Il 5 aprile 1971 esce su Le Nouvel Observateur una lettera, scritta da Simone de Beauvoir, in cui 343 donne dichiarano di aver abortito. Tra le firmatarie, oltre alla stessa Simone de Beauvoir, Catherine Deneuve, Tina Aumont, Marguerite Duras, Gisele Halimi, Violette Leduc, Jeanne Moreau, Françoise Sagan, Agnès Varda. Pochi mesi dopo, in Germania, fu la volta della rivista Stern, che intitolò il numero del 6 giugno 1971 Wir haben abgetrieben! “Abbiamo abortito!” con la firma di 374 donne, fra cui Romy Schneider e Senta Berger.
Ms. Magazine di Gloria Steinem seguì l’esempio nel 1972 con la lettera “Noi abbiamo abortito”, che venne sottoscritta fra le altre da Nora Ephron, Anais Nin, Billie Jean King.
Quelle donne rischiavano, firmando le lettere, in un momento in cui abortire era reato. Nessun marchio desideroso di aumentare la propria credibilità intervenne: non era necessario, c’era il gruppo, c’era la comunità. Oggi, tocca essere due volte attenti: per non veder abolire i diritti, per non vederli trasformati in marketing, come ricorda su Twitter Claudia Durastanti, sottolineando che le aziende come Amazon e Meta che pagheranno i viaggi per abortire alle proprie dipendenti “non stanno esattamente sostenendo un diritto, stanno contribuendo alla sua privatizzazione e segmentazione in maniere che sconfinano nel Get your abortion on Amazon Prime”.