opportunità di pubblicare quel messaggio, dato il momento, piuttosto… esplosivo, che si sta vivendo. Un momento in cui, forse, tentare di ridurre le preoccupanti fratture sociali con un colpo (mal assestato) di satira – e beato chi è riuscito a ridere, sabato, sfogliando il “Corriere”! – non fa che rendere ancora più drammatico il quadro. Forse, da lettori, è ora di pretendere qualcosa in più. Di dire: si è forse passato il limite con questa montagna di grossolanità, facilonerie, manipolazioni. Di far sentire ai direttori/redattori dei più importanti mezzi di informazione non solo l’indignazione isolata e individuale di ciascuno, che ahinoi lascia il tempo che trova, ma anche una lucida presa di posizione collettiva: cominciando a stare col fiato sul collo a chi fa (pessima) informazione, a chi ricorre alle solite solfe, a chi propina vecchie retoriche e nuove reticenze. A chi dovrebbe affrontare la complessità con l’arma dell’inchiesta, dell’approfondimento, del rigore intellettuale. Magari – che so – indagando sul serio sul modo in cui viene gestita l’accoglienza dei profughi in questo paese; denunciando chi continua a lucrare sulla pelle delle persone; contestualizzando e quindi dando – invece – risalto alle tante esperienze virtuose di accoglienza: laddove i cittadini – come in Sicilia, come in tanti comuni della Toscana – si organizzano non solo per manifestare solidarietà, ma per rendere meno dure le condizioni materiali di vita dei profughi in questa torrida estate italiana. Facendo così capire che le mobilitazioni di Casa Pound non sono (né dovranno essere) la regola, ma l’esecrabile eccezione. A gettare benzina sul fuoco non ci vuole nulla: sono capaci tutti, anche l’ultimo bullo di quartiere. A spegnere un incendio, invece, ci vogliono coraggio e competenza. Qualità che purtroppo, a volte, sembrano mancare nelle redazioni di molti dei nostri media.

5 pensieri su “STRANGE DAYS

  1. Ah sì? Abbiamo perso il lume della Ragione, se mai ci ha illuminati. Smemorati, è il meno che si possa dire. E quando i migranti eravamo noi? Si facevano perfino film strappalacrime, con attori di successo come Manfredi. Abbiamo dimenticato tutto? Mi piacerebbe sapere – se esistesse la macchina del tempo – mi iacerebbe sapere che cosa scriverebbero costoro davanti all’avanzare furioso di Goti, Visigoti, Longobardi, Vandali e Unni! Ma chi gli mette in testa a chi scrive simili scempiaggini razziste che una migrazione possa essere fermata, bloccata! Hano mai letto un rigo di storia? Sono fenomenti incontenibili, inarrestabili: vanno assecondati, non contrastati. Forse così si riesce a salvare la loro e nostra pelle.

  2. Non ci posso credere. Questo sarebbe un post così polemico da non trovare posto neppure sul Fatto? Sul quotidiano più assetato di sangue che abbiamo in Italia (il Giornale e Libero sono ovviamente nella categoria “carta per foderare la pattumiera”, e non sono in gara)? Questo è davvero il segno delle condizioni degradate in cui versa l’informazione in questo paese.

  3. Maurizio, ho l’impressione che ci sia sangue e sangue per la sete del Fatto (e di tanta altra cartaccia), e che certo sangue disseti più di altro.

  4. Anch’io rimango sconcertata dalla sospensione del Fatto… Troppo polemico?!?
    Leggano gli articoli di Maurizio Maggiani sul Secolo XIX, edizioni di Domenica 12 e Domenica 19. Anche questi mi aiutano a sentirmi meno sola. Cosí come Saraceno su Repubblica: anche lei richiama la necessità di un intervento dello Stato, ma declinandolo nella necessità di una seria politica di accoglienza e integrazione. E anche la testata Combonifem, delle missionarie comboniane. Cattoliche sì, ma con diritti umani ben presenti. E nessun cerchiobottismo.
    Un grande e un po’ sconfortato grazie.

  5. L’autore auspica di indagare sul modo in cui viene gestita l’accoglienza dei profughi (e dei Rom e dei senza tetto aggiungo io). Nel nostro paese prevale la logica dell’emergenza e dell’occultamento. Per cui si aprono strutture ricettive di medio-grandi dimensioni in luoghi remoti e spesso degradati. Cioè esattamente il contrario di quello che bisognerebbe fare se il fine fosse l’integrazione e l’inserimento sociale. Come per il carcere dove l’obiettivo non è la riabilitazione ma le detenzione in sé. E poi i “centri di accoglienza” di piccole dimensioni allocati in aree non marginali costano molto. E poi nei centri storici i residenti hanno più potere contrattuale di quelli nelle periferie estreme. Don Luigi di Liegro aprì una struttura per l’accoglienza di malati di Aids ai Parioli. Oggi come allora scesero in piazza i fascisti gridando al contagio. All’epoca bastò un prete coraggioso di strada per tenere testa ai Buontempo e Gramazio (oggi l’eroico Bergoglio al massimo fa aprire qualche doccia nei pressi di San Pietro…) e la sua valida associazione (la Caritas, ndr). La differenza è stare per la strada, esserci e perché no, essere disposti anche a darsele. A e prenderle. Personalmente io ho contribuito ad aprire più di 2.000 posti letto per senza tetto. Era un lavoro duro e delicato. Bisognava formare una squadra di operatori sociali disposti ad andare a parlare con i residenti di un quartiere preoccupati dal fatto che i loro appartamenti si sarebbero deprezzati, che i loro figli sarebbero stati a rischio, che i loro cani avrebbero potuto contrarre qualche malattia, che… che che… Eppure si faceva. Era un processo lungo, faticoso e conflittuale. Il dialogo era la base. La forza era l’ultima spiaggia. Nei recenti casi di Treviso e di Roma è mancato questo, è mancata l’intermediazione dei politici disposti a metterci la faccia e la presenza qualificata di associazioni locali che garantivano che il centro non sarebbe stato abbandonato una volta aperto.

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