Sono stata a scuola, questa mattina, a incontrare tre classi (le ultime della scuola secondaria di primo grado) e parlare di libri. Che è cosa che faccio sempre con mille dubbi, perché credo che non ci sia niente di più pericoloso del “dovete leggere”, specie a tredici o quattordici anni. Ma era una gran bella scuola, il Viscontino, dove avevano letto Bradbury e Golding e visto Stand by me, per esempio, e qualcuno aveva già cominciato a scrivere una storia (fantasy, ed è giusto così) e le ragazze non si vergognavano di leggere romance, perché a quell’età i romanzi che allora si chiamavano rosa li abbiamo letti tutte.
Però mi è tornato in mente un vecchio articolo di Susan Sontag sulla scrittura e sulla lettura, e mi chiedo quanto tempo dedichiamo a insegnare a leggere, oltre che a scrivere. Insegnare significa, ovviamente, riuscire a districarsi nel poco tempo che abbiamo per scegliere e un libro e dedicarsi al medesimo. Scriveva Sontag:
“La lettura precede di solito lo scrivere e l’ impulso a scrivere è quasi sempre scatenato dalla lettura. Leggere, l’ amore per la lettura, è quello che ti fa sognare di diventare scrittore. E dopo che lo sei diventato, leggere libri scritti da altri e rileggere i tuoi libri preferiti, rappresenta un’ irresistibile distrazione dallo scrivere. Distrazione. Consolazione. Tormento. E, sì, ispirazione. Naturalmente non tutti gli scrittori lo ammetteranno. Ricordo che una volta parlando con V.S. Naipaul ho fatto accenno ad un romanzo inglese del diciannovesimo secolo che adoravo, e che pensavo lui ammirasse altrettanto, come tutti gli appassionati di letteratura che conoscevo. Invece no, mi disse che non lo aveva letto, e notando un’ ombra di meraviglia sul mio volto aggiunse severo: “Sono uno scrittore, Susan, non un lettore.” Molti scrittori ormai non più giovani sostengono di leggere poco, per svariate ragioni, e di considerare in realtà lettura e scrittura in qualche modo incompatibili. Forse per alcuni è davvero così, non sta a me giudicare. Se dipende dal timore di essere influenzati, mi sembra una preoccupazione inutile, superficiale. Se è per mancanza di tempo – le ore sono quelle e se le passi a leggere, ovviamente non puoi scrivere – allora è un ascetismo cui non aspiro.
Perdersi in un libro, il vecchio detto, non è pigra fantasia, ma un modello di realtà che dà assuefazione. Sono famose le parole di Virginia Woolf in una lettera: “Talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine.” Sicuramente il paradiso sta, ancora con le parole della Woolf, “nella completa eliminazione dell’ ego durante la lettura”. Sfortunatamente non smarriamo mai l’ ego, come non possiamo andare oltre i nostri piedi. Ma quel rapimento incorporeo, leggere, è una sorta di trance sufficiente a farci sentire privi di ego. Come la lettura, quella estatica, scrivere romanzi, abitare altre identità, dà anche la sensazione di perdere se stessi. A tutti oggi piace pensare che scrivere sia solo una forma di amor proprio, definita anche autoespressione. Dato che non siamo più reputati capaci di un altruismo autentico, si presuppone che non sappiamo scrivere se non di noi stessi.
Ma non è vero. William Trevor parla del coraggio dell’ immaginazione non autobiografica. Perché non dovresti scrivere per sfuggire a te stesso, piuttosto che per esprimerti? E’ molto più interessante scrivere di altre persone. Inutile dire, ho prestato una piccola parte di me ad ogni mio personaggio. Quando in In America i miei immigrati polacchi arrivano nel sud della California e, usciti dal villaggio di Anaheim nel 1876, vagabondando nel deserto vengono sopraffatti da una spaventosa, trasformante visione di vuoto, stavo di certo attingendo al mio personale ricordo delle passeggiate fatte da bambina nel deserto dell’ Arizona meridionale, appena fuori quella che allora era una piccola città, Tucson, negli anni ‘ 40. Nella prima stesura di quel capitolo c’ erano i saguaros nel deserto della California meridionale . Alla terza stesura li avevo eliminati a malincuore. ( Ahimè, niente saguaros a ovest del fiume Colorado.)
Ciò che scrivo è diverso da me. Ciò che scrivo infatti è più brillante di me. Perché posso riscriverlo. I miei libri sanno quello che sapevo una volta , in forma irregolare, a intermittenza. E mettere sulla carta le parole migliori non diventa più facile neppure se si scrive da molti anni. Al contrario. Qui sta la grande differenza tra leggere e scrivere. Leggere è una vocazione, un’ arte, nella quale, con l’ esercizio, sei destinato a diventare più abile. Da scrittore accumuli soprattutto incertezze e timori. Tutto questo senso di inadeguatezza da parte dello scrittore – della qui presente, in ogni caso – è basato sulla convinzione che la letteratura conti (contare è sicuramente un eufemismo), che ci siano libri “necessari”, libri cioè che mentre li leggi, sai che rileggerai. Forse anche più di una volta. Esiste forse privilegio più grande di avere una coscienza estesa, riempita dalla letteratura e ad essa orientata? Un libro pieno di saggezza, che sappia far giocare la mente, che dilati la capacità di comprendere e partecipare, che registri fedelmente un mondo reale ( non solo l’ agitazione di una mente singola), al servizio della storia, che difenda emozioni contrarie e ardite… un romanzo che si reputa necessario dovrebbe essere gran parte di queste cose.
Se poi continueranno ad esserci lettori che condividono questa alta concezione di letteratura, beh, “E’ una domanda senza risposta”, come disse Duke Ellington una volta che gli chiesero perché lo si trovasse ancora a fare “matinée” all’ Apollo. Meglio continuare a remare”.