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La Buchmesse di Francoforte e l’Italia paese ospite, tra Carosone e ‘O sole mio. Come scrive Paolo Rumiz, “”Non era solo un inconveniente. Era percepibile ovunque nello spazio centrale offerto al mio Paese, ospite d’onore della rassegna, una rappresentazione tendenzialmente da cartolina, un’ambientazione sonora che lasciava poco spazio alla forza della parola nuda. Il tutto con la preoccupazione di riempire gli intervalli tra gli incontri con mandolinate o musiche vagamente sedative, stile sala d’aspetto di un dentista o comunque tali da evitare, con motivi nazional-popolari, eccessivi acuti intellettualistici nei conferenzieri”.
E’ una questione di competenza di chi ha lavorato (male, malissimo, anche prima di Mazza) a uno degli appuntamenti più importanti per la nostra editoria e la nostra cultura? Sì, anche. Ma secondo me entra in ballo anche il concetto stesso di cultura secondo questo governo: perché fin qui, dai tempi del non compianto Sangiuliano, hanno parlato spesso e volentieri di “egemonia culturale” della sinistra senza tirar fuori uno straccio di progetto. Cosa sia l’editoria italiana, cosa si muova nei libri italiani, forse non lo sanno neanche (ma forse non lo sapevano neanche prima). E  non danno alla cultura e alla letteratura in particolare il ruolo che si prende anche suo malgrado: raccontare il mondo, raccontare il sentimento del tempo, anche.
In sostanza: chi ha organizzato e pensato la nostra presenza alla Fiera ha immaginato un invito ad amare l’Italia perché è il paese dove fioriscono i limoni eccetera. I limoni fioriscono pure, tra un diluvio e l’altro: ma c’è molto altro da raccontare. Ancora una volta, volendolo fare. Peccato.

Quando si intraprende una discussione, ovunque la si intraprenda (qui, sui social, su carta, in televisione), c’è un problema di cui non ci si rende conto, almeno secondo me. Le parole. Che non si rinnovano, che mancano, che vengono ripetute fino a sbiadire. Parto dalle parole della sinistra: ma non degli esponenti politici di primo piano, bensì dei militanti o simpatizzanti o votanti o quel che vi pare. Sono sempre uguali. Le sento ripetere fin dagli anni Settanta, e allora avevano forse un senso: ma oggi sono automatismi, meccanismi  vuoti, non aderenti al reale.
Grazie al cielo, non sono la sola a rendermene conto. Questa mattina, su Repubblica, è Paolo Rumiz a denunciarlo: “la politica è fatta anche di parole, e fino a prova contraria le parole sono il mestiere di chi scrive. Ebbene, mi accorgo che esiste già di fatto un’egemonia della destra sul piano verbale, un’egemonia tale che i partiti di governo sono costretti a inseguirla penosamente”.
In un accorato intervento su Minima&Moralia, Matteo Nucci ha riproposto il discorso su Gaza. Sull’assenza di parole ancora una volta incisive e corrispondenti al reale su quanto sta avvenendo, con poche eccezioni.
Ci sono quelli che continuano a farlo, certo, da tempi non sospetti: penso a Wu Ming 1 e ai suoi Uomini pesce che stanno arrivando, penso allo stesso Rumiz, penso a Claudia Durastanti col suo non abbastanza compreso Missitalia, penso a chi è consapevole che la lingua è resistenza, qualora la si usi bene. E mi chiedo perché non ci riflettiamo abbastanza, e perché lasciamo andare quel che ci caratterizza da millenni. Perché non curiamo la parola fino a quando, come diceva Emily Dickinson, non comincia a splendere. O, se lo facciamo, lo facciamo per raccontare noi stessi, e non tutto il resto.

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