L'EGO DEL LETTORE

La discussione torna sempre allo stesso punto: i non-libri, o libroidi, o alieni, come li ha definiti La Capria, tolgono spazio ai libri “letterari”? Allora, spostiamoci di un passo. Posto un intervento di Susan Sontag, che oggi avrebbe compiuto ottant’anni, sulla lettura e la scrittura (la traduzione è di Emilia Benghi) e vediamo se ne veniamo a capo.
Leggere romanzi mi sembra del tutto normale, scriverli, invece, tanto strano… lo penso finché poi ricordo a me stessa quanto le due cose siano strettamente correlate. (Niente generalizzazioni blindate, solo qualche osservazione). Primo, perché scrivere è esercitare, con particolare intensità e attenzione, l’ arte del leggere. Scrivi per leggere ciò che hai scritto, per vedere se va bene e, visto che non è mai così, riscriverlo una, due, quante volte ci vogliono per farlo diventare qualcosa che puoi sopportare di rileggere. Sei il tuo primo, forse più severo lettore.
“Scrivere è arrogarsi il diritto di giudicare se stessi”, scrisse Ibsen sul risvolto di copertina di uno dei suoi libri. Difficile immaginare di scrivere senza rileggere. Ma quello che si scrive di getto davvero non va mai bene? Certo che sì, persino più che bene, tanto da suggerire, almeno a questa scrittrice, che a guardar meglio, o a voce alta, cioè rileggendolo, potrebbe ancora migliorare. Non dico che lo scrittore debba logorarsi per produrre qualcosa di buono. “Ciò che è scritto senza sforzo non si legge in genere con piacere” disse il Dr. Johnson, e la massima sembra lontana dal gusto contemporaneo quanto il suo autore. Molti scritti prodotti senza sforzo danno sicuramente un grande piacere. No, il problema non è il giudizio dei lettori, che preferiscono forse opere più spontanee, meno elaborate, ma quello che pensano gli scrittori, questi professionisti dell’ insoddisfazione.
Pensi: se riesco ad arrivare a questo livello al primo tentativo, senza troppa difficoltà, non potrei fare ancora meglio? E benché questo – il riscrivere, e il rileggere – suoni faticoso, è in realtà la parte più piacevole dello scrivere. Talvolta l’ unica parte piacevole. Mettersi a scrivere, con in mente l’ idea della “letteratura” è arduo, spaventa. Un tuffo in acque gelide. Poi ti scaldi, quando hai già qualcosa da elaborare, migliorare, correggere. Mettiamo che sia un disastro, ma che ci sia il modo di sistemarlo. Cerchi di essere più chiaro. O più profondo. O più eloquente. O più eccentrico. Cerchi di essere fedele a un certo mondo. Vuoi che il libro spazi di più, sia più autorevole. Vuoi tirar fuori te stesso da te stesso. Vuoi tirar fuori il libro dalla tua mente recalcitrante. Il romanzo è dentro la tua testa, come la statua è sepolta nel blocco di marmo e tu tenti di liberarlo. Tenti di avvicinare quella robaccia sulla pagina a quello che pensi dovrebbe essere il tuo libro a quello che sai, nei tuoi accessi di esaltazione, che il tuo libro può essere. Leggi e rileggi ogni frase. E’ proprio questo il libro che sto scrivendo? E’ davvero tutto qui? Mettiamo invece che vada bene. Perché va bene, a volte (in caso contrario un giorno o l’ altro impazziresti). Ecco fatto, anche se scrivi a mano più lentamente di chiunque altro e sei pessimo a dattilografare, hai aperto un sentiero di parole e vuoi andare avanti, così lo rileggi. Forse non osi esserne soddisfatto, ma nello stesso tempo ti piace quello che hai scritto. Ti ritrovi a gustare con piacere, un piacere da lettore, quello che c’ è sulla pagina.
Scrivere in fondo non è altro che fare a te stesso una serie di concessioni, permettendoti di esprimerti in un certo modo. Di inventare. Saltare. Volare. Cadere. Di trovare il tuo proprio modo di narrare e di affermare, di trovare cioè la tua libertà interiore. Di essere severo senza farti troppo male. Di non fermarti troppo spesso a rileggere. Di continuare a remare, quando osi pensare che stia andando bene (o non troppo male), senza aspettare la spinta dell’ ispirazione. Gli scrittori ciechi non possono certo rileggere ciò che hanno dettato. Forse non è un grosso problema per i poeti, che spesso hanno nella mente gran parte delle loro opere prima di mettere qualsiasi cosa sulla carta. (I poeti si affidano all’ orecchio ben più di quanto facciano i prosatori.) Non poter vedere non significa che non si faccia opera di revisione. Come non immaginare che le figlie di Milton abbiano riletto al padre, ad alta voce ogni sera le parti di Paradiso perduto che lui dettava per poi annotarne le correzioni? Ma i prosatori, che lavorano tra cataste di parole non possono tenere tutto a mente. Hanno bisogno di vedere quello che hanno scritto. Deve essere così anche per gli scrittori all’ apparenza più capaci di comunicare, più prolifici. (Così Sartre, divenuto cieco, annunciò la fine della sua carriera di scrittore.) Pensiamo al grande, venerabile Henry James, che passeggia su e giù per una stanza a Lamb House mentre detta The golden Bowl ad una dattilografa. Lasciando da parte la difficoltà ad immaginare come James abbia potuto dettare in assoluto la sua ultima prosa, e per giunta al ticchettio infernale di una Remington del 1900, non c’ è forse da presumere che James abbia riletto il dattiloscritto, e sia stato prodigo di correzioni?
Quando tornai ad ammalarmi di cancro, due anni fa, e dovetti smettere di lavorare a In America, ormai quasi terminato, un gentile amico di Los Angeles, che mi sapeva disperata e preoccupata di non poter mai più finire il libro, si offrì di prendere un periodo di aspettativa dal lavoro e di venire a stare con me a New York per tutto il tempo necessario a dettargli il resto del romanzo. E’ vero, i primi otto capitoli erano pronti (cioè riscritti e riletti molte volte), avevo iniziato il penultimo e sentivo di avere in mente l’ arco completo dei due capitoli finali, eppure… eppure dovetti respingere la sua offerta, per quanto generosa e commovente. Non fu solo per il fatto che ero già troppo confusa da dosi massicce di chemioterapici e di antidolorifici per ricordare che cosa avevo in mente di scrivere. Dovevo essere in grado di vedere che cosa avevo scritto, non semplicemente di sentirlo. Dovevo poter rileggere.
La lettura precede di solito lo scrivere e l’ impulso a scrivere è quasi sempre scatenato dalla lettura. Leggere, l’ amore per la lettura, è quello che ti fa sognare di diventare scrittore. E dopo che lo sei diventato, leggere libri scritti da altri e rileggere i tuoi libri preferiti, rappresenta un’ irresistibile distrazione dallo scrivere. Distrazione. Consolazione. Tormento. E, sì, ispirazione. Naturalmente non tutti gli scrittori lo ammetteranno. Ricordo che una volta parlando con V.S. Naipaul ho fatto accenno ad un romanzo inglese del diciannovesimo secolo che adoravo, e che pensavo lui ammirasse altrettanto, come tutti gli appassionati di letteratura che conoscevo. Invece no, mi disse che non lo aveva letto, e notando un’ ombra di meraviglia sul mio volto aggiunse severo: “Sono uno scrittore, Susan, non un lettore.” Molti scrittori ormai non più giovani sostengono di leggere poco, per svariate ragioni, e di considerare in realtà lettura e scrittura in qualche modo incompatibili. Forse per alcuni è davvero così, non sta a me giudicare. Se dipende dal timore di essere influenzati, mi sembra una preoccupazione inutile, superficiale. Se è per mancanza di tempo – le ore sono quelle e se le passi a leggere, ovviamente non puoi scrivere – allora è un ascetismo cui non aspiro.
Perdersi in un libro, il vecchio detto, non è pigra fantasia, ma un modello di realtà che dà assuefazione. Sono famose le parole di Virginia Woolf in una lettera: “Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine.” Sicuramente il paradiso sta, ancora con le parole della Woolf, “nella completa eliminazione dell’ ego durante la lettura”. Sfortunatamente non smarriamo mai l’ ego, come non possiamo andare oltre i nostri piedi. Ma quel rapimento incorporeo, leggere, è una sorta di trance sufficiente a farci sentire privi di ego. Come la lettura, quella estatica, scrivere romanzi, abitare altre identità, dà anche la sensazione di perdere se stessi. A tutti oggi piace pensare che scrivere sia solo una forma di amor proprio, definita anche autoespressione. Dato che non siamo più reputati capaci di un altruismo autentico, si presuppone che non sappiamo scrivere se non di noi stessi.
Ma non è vero. William Trevor parla del coraggio dell’ immaginazione non autobiografica. Perché non dovresti scrivere per sfuggire a te stesso, piuttosto che per esprimerti? E’ molto più interessante scrivere di altre persone. Inutile dire, ho prestato una piccola parte di me ad ogni mio personaggio. Quando in In America i miei immigrati polacchi arrivano nel sud della California e, usciti dal villaggio di Anaheim nel 1876, vagabondando nel deserto vengono sopraffatti da una spaventosa, trasformante visione di vuoto, stavo di certo attingendo al mio personale ricordo delle passeggiate fatte da bambina nel deserto dell’ Arizona meridionale, appena fuori quella che allora era una piccola città, Tucson, negli anni ‘ 40. Nella prima stesura di quel capitolo c’ erano i saguaros (enormi cactus a forma di candelabro, ndt) nel deserto della California meridionale . Alla terza stesura li avevo eliminati a malincuore. ( Ahimè, niente saguaros a ovest del fiume Colorado.)
Ciò che scrivo è diverso da me. Ciò che scrivo infatti è più brillante di me. Perché posso riscriverlo. I miei libri sanno quello che sapevo una volta , in forma irregolare, a intermittenza. E mettere sulla carta le parole migliori non diventa più facile neppure se si scrive da molti anni. Al contrario. Qui sta la grande differenza tra leggere e scrivere. Leggere è una vocazione, un’ arte, nella quale, con l’ esercizio, sei destinato a diventare più abile. Da scrittore accumuli soprattutto incertezze e timori. Tutto questo senso di inadeguatezza da parte dello scrittore – della qui presente, in ogni caso – è basato sulla convinzione che la letteratura conti (contare è sicuramente un eufemismo), che ci siano libri “necessari”, libri cioè che mentre li leggi, sai che rileggerai. Forse anche più di una volta. Esiste forse privilegio più grande di avere una coscienza estesa, riempita dalla letteratura e ad essa orientata? Un libro pieno di saggezza, che sappia far giocare la mente, che dilati la capacità di comprendere e partecipare, che registri fedelmente un mondo reale ( non solo l’ agitazione di una mente singola), al servizio della storia, che difenda emozioni contrarie e ardite… un romanzo che si reputa necessario dovrebbe essere gran parte di queste cose.
Se poi continueranno ad esserci lettori che condividono questa alta concezione di letteratura, beh, “E’ una domanda senza risposta”, come disse Duke Ellington una volta che gli chiesero perché lo si trovasse ancora a fare “matinée” all’ Apollo. Meglio continuare a remare.

13 pensieri su “L'EGO DEL LETTORE

  1. In vita mia ho apprezzato la Sontag ma onestamente questo pezzo è di una banalità imbarazzante e forse è scusabile agli occhi dei patosensibili per via dell’aneddotica oncologica: inevitabilmente quando uno scrive sapendo di morire e scrive di questa consapevolezza viene apprezzato comunque, a prescindere da ciò che seguirà nel testo.
    Lo chiedo sottovoce, con pacatezza: basta. Basta, cari scrittori, amati e odiati. Smettetela di riversare il vostro narcisismo sulle ragioni che portano a scrivere e a leggere, come se questi registri tematici fossero la marchetta dovuta, l’omaggio più sentito o il viatico indispensabile all’estasi della letteratura. Ognuno scrive ciò che vuole e ciascuno legge ciò che gli dà piacere. Alcuni romanzi diventano famosi per i motivi più casuali. Poi gli è che le persone hanno le loro insicurezze e così finiscono a leggere ciò che altri dicono loro. Alla fine si creano delle preferenze legittimate che molti assurgono a canone e ci si stupisce che certi libri non siano noti a coloro che dovrebbero averli letti. Da qui l’interrogativo su come si faccia a definirsi lettori senza aver letto Proust, Joyce, Musil, Borges, Hugo, Céline… (aggiungere la propria preferenza sulla base del vicino di pianerottolo o del collega neghittoso che continua scandalosamente a non averla letta). E partono così infinite discussioni sulla letteratura, su ciò che sia alto e ciò che sia basso; si creano conventicole a tutti i livelli, alleanze verso quell’autore o contro quell’altro. Il tutto con la velleità di credere che vi siano criteri migliori di altri, più oggettivi, financo scientifici per legittimare la propria gerarchia di giudizi senza comprendere la natura fatalmente arbitraria dei propri gusti e della letteratura.
    Ironico che Susan Sontag chiosi il suo peana della letteratura usando addirittura Duke Ellington, colui che aveva da tempo superato il complesso dei critici, della catalogazione, delle regole, del canone, di ciò che è “necessario” e ciò che è “dimenticabile”, di alto e basso e bla bla bla. “Esistono solo due tipi di musica” ha sempre smagatamente affermato il Duca a tutti gli insicuri bisognosi dell’animale guida che indicasse loro la Verità dell’arte. “Quella bella e quella brutta”.

  2. E Wilde diceva che non esistono libri morali o immorali: un libro è scritto bene o è scritto male.
    E Bukowski aggiungeva: secondo me la mia merda puzza meglio, tranne quella di un cane.
    Detto ciò, colmi di tanta scienza citatoria, andiamo avanti?

  3. Allora, il gioco delle citazioni, Gianni, può essere compreso solo da Uggia, o da coloro del commentarium che da mesi fanno tana per hommequirit. Prima o poi si stuferà, mi auguro.

  4. @ Lipperini
    Che sorpresa, soltanto due giorni fa ho riaperto L’Uomo che Ride… non per rileggerlo, soltanto per scorrere qua e là qualche riga.
    Gwynplaine però non mi sembra un personaggio straordinario, piuttosto la sua vicenda… e le suggestioni create da Hugo. Poi c’è il discorso alla Camera…

  5. Gentile sig.ra Lipperini, nel corso della trasmissione di Fahrenheit sui libroidi lei ha giustamente avuto un ruolo di moderatrice della discussione e non ha espresso un parere personale in merito. Ma a me una domanda circola in corpo da quando ho ascoltato Raffaele La Capria rivendicare a spada tratta il ruolo della critica letteraria nel decidere cosa sia letteratura e cosa no. Ed è: come la mettiamo con gli ultimi, come la mettiamo, in particolare con le donne? La critica letteraria, che probabilmente va dai monaci medievali ai giornalisti ai professori universitari ecc., ha avuto un ruolo pazzesco nel tenere le donne ai margini della letteratura nei secoli dei secoli. Le storie della letteratura rivendicate da La Capria sono maschili al 99%. Davvero dobbiamo affidarci alla critica per sapere cosa è letteratura e cosa no? Personalmente direi decisamente “No”. Anzi: diffido fortemente della critica, dei suoi scopi prima ancora che dei suoi metodi. Per me è lo strumento conservatore per definizione, e in alcuni casi persino reazionario. Trovo una delle cose più interessanti, in letteratura, il fatto che ci siano scrittori (e scrittrici, anche se ancora in misura molto minore) che diventano classici senza neanche forse averlo mai immaginato, solo perché i lettori, mano dopo mano, si passano i loro libri e i pezzetti di universalità che contengono. E potrei citare, sempre per stare al gioco delle citazioni, da Balzac a Ed Mc Bain. Il primo non è mai stato considerato un letterato, né da vivo né dopo che era morto, lo è diventato con il tempo grazie al successo che le sue opere hanno avuto fra le persone anche comuni. Il secondo, autore squisitamente di genere e non per questo meno straordinario, il pubblico italiano lo ha scoperto nelle edicole, non certo nelle aule d’Università. Rivendicare i ‘confini’ della letteratura oggi, per me significa rinchiuderla nella Torre d’avorio e allontanarla dalla gente comune. Che è poi uno dei motivi della crisi culturale che viviamo, a mio parere. Ma sarei molto interessata a conoscere la sua opinione.

  6. E’ una assai antica questione, Federica. Se cerca negli archivi del blog, troverà discussioni-fiume, tra cui una sulla “letterarietà”, che la affrontano. In parole molto povere, posso solo dirle “dipende”: dipende dai critici, per cominciare, e di quali critici parliamo, e della minore o maggiore apertura intellettuale, e dall’essere o meno disposti a ragionare su testi che non fanno parte della propria visione della letteratura, e così via. Di contro, se ci affidiamo solo ai lettori, dovremmo concludere che E.L.James è un genio delle lettere, e non lo è. In entrambi i casi, bisognerebbe cercare di prescindere, come scriveva Susan Sontag nel post che ho pubblicato ieri, dall’ego, e non è semplice.

  7. @ Federica
    Luciano Berio disse “musica è tutto ciò che si ascolta con l’intenzione di ascoltare musica”. Per la letteratura vale più o meno la stessa cosa. è curioso poi come i meccanismi mentali che si combattono in materia di diritti civili vengano ancora accolti in altri ambiti. Ovvio che ogni critico dovrà circoscrivere un campo d’interesse che unito ad altri formerà un “canone”, ma questo è un altro discorso.
    La letterarietà è come la maternità, liberi di crederci. Blob

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