MICHELA

Oggi è il compleanno di Michela Murgia. Non riesco a trovare molte parole. Posto qui un breve articolo che è uscito sul Libro dell’anno di Treccani. Michela è con noi, ma non c’è, e questo è quanto.

 

Quando, nel maggio 2023, Michela Murgia decise di annunciare la sua morte imminente in un’intervista al Corriere della Sera, suscitò sconcerto, emozione, amore e dolore. Ma anche l’ostilità di alcuni dei suoi molti odiatori o sprezzatori, che non avrebbero taciuto neanche a funerale avvenuto. Un’esplosione di emozioni che in genere si riserva a chi è già morto, non a chi ha il coraggio di raccontare giorno per giorno la sua storia, conoscendone la fine.
Quel racconto ci ha chiamato in causa in tanti modi, sul piano umano, civile, sociale, culturale: e non poteva che essere così, perché Michela Murgia ha sempre avuto la capacità di toccare tutte le corde, senza mai perdere di vista quella che è, o dovrebbe essere, la missione di chi scrive e prende parola pubblica, anche pagando costi altissimi.  Sono state parole politiche, come lo è stata tutta la sua vita, da quando ha pubblicato il primo libro, Il mondo deve sapere, fino alle storie su Instagram dove mostrava la rasatura dei capelli cui si sottoponeva ridendo, e alle ultime, poco prima del 10 agosto che l’ha portata via, quando mostrava una specie di fischietto che le era stato regalato e di cui si serviva per chiamare nella sua stanza, ancora una volta ridendo, i suoi figli d’anima e quella che ha chiamato la propria famiglia queer. La cosa più potente che ha fatto raccontando la vicinanza della morte è quella di aver usato le sue parole, senza lasciare che a raccontarla fossero le parole altrui. Ripeteva spesso che è importante sognare, altrimenti finiremo nel sogno di qualcun altro.
Ha sempre saputo sognarsi: il libro che la fece conoscere, Il mondo deve sapere sarebbe diventato un film di Paolo Virzì, che non aveva amato. Era la storia di quando lavorò come operatrice in un call center, e non fu l’unica esperienza precaria. Nel 2019, quando Matteo Salvini le aveva dato dell’intellettuale radical chic e snob, aveva postato il suo curriculum: cameriera stagionale in una pizzeria e poi in un albergo, una società di assicurazioni, precaria nelle scuole, consegna di cartelle esattoriali a domicilio (quattromila lire a cartella), impiegata in una centrale termoelettrica, portiera notturna in un hotel. Quello fu il lavoro che le permise di giocare di ruolo e di sperimentare la scrittura che l’avrebbe resa famosa. Giocava nelle vesti di un’elfa, perché Michela Murgia leggeva Tolkien e parlava l’elfico, e leggeva prima ancora Marion Zimmer Bradley, scoperta sulla nave che dalla Sardegna la portava nel continente (lo ha raccontato in un piccolo e prezioso libro, L’inferno ha una buona memoria, pubblicato da Marsilio). Ancora poco, e avrebbe pubblicato Accabadora, che univa tanto di Michela: la sua esperienza di figlia d’anima e le storie antiche della Sardegna. Sarebbe stato un successo enorme, pluripremiato, insignito del Campiello, fra le altre cose. E fu in quell’occasione che mostrò quella che era: la donna coraggiosa, in grado di dire quel che gli altri tacevano. Protestò, da vincitrice, per le parole scorrette di Bruno Vespa, presentatore del premio nella serata televisiva, nei confronti di un’altra giovane scrittrice e della sua scollatura. Per Michela Murgia la scrittura era politica. Non solo nei libri che ha scritto, tanti e importanti: da Ave Mary a Chirù, da Istruzioni per diventare fascisti, a Stai Zitta a God save the queer, e ancora il podcast Morgana con Chiara Tagliaferri, dove ha raccontato le donne di ogni tempo, fino a Tre ciotole, dove ha osato l’inosabile, raccontare la propria morte, con il coraggio e la gioia che solo una donna straordinaria poteva esibire.

 

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