IL LAVORO CULTURALE. CUTRO, GKN, GLI STUDENTI TRUFFATI E IL GRANDE SFACELO

Come tutte e tutti, o almeno molte e molti, ho negli occhi i morti di Cutro e quell’omaggio mancato alle bare degli uomini, delle donne, dei bambini che mostra in pieno l’indecenza dello Spettacolo. Come scrive giustamente Nadia Terranova sulla Stampa di oggi, “prima di riparare i viventi, siamo costretti a riparare anche i morti, prima ancora di seppellirli o addirittura nell’impossibilità di farlo. In un luogo sacro che è stato offeso e violato, e perfino beffato con una oscena passerella”. Ho negli occhi i peluche lanciati contro le macchine governative. E non posso dimenticare il resto. Le donne, per esempio, a cui molte di noi hanno pensato due giorni fa, otto marzo.
Mahideh aveva sedici anni. Leggeva con passione. Studiava, studiava tanto. Almeno fin quando i talebani in Afghanistan non sono tornati al potere. La sua scuola è stata chiusa, alle ragazze è stato proibito di avere a che fare con libri e quaderni, tanto meno Internet. Mahideh ha deciso di partire, di raggiungere il cugino in Germania. Voleva andare all’Università.  Così ha insistito e lottato con i suoi genitori per intraprendere un lungo viaggio da sola. Su una barca. Quella barca è naufragata sul mare di Cutro, e di Mahideh non resta neanche il corpo.
Anche Asra Panahi aveva 16 anni è stata picchiata e uccisa perché si rifiutava di cantare un inno dedicato alla Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei. Mahsa Amini ne aveva 22, di anni. E’ stata massacrata a Teheran perché non portava correttamente il velo. Ne hanno pochi di meno le duecento ragazze che gridavano “non respiro” qualche giorno fa perché in quattordici scuole iraniane volevano continuare a studiare.
Cosa deve fare, chi lavora con le parole, se non parlare di questo? Perché in questi ultimi tempi sembra che il lavoro culturale debba ridursi al lavoro “con i libri”, mentre quel “lavoro con i libri” (quelli di tutti, non solo i propri, evidentemente) è una parte del tutto. E riguarda chi ci sembra – e non è – lontano e chi è vicino.
Restringo il cerchio.
Leggo questo appello dei lavoratori di Gkn. Che dice, fra l’altro:

“Nel 9 luglio del 2021 la Gkn di Firenze sale alle cronache nazionali: una mattina, una mail licenzia tutti i 422 lavoratori. Da lì scaturisce una lotta che ad oggi è già storia: l’assemblea permanente, il motto Insorgiamo, la convergenza con il resto delle lotte sociali e ambientali e molto altro.
Quei licenziamenti vengono sconfitti. Prendono con il tempo però un’altra forma: quella dei licenziamenti per logoramento, silenziosi, non dichiarati ma ugualmente efficaci
Ad oggi sono stati bruciati 220 posti di lavoro: 90 dei quali nell’ultimo anno con l’arrivo della nuova proprietà. Si tratta di Francesco Borgomeo, il quale acquista la Gkn nel dicembre del 2021. E l’ex advisor di Gkn e gli accordi tra lui e Gkn stessa rimangono riservati. Fa grandi promesse ma, di tavolo in tavolo, di rinvio in rinvio, non arrivano né piani industriali né investitori. Le istituzioni tollerano di fatto tale gioco: ad ogni incontro istituzionale la pazienza non ha mai limite ed ogni limite trova una nuova pazienza.
Il Collettivo di Fabbrica la chiama da subito la tattica della rana bollita: la rana viene cotta a fuoco lento, senza che se ne renda conto. E quando infine capisce di essere stata giocata, non ha più la forza per saltare via.
Da 20 mesi l’assemblea permanente è sempre la stessa, stesso obiettivo: preservare una risorsa industriale, tutelare i posti di lavoro. L’obiettivo dell’azienda, evidentemente anche: mandare via i lavoratori dalla fabbrica e smantellarla. La speculazione finanziaria ha forse semplicemente lasciato il posto a quella immobiliare.
Contro ogni previsione, l’assemblea permanente però resiste. E allora l’attacco dell’azienda si fa sempre più feroce. Dal logoramento passa a quella che abbiamo chiamato: la tattica dell’assedio. Assedio “per fame”: da novembre 2022 non vengono più pagati gli stipendi. Viene di fatto azzerato il contratto nazionale e interno: diritti acquisiti da 60 anni di lotte, ereditati internamente dalla vecchia Fiat di Novoli. Se osano comportarsi così, in una vertenza nazionale e alla luce del sole, cosa succede quotidianamente nelle piccole aziende, nei capannoni, nei magazzini, nei campi, nel turismo stagionale?”

Restringo ancora. Uscendo di casa, poco fa, sono stata fermata da due donne. Madre e figlia. Volevano sapere se conoscessi un certo ragazzo che aveva dato l’indirizzo in cui abito, e che millanta case in affitto per studentesse e studenti. Aveva già incassato cinquecento euro. Telefono spento. Nessuna traccia. Il posto di polizia ha fatto spallucce. E sulle giovani persone che cadono preda del mercato ignobile degli affitti nelle grandi città, sono parecchi a fare spallucce.

Che c’entrano, queste cose, col lavoro culturale? Ne sono la base, invece. Giustamente Avvenire riportava qualche giorno fa le parole di Ernesto De Martino, nel 1952, quando diceva che gli abitanti più poveri di Eboli volevano soprattutto una cosa, questa: che”le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente nel grande sfacelo”.
Raccontare, raccontare, raccontare. Accidenti, lo so, è poco, non ripara i viventi e non resuscita i morti. Ma intanto, e per cominciare, è questo che va fatto.

 

 

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