DOLOROSA CI FU LA PARTENZA: DA GORIZIA A PRIEBKE

Prendo alla lontana i discorsi su Priebke (per chi volesse un’analisi immediata, condivido quella, bellissima, di Barbara Spinelli per Repubblica). Comincio dal 1964. Al Festival dei Due Mondi di Spoleto il Nuovo Canzoniere Italiano presenta lo spettacolo Bella Ciao. All’interno c’è una canzone, che viene intonata da Michele L. Straniero e Fausto Amodei: O Gorizia tu sei maledetta,  che appartiene agli anni della Prima Guerra Mondiale e che venne a lungo osteggiata per i contenuti.  Strofa dopo strofa, cresce il clamore e si trasforma in rissa, raccontata da molti, fra cui Giovanna Marini:
“Finalmente si alza Michele Straniero e intona Gorizia. Alla strofa “Traditori signori ufficiali / voi la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / questa guerra ci insegni a punir” succede l’ira di Dio. Una voce si leva dalla platea : “Evviva gli ufficiali” seguita da cori di “Evviva l’Italia”. Dal loggione arriva, una risposta immediata e viene lanciata in platea una sedia, mentre si intona Bandiera Rossa. Dal basso rispondono con Faccetta Nera. Spintoni a destra e a sinistra. Tutt’intorno, la gente continua a discutere sempre più “animatamente”. Insomma, si menano.”
Qui trovate il testo e altre ricostruzioni.
La data, dunque: 1964. Alcuni di noi e di voi erano già nati ed erano bambini, altri erano già giovani adulti. Un tempo relativamente vicino. Un tempo che ci appartiene ancora, che è ancora dentro di noi, come si diceva a proposito di femminicidio, ricordando la troppo vicina abolizione del delitto d’onore. Ci sono elementi della nostra cultura che, se non vengono smascherati e analizzati, permangono, che lo vogliamo o no.
Cosa ci dice, dunque, la reazione violenta a un canto anarchico? Facciamo un ulteriore passo indietro e andiamo al bel libro dello storico Mark Thompson, La guerra bianca. Thompson racconta, con uno sguardo non parziale, di come la Grande guerra e soprattutto la successiva narrazione della medesima abbiano contribuito a formare il cosiddetto carattere nazionale: in virtù anche della sua trasformazione, per mano mussoliniana, in epopea del sacrificio degli eroici soldati.  Tacendo però sulle responsabilità di chi mandò al macello un’intera generazione, e moltiplicando sacrari e ossari per celebrare, più che qualcosa che era avvenuto, qualcosa che si stava preparando. Penso alle belle parole di Paolo Rumiz su Redipuglia, per esempio:
“Redipuglia non è un cimitero. Fu, anzi, costruita come antitesi al cimitero. Uno schieramento di morti, la sacralizzazione della guerra. Un oggetto siderale, cui è tolto il contatto con la terra madre. Solo pietra avrai attorno, soldato. Non porterai sulla tua tomba nessuna data e nessun nome di luogo. Ti basti il grado e il battaglione. Pietra levigata, senza niente per mettere un fiore. Anche il dolore per il singolo Caduto ti è negato. Qui si piange per altro: lo sgomento per l’ indicibile, la morte anonima. Rileggo gli appunti. Ossa senza pace, traslocate non una ma tre, quattro volte: la trincea, poi i piccoli camposanti dietro le linee, poi i cimiteri di guerra, poi gli ossari, inventari di resti già sterilizzati, ripuliti come ciottoli di fiume. Redipuglia stessa, rifatta tre volte, in un traffico di ossa durato vent’ anni, per celebrare un impero”.
Cosa abbiamo, fin qui? Abbiamo una torsione della memoria di cento anni fa che ancora batte nei nostri polsi, e che avrebbe bisogno di essere raccontata ancora e ancora. Ma andiamo avanti, invece, e arriviamo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Qui va chiamata in causa una scrittrice, una brava scrittrice come Lia Levi. Nel suo La notte dell’oblio racconta la terribile storia di una giovane donna sopravvissuta alla deportazione degli ebrei romani. Il padre, però, non si è salvato: perché, tornato a Roma per controllare lo stato del negozio, era stato denunciato, catturato, ucciso. La giovane donna si innamorerà, senza saperlo, del figlio del delatore.  Cosa dice Lia Levi? Dice, esplicitamente:
“La società italiana nel suo insieme era restia alla memoria e, quando se ne presentò l’occasione, preferì assolversi, trasformando in lavacro collettivo un provvedimento politico come la cosiddetta “amnistia di Togliatti”. Non ci fu riforma della pubblica amministrazione, per esempio: chi era poliziotto durante il fascismo rimase al suo posto, e così i giudici, i funzionari. Da una parte c’era il desiderio, legittimo, di ricominciare, lasciandosi alle spalle il passato. A prevalere fu però la rimozione”.
Assolversi, ecco il punto. Incrociamo allora un altro libro, già citato in precedenza sul blog, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, di Filippo Focardi. Che affronta la stessa tematica di Lia Levi e prosegue il ragionamento di Thompson. Ovvero:
“Alla base della lunga persistenza in Italia e all’estero di stereotipi e miti sui tedeschi e sugli italiani sta il fatto che essi abbiano corrisposto effettivamente a comportamenti e gradi di responsabilità molto differenti dei due ex alleati. Esiste cioè alla loro base un forte nucleo di verità. A fronte della guerra totale di annientamento condotta dalla Wehrmacht e della Shoah, stavano ad esempio l’aiuto prestato dagli italiani agli ebrei in Francia come in Jugoslavia o in Grecia, il soccorso offerto alle popolazioni serbe in Croazia, la mancanza di crimini di massa di tipo genocidiario come quelli pianificati e messi in pratica dai tedeschi, specialmente nei territori orientali non solo contro gli ebrei ma anche contro gli zingari o i prigionieri di guerra sovietici. E tuttavia gli stereotipi del «bravo italiano» e del «cattivo tedesco » sono serviti egregiamente a mascherare e rimuovere aspetti altrettanto reali della guerra fascista e prima ancora della politica coloniale e antisemita del regime: il carattere aggressivo di quella guerra e le responsabilità del regime nel suo scatenamento; il fatto che molti italiani l’abbiano combattuta – almeno per un pezzo – con convinzione ideologica; i gravi crimini commessi nei Balcani o in Russia che si aggiungevano a quelli già perpetrati su larga scala in Libia e in Etiopia; la persecuzione antisemita nel 1938 non imposta da Berlino e la collaborazione poi prestata dalla RSI allo sterminio degli ebrei, braccati e consegnati nelle mani dei carnefici hitleriani. Gran parte del carico delle colpe italiane ha finito così per essere messo sulle spalle (già molto provate) dei tedeschi per poi essere rapidamente rimosso.”
Non ho altri libri da citare, né molto da aggiungere: se non ribadire che se non si fanno davvero i conti con la memoria, in tutte le sedi in cui la nostra comunità si incontra, famiglia, scuola, piazze, luoghi della comunicazione, ha molto poco senso chiedersi da dove spuntino “i nipotini di Hitler” nostrani. Assolversi non serve a niente. Dimenticare non serve mai.

6 pensieri su “DOLOROSA CI FU LA PARTENZA: DA GORIZIA A PRIEBKE

  1. La rimozione, e il brusio di migliaia di simpatizzanti del fascismo nelle osterie e in famiglia a ripetere i mantra “quando c’era il duce si stava meglio” a inculcare a figli e nipoti queste idee, e sopra a tutto la coperta ipocrita della democrazia cristiana. Ora raccogliamo i frutti.
    Comunque, qui una suggestiva e cruda canzone anarchica friulana (con testo tradotto) sulla grande guerra vista dai soldati http://youtu.be/OJ5G8wsg36c

  2. Ieri sera, accendendo il tablet che aveva usato mio figlio, ho notato dalla cronologia che aveva fatto ricerche online su Priebke. Probabilmente non ne conosceva la storia, nessuno, ne io ne la scuola, gli aveva mai detto niente.

  3. @picobeta
    ne ha parlato oggi Minoli, su radio24, in una bella trasmissione in cui ha ricostruito la giornata del 16 ottobre, il rastrellamento degli ebrei al Portico d’Ottavia.

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