Ogni volta che rimetto mano a una storia, piccola o grande, di pacifismo e nonviolenza, dico a me stessa che sto facendo un esercizio di memoria, nulla più. Memoria di storie altre dalla narrazione della guerra: certo, ci sarà sempre chi dirà – perché questa è la discussione oggi, questo è il modo di dire la propria sapendo che non si ha intenzione di confrontarsi davvero – che sono esempi inapplicabili al presente. Eppure, ci sono vicende del passato che vengono applicate al presente senza problemi. Questo non è un manuale: è un puzzle di quel che viene dimenticato, e tassello dopo tassello potrebbe, chissà, costruire un altro tipo di immaginario. Solo questo può fare chi ha soltanto parole da spendere: provare a costruire un tessuto culturale diverso, e pazienza per tutti coloro, e sono tante e tanti, che usano il pacifismo come capro espiatorio cui rivolgersi. Un po’ come succedeva con chi rifiutava il greenpass, ricordate? Il problema erano loro, non lo smantellamento del sistema sanitario. Pazienza. Quella di oggi è dunque una storia piccola, ma che vale la pena di essere raccontata: la storia di un agronomo che nascose e redistribuì cibo e beni sottraendoli ai tedeschi e salvando disertori e partigiani, e riuscì persino a ingannare i tedeschi con venti falsi certificati medici. La storia di Paolo Sabbetta.