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Resta necessario prendere parola oggi, 25 novembre, ancora e sempre, con la fiducia che le cose cambieranno e lo scoramento nel notare che non cambiano ancora abbastanza, e che ancora dobbiamo fronteggiare l’impreparazione e l’arroganza di un governo che, Nordio alla mano, affronta la questione della violenza contro le donne solo in termini di repressione. Che la repressione non serva è cosa che si ripete da decenni. Che ci si trovi davanti un muro è cosa che si ripete da altrettanto tempo. Un muro che non è solo politico: appartiene alla psicologia delle masse, questo non voler capire che non serve l’ergastolo, ma una lenta mutazione. E serve, come ha scritto Costanza Jesurum in Violenze di genere, soprattutto una rete di accorgimenti che accompagnino quel cambiamento che per sua natura ha bisogno di molto tempo, proprio perché nel frattempo il tempo non può essere perso.
Come dovremmo cambiare, dunque? 
Non ho risposte certe. Quelle che avevo, le ho affidate a due libri che sono in circolazione in questo 2025, Le parole sono uno sciame d’api, che è un volume collettivo con contributi che ritengo preziosi, e la riedizione di L’ho uccisa perché l’amavo, scritto con Michela Murgia.
Non li ho accompagnati, questi due libri, e sto continuando a dire no a chi vorrebbe la mia presenza: ma non perché non creda alle presentazioni (al contrario, al contrario), ma perché vorrei che non fosse la voce di una singola a sovrapporsi al contenuto. Nel primo caso, sono tante le autrici che hanno detto la propria in forme diverse, e sono felice che siano loro a parlare. Nel secondo, c’è un’assenza che pesa: Michela non c’è più, e io non voglio parlare in suo nome, e aggiungermi a chi, in ottima fede, lo fa. Bastano i libri: sono capaci di viaggiare da soli, e chi li ha letti o leggerà può restituire quello che è stato il pensiero di Michela. Che è quel che conta, non la visibilità di cui in questo caso voglio fare a meno, con l’ovvia eccezione di questo post.
Non ho moltissimo da aggiungere in questo 25 novembre dove molto si parlerà, e parleranno anche coloro che d’abitudine tacciono perché così accade. La violenza contro le donne è fisica e psicologica, come dimostrano anni di ricerche e di dati che indispettiscono i negazionisti (anche quelli che si sono rifatti una verginità letteraria dimenticando di essere stati tali: ma, al solito, l’inferno è una buona memoria, e io ce l’ho). Ma  distribuire come al solito le colpe tra famiglia e televisione e cellulari serve a poco: perché è un intero modello, quello patriarcale, che è ammalorato come le pavimentazioni stradali di mezza Italia. Servirà tempo per un nuovo modello, che pure comincia a delinearsi.
Servirà ancor più tempo per disarcionare le parole tossiche degli altri.
Ma ci riusciremo. Che sia un 25 novembre di resistenza, per ognuna di noi.

Come tutti, ho letto, con sgomento, del doppio funerale. Lei vittima di femminicidio, lui l’assassino. Ho letto delle rose che coprivano le bare affiancate, ho letto di quel “celebriamo l’amore” pronunciato dal parroco, ho letto di quell’imputare le colpe alla “società malata”. E mi sono chiesta, non per la prima volta, che significato diamo alla parola amore.
Non entro evidentemente nella scelta di quel doppio funerale: entro nella scelta di raccontarlo pubblicamente, perché se la scelta è stata privata, in quanto voluta dai figli, privata doveva rimanere secondo me, e non dovevamo vedere quelle due bare affiancate e sentir pronunciare la parola amore.
Amore.
Perché è strano sentire questa parola quando leggiamo di una nave con aiuti umanitari e latte in polvere per i neonati abbordata, e l’equipaggio sequestrato, e noi ce ne stiamo qui, a masticare quelle tre sillabe senza sapere a chi rivolgerle. E’ strano quando leggiamo dei settecento marines mandati da Trump in California. E’ strano quando i giornali alternano le notizie sui morti a Gaza e quelle sullo chef che raccomanda il digiuno perché così il cervello “va a 500 all’ora”.
E ti chiedi cosa ce ne facciamo di un cervello a 500 all’ora quando non siamo in grado di comprendere le emozioni, di farle durare, di trasformarle in qualcosa che sia minimamente positivo.
A prestare attenzione, come diceva David Foster Wallace agli studenti, vent’anni fa.
“Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose.”

Ci tengo a dire una cosa, e riguarda la presentazione di Morgana-Il corpo della madre di ieri sera a Spazio Sette, con Chiara Tagliaferri, Alessandro Giammei, MP5, Valeria Solarino e tante, e tanti che erano presenti. Michela Murgia, non sembri retorico dirlo, su tutte, perché era presente davvero, con le sue parole e la sua voce e con qualcosa che non è solo ricordo, ma permanenza, non è solo nostalgia, ma riconoscimento e cammino comune.
Questo è quello che volevo dire, infatti: in un mondo spesso soffocante e a volte persino velenoso come quello della letteratura, può nascere e fiorire qualcosa che, banalmente, si chiama amore, ed è fatto di stima reciproca, di obiettivi comuni, di risate e di pianti, e di tutto ciò che si fa quando ci si vuole bene. Si dice così poco, quanto è importante volersi bene. Eppure, è quel che abbiamo.

Oggi pomeriggio alle 18.30 torno a Spazio Sette a Roma per un appuntamento gioioso: presentare Morgana-Il corpo della madre di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri. Sarò insieme ad Alessandro Giammei e Valeria Solarino. Ci sarà molto, molto amore.
Approfitto per una nota. In questo ciclo di Morgana c’è anche un capitolo, ed episodio, dedicato a Elena Ferrante, come è giusto che sia. E per una di quelle straordinarie coincidenze (che poi tali non sono), esattamente un 3 settembre di otto anni fa esplodeva il “caso” Elena Ferrante. Ricordate? Fu il momento in cui si apprendeva quale sarebbe la vera identità (e già sulle parole “vera” e “identità” molto ci sarebbe da discutere) di Elena Ferrante. Avvenne con quello che si suol definire “scoop” da parte di Claudio Gatti per il Sole24Ore e altre testate.
L’inchiesta venne condotta con gelido professionismo, come se portare alla luce l’identità di una scrittrice che ha più volte chiesto di non essere svelata, ma di voler continuare a celarsi dietro l’anonimato fosse equiparabile a sbugiardare l’evasione fiscale di Trump.
L’anonimato è una scelta di libertà, il desiderio di non essere giudicata se non per quello che si scrive e non per la visibilità, l’età, il corpo, la postura, le parentele.
I lettori di Elena Ferrante lo sanno. E in otto anni hanno continuato a saperlo: leggete Morgana-Il corpo della madre per capirlo. E, certo, non solo per questo.

FALSA VICINANZA

Facciamo un esercizio collettivo. Cosa ci spinge a identificare gli scrittori che leggiamo con una persona che conosciamo? Perché immaginiamo che siano tutte persone belle? E cosa ci succede quando chi amiamo sulla pagina commette un atto che ci ripugna? Non parlo di Alice Munro, oggi (dovrebbe uscire nei prossimi giorni un mio commento sulla Stampa, quindi rimando a quello), ma di tutti coloro che ci hanno sorpreso e da cui ci siamo sentiti traditi: non tanto  quelli di ieri ma quelli che crediamo di aver sfiorato davvero perché nostri contemporanei.
Marion Zimmer Bradley muore nel 1999 a 69 anni. E’ stata accusata di pedofilia della figlia, Moira Greyland, di essere stata abusata da lei e dal padre. In modo orribile. Leggere la sua poesia, Mother’s Hand, fa malissimo. E nessuno dovrebbe mettere mai in dubbio la versione della vittima, a mio parere.
C’è un ma. E non si tratta di “contesto”, non si tratta di “guarda le femministe fetenti che difendono le loro autrici”, come qualche imbecille pure sta scrivendo in giro. Si tratta del nostro rapporto, sbagliato, con i nostri eroi e le nostre eroine letterarie. 
In proposito, per ora, mi limito a postare qui quanto dichiarò in un’intervista del 2018  Michela Murgia. Che di Bradley era appassionata lettrice.

MICHELA

Oggi è il compleanno di Michela Murgia. Non riesco a trovare molte parole. Posto qui un breve articolo che è uscito sul Libro dell’anno di Treccani. Michela è con noi, ma non c’è, e questo è quanto.
“Per Michela Murgia la scrittura era politica. Non solo nei libri che ha scritto, tanti e importanti: da Ave Mary a Chirù, da Istruzioni per diventare fascisti, a Stai Zitta a God save the queer, e ancora il podcast Morgana con Chiara Tagliaferri, dove ha raccontato le donne di ogni tempo, fino a Tre ciotole, dove ha osato l’inosabile, raccontare la propria morte, con il coraggio e la gioia che solo una donna straordinaria poteva esibire.”

Noto che le discussioni sul materno si moltiplicano e, come spesso avviene, si irrigidiscono. Le cause sono infinite, come sempre: un episodio di cronaca, un libro (come quello di Michela Murgia, “Dare la vita”, che al solito viene preso come attacco personale a chi ha figli – e che noia, e basta con i personalismi, anche, non siete il centro dell’universo – e non come la traccia di una possibilità), altro. 
Ben 12 anni fa scrivevo qualche considerazione, in “Di mamma ce n’è più d’una”. Con qualche variante, temo che valga sempre.

Fino all’agosto scorso, e alla morte di Michela Murgia, mi dicevo che bisogna pur comprendere la solitudine, la rabbia, la tristezza di chi usa la rete con odio e livore. Da allora faccio molta più fatica, lo confesso. Perché esistono altri modi per sfogare o consolare solitudine rabbia e tristezza. Modi che non feriscono. Modi che non fanno ammalare.
Ma voglio essere ottimista fino all’ultimo. Dunque, concludo questo anno con le parole di Neil Gaiman, a proposito di diritti:

“Abbiamo l’obbligo di rendere le cose belle. Per non lasciare il mondo più brutto di quello che l’abbiamo trovato, per non svuotare gli oceani, per non lasciare che i nostri problemi ricadano sulla prossima generazione. Abbiamo l’obbligo di fare pulizia prima di scomparire, e non lasciare che i nostri figli si ritrovino in un mondo miope, incasinato, immutabile e paralizzato.”
Buon anno, commentarium caro. E che sia migliore

Tre mesi dalla morte di Michela Murgia, otto anni esatti dall’uscita di Chirù, che è stato in effetti il suo penultimo romanzo vero e proprio, prima di Tre ciotole.  Otto anni fa, ricordo, uscivo dalla primissima delle mie lezioni alla Scuola Holden e mi dirigevo verso il Circolo dei lettori, dove presentava Chirù in quella che era una performance più che una presentazione. 
E dal momento che ricordare Michela significa leggere Michela, riposto qui quello che scrissi allora.
(Manca. Manca tantissimo).
“Chi si fa maestra offre non solo quel che sa, ma anche quel che é, e nessun dono lascia immune il donatore, o la donatrice. Nessun amore fra chi insegna e chi apprende è immune dalla manipolazione e dal risentimento. Come nessuna relazione fra chi cammina sulla terra”.

Da questa mattina mi chiedo il senso di scrivere un articolo violentissimo, come quello di Francesco Merlo su Zerocalcare e non solo, per dar conto di una posizione. Mi interrogo anche sul perché in quell’articolo si evoca Michela Murgia come esempio di insignificanza  di discorsi non seri. In particolare, riferendosi a una dichiarazione di Fumettibrutti, dice:

“Ecco: intersezionalità e Michela Murgia. In tempi normali basterebbe questa lunga spiegazione per liberarci con un sorriso dall’imbarazzante sospetto che possa trattarsi di una cosa seria.”

Smetto di interrogarmi, perché il meccanismo evidentemente è quello, ed è sciocco da parte mia pretendere che cambi.
Quindi, faccio altro, e penso a questa giornata dei morti, e penso a chi è morto.

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