Due anni fa ho pubblicato questo post. Oggi leggo le parole di Nicola Aloi, già comandante della Capitaneria di porto di Crotone al momento del naufragio: «Se ci avessero chiamato un’ora e mezza prima noi li salvavamo. Perché? Perché riuscivamo ad intercettarli. Noi sappiamo che poi ti spiaggi o ti sfracelli sopra gli scogli, li fermavamo e li portavamo via. Purtroppo quando siamo arrivati non c’era più modo di fare niente se non salvare qualcuno».
Dunque, non possiamo salvare tutti, non noi, ma qualcuno poteva, e non lo ha fatto. Qualcuno, come ben sapete, si spinge anzi a insinuare che quei morti se la sono cercata, perché insomma chi ve lo fa fare a mettere a rischio la vita dei figli. Il problema è che a pensarlo, magari silenziosamente o magari no, sono in tanti, e tante, dal calore delle proprie case, le mani sulla tastiera del computer.
Non salvano, non salviamo neanche noi, che piangiamo quei morti e ci chiediamo come sia possibile.
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L’iniquità del mancato omaggio alle bare di Cutro, la lotta di Gkn, le truffe agli studenti: tre tappe diverse e un’unica necessità. Che c’entrano, queste cose, col lavoro culturale? Ne sono la base, invece. Giustamente Avvenire riportava qualche giorno fa le parole di Ernesto De Martino, nel 1952, quando diceva che gli abitanti più poveri di Eboli volevano soprattutto una cosa, questa: che”le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo”.
Raccontare, raccontare, raccontare. Accidenti, lo so, è poco, non ripara i viventi e non resuscita i morti. Ma intanto, e per cominciare, è questo che va fatto.