Cosa possono fare scrittori e scrittrici in giorni come questi? Come possono contrastare la prepotenza, l’espulsione da ogni discorso (oltre che dalla vita) di decine di migliaia di morti? Cosa dire mentre Trump, come scrive Il Manifesto, è volato in oriente per firmare il nuovo piano regolatore di Gaza e regalare a Netanyahu la totale impunità per il genocidio commesso nella Striscia?
Intanto, far sì che le parole del passato tornino a risuonare oggi. Quella che segue è una parte del discorso di Susan Sontag per l’accettazione del Jerusalem Prize (già) nel 2001 (già).
“Ci preoccupiamo delle parole, noi scrittori. Le parole significano. Le parole indicano. Sono frecce. Frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà. E più sono astratte e imponenti, più finiscono per assomigliare a stanze o a gallerie. Possono espandersi o franare. Possono riempirsi di cattivi odori. Spesso ci fanno ripensare ad altre stanze, in cui ci piacerebbe vivere o ci sembra di vivere già. Possono diventare spazi inabitabili perché perdiamo l’arte o la saggezza necessaria per viverci. E alla fine quelle cubature di intenzioni mentali che non sappiamo più abitare verranno abbandonate, sprangate chiuse per sempre.
Che cosa intendiamo, per esempio, con la parola “pace”? Intendiamo forse assenza di conflitto? Oblio? Perdono? O forse una grande stanchezza, un esaurimento, il prosciugarsi di ogni rancore?
A me pare che per la maggior parte della gente pace significhi vittoria. La vittoria del proprio schieramento. Per loro vuol dire questo, mentre per gli altri significa sconfitta.”
“Mentre la parola “individualità” diventa sempre più sinonimo di egoismo, l’incessante propaganda che oggi si fa in difesa dell’ “individuo” mi sembra, infatti, profondamente sospetta. Le società capitalistiche hanno ogni interesse nell’esaltare un’individualità e una libertà, che finiscono per significare poco più che il diritto alla continua esaltazione di se stessi, e alla libertà di fare acquisti, comprare, usare, consumare e rendere obsoleto.
Non credo che la coltivazione del proprio io abbia un valore intrinseco. E credo che non ci sia cultura (e uso il termine in senso normativo) senza un principio di altruismo, di considerazione per gli altri. Credo invece che ci sia un valore intrinseco nell’allargamento della nostra capacità di comprendere quel che può essere una vita umana. Se c’è stato un progetto in cui la letteratura mi ha impegnata, prima da lettrice e poi da scrittrice, si è trattato del progetto di allargamento delle mie simpatie verso altri esseri, altri campi, altri sogni, altre parole, altri territori di interesse.”
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Sono stata a scuola, questa mattina, a incontrare tre classi (le ultime della scuola secondaria di primo grado) e parlare di libri. Che è cosa che faccio sempre con mille dubbi, perché credo che non ci sia niente di più pericoloso del “dovete leggere”, specie a tredici o quattordici anni. Ma era una gran bella scuola, il Viscontino, dove avevano letto Bradbury e Golding e visto Stand by me, per esempio, e qualcuno aveva già cominciato a scrivere una storia (fantasy, ed è giusto così) e le ragazze non si vergognavano di leggere romance, perché a quell’età i romanzi che allora si chiamavano rosa li abbiamo letti tutte.
Però mi è tornato in mente un vecchio articolo di Susan Sontag sulla scrittura e sulla lettura, e mi chiedo quanto tempo dedichiamo a insegnare a leggere, oltre che a scrivere. Insegnare significa, ovviamente, riuscire a districarsi nel poco tempo che abbiamo per scegliere e un libro e dedicarsi al medesimo. Scriveva Sontag:
“Ciò che scrivo è diverso da me. Ciò che scrivo infatti è più brillante di me. Perché posso riscriverlo. I miei libri sanno quello che sapevo una volta , in forma irregolare, a intermittenza. E mettere sulla carta le parole migliori non diventa più facile neppure se si scrive da molti anni. Al contrario. Qui sta la grande differenza tra leggere e scrivere. Leggere è una vocazione, un’ arte, nella quale, con l’ esercizio, sei destinato a diventare più abile. Da scrittore accumuli soprattutto incertezze e timori. Tutto questo senso di inadeguatezza da parte dello scrittore – della qui presente, in ogni caso – è basato sulla convinzione che la letteratura conti (contare è sicuramente un eufemismo), che ci siano libri “necessari”, libri cioè che mentre li leggi, sai che rileggerai. Forse anche più di una volta. Esiste forse privilegio più grande di avere una coscienza estesa, riempita dalla letteratura e ad essa orientata?”
Si fa un bel po’ di fatica a scrivere di qualsiasi altra cosa, mentre sta accadendo, ancora, qualcosa che è difficile commentare. Dunque no, non parlerò, non ora, di un episodio che riguarda una biblioteca e, ancora una volta, il…
La discussione torna sempre allo stesso punto: i non-libri, o libroidi, o alieni, come li ha definiti La Capria, tolgono spazio ai libri “letterari”? Allora, spostiamoci di un passo. Posto un intervento di Susan Sontag, che oggi avrebbe compiuto ottant’anni,…