Cose che cambiano. Nel 2010 il re degli agenti letterari, Sua Sciacallità (il soprannome del nostro è The Jackall) Andrew Wylie, chiuse un accordo con Amazon per distribuire in ebook i suoi autori e i loro testi già pubblicati in cartaceo. Non fu una gran mossa, perché di fatto veniva snaturata la figura stessa dell’agente e il suo mandato di porsi come intermediario fra autore e editore: in quel caso, come gli venne rimproverato, Wylie divenne di fatto concorrente degli editori che pubblicavano ebook. L’avventura però durò poco, come ricorda Wylie stesso in questa intervista:
“Ho speso nove mesi a parlare con l’industria editoriale riguardo al fatto che le royalties del digitale dovessero essere più vicine al 50 per cento che al 25. E non ho ottenuto niente.”
Per questo ha lanciato Odissey Editions?
“Era una specie di operazione segreta. Ma Random House ci ha tagliati fuori”.
È rimasto sorpreso?
“Certo, completamente sorpreso. Avrei dovuto prevederlo, ma non l’ho fatto. Avrei potuto finire definitivamente fuori dai giochi. Se un agente letterario non può lavorare con Random House, è difficile lavorare”.
Lei ha chiamato Odissey “un piccolo progetto che fa molto rumore”.
“Ha fatto rumore. Abbiamo realizzato venti libri”.
Quindi, adesso, come agenzia qual è la sua prossima mossa?
“Invece di essere piccoli e confortevoli come un centro massaggi, dobbiamo espanderci all’infinito come una biblioteca borgesiana. Lo scopo è quello di mantenere la stessa qualità di servizi per un numero sempre crescente di autori. Non abbiamo bisogno di diversificare. Per noi e per i nostri clienti è meglio consolidare la leadership che deteniamo nel nostro settore”.
L’esperimento di Wylie, però, rimbalza, con varianti e quattro anni dopo, anche in Italia. Già da qualche settimana Grandi&Associati ha lanciato Indies. In pratica, come si spiega qui:
” Ad alcuni di coloro che ci chiedevano una lettura professionale, una revisione, un editing, una consulenza commerciale o di marketing, un servizio di comunicazione o di ufficio stampa, il digitale, l’ebook, ha offerto una possibilità di servizio in più: l’autopubblicazione assistita da un’agenzia, agenzia competente, crediamo. Del resto un elemento di radicale differenza con un editore sta nel fatto che l’autore non cede a noi i diritti di pubblicazione, né digitali né cartacei, ma li mantiene a sé”.
Però nella collana ci sono alcuni degli autori già rappresentati e pubblicati da Grandi&Associati, come Beppe Tosco, che si è autopubblicato proprio con Indies. E qui ci sono gli altri titoli.
Non solo. Sembra imminente la discesa in campo di un altro agente italiano in un ambito che è molto vicino al self publishing assistito, che è, come si sa, il miraggio anche di diversi editori.
L’autore in cerca di pubblicazione diventa dunque la nuova possibilità di investimento e guadagno o semplicemente di esistenza in vita per i mediatori (si tratti di editori o agenti o agenzie di editing consolidate o improvvisate)? Le risposte soffiano, come sempre, nel vento. Però una delle affermazioni di Wylie andrebbe meditata. Questa:
“Il vero problema è che a partire dagli anni ’80 l’industria editoriale s’è fatta guidare dal reparto vendite. E oggi ogni strategia viene impostata come se si dovessero vendere detersivi. Ma non è così. I libri sono un prodotto particolare. Un po’ come la moda. Sono rivolti a persone che hanno un certo livello di educazione e che leggono. Non ci sono molte persone che leggono. La maggior parte della gente se ne va in giro e litiga e cerca di fare dei soldi. Noi vendiamo libri. È un settore che ha dei limiti naturali. L’editoria non deve essere necessariamente supermarkettizzata”.
Io sto pensiero che i libri non sono detersivi lo sento dire spesso, dalle case editrici. Quando incappo su radio3 nelle interviste alle case editrici (grandi, medie e piccole), salta fuori questo ritornello.
Ma chi dovrebbe risolvere il problema?
Non sono state proprio le case editrici a dotarsi del reparto vendite, a riempirsi di sedicenti espertoni di marketing?
Ho assistito personalmente ai tagli di personale fatti anche in grandi aziende, e a decidere erano proprio quelli del reparto “vendite”, a prescindere dal valore dell’impiegato.
Cosa aspettano che accada? Il lento spegnersi tipo “stelle di neutroni”? Che qualcuno decida per loro? E chi dovrebbere essere questo qualcuno?
Comunque, mentre noi stiamo qui a interrogarci sull’opportunità o meno di lasciare la guida delle case editrici (e delle aziende in generale) agli (autoproclamatisi) esperti di vendite e di marketing, la realtà è già oltre. Adesso, e sempre più sarà così in tempi in cui l’indebitamento diventa un fardello pesante in quanto non bilanciato da ricavi consistenti, la guida passa nelle mani del settore finanza. Marketing e vendite mettevano in piedi strategie bislacche e idiote, che però ancora si capivano; i geni della finanza amano le alchimie, le operazioni societarie, le fusioni, le incorporazioni, gli spin off e tutta una serie di marchingegni che con il fine ultimo dell’azienda, che dovrebbe essere la vendita di un certo prodotto (il libro, nel nostro caso) non hanno assolutamente niente a che vedere. Nell’illusione, spesso, che quello che non viene dal mercato si possa recuperare sui mercati finanziari (la famosa e fumosa “creazione di valore”, manco venisse dall’etere questo valore). E quindi, purtroppo, la mia riflessione è negativa: le cose oggi vanno molto male, e probabilmente andranno peggio. Però è vero che quando un’industria entra in una crisi “esistenziale” di questa gravità, spesso significa semplicemente che non è stata capace di adeguarsi in modo creativo ai cambiamenti del mondo; e di solito c’è qualcuno di molto creativo pronto a recepire quei bisogni latenti che gli incumbent del settore non hanno saputo cogliere. Insomma, potremmo anche assistere alla nascita di un nuovo che non sia necessariamentre à la Bezos, un nuovo che magari ci piacerà. Ma certo, non sarà un parto indolore: ci saranno (e ci sono già) molte vittime innnocenti, sul terreno.
@ Ekerot
Io non capisco quando ti chiedi chi dovrebbe risolvere il problema. Intanto quale problema? L’industria editoriale non è un’opera di bene. Le case editrici non sono uffici di collocamento. Se una casa editrice basa tutto sul marketing bene o male per lei, se non ti piace non comprare i suoi libri, ma ti pare che uno ha una azienda e gli vai a dire cosa e come produrre? Nessuno costringe una casa editrice a fare alcunché, se vuole può investire solo nei libri in cui crede o anche in libri nei quali non crede, ma che possono dare profitti, o solo in questi ultimi. Le case editrici non hanno un obbligo morale verso la collettività che non sia quello di rispettare le regole. E vendere libri come detersivi non viola le regole. Se ci sono scorrettezze sul mercato, sulla concorrenza sleale, sugli oligopoli della distribuzione eccetera è un conto. Ma che una casa editrice debba comportarsi secondo i nostri desideri è assurdo. Poi vorrei sapere il nome di qualche casa editrice che si è riempita di esperti di marketing e cosa ha comportato al suo catalogo.
Sulla (prevedibile) difesa del mercato e delle case editrici che non sono opere di bene da parte del nostro piccolo lettore, Christian Raimo:
http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-libri-vendono-poco-si-e-capito-ma-forse-qualcuno-potrebbe-prendersi-qualche-responsabilita/
è curioso che mi rimandi a un articolo con il quale in larga parte concordo, e che parla di piani di alfabetizzazione coordinati con scuola e università, di biblioteche eccetera, tutte cose che ci piacciono. Non parla di appunto di mercato e di strategie di mercato, di promozione eccetera, cose che se uno vuole può fare, cose che hanno portato nel decennio 2000 un po’ di profitti, ma che ovviamente non potevano portare lettori, perché il punto di partenza è che i lettori non si creano dall’alto. Scrive contro Ferrari e il suo piagnisteo, cosa che in piccolo ( piccolo alla meno due, e poi sono solo tuo ) posso aver fatto anch’io. A proposito: ho letto tutti i libri di Raimo, l’ho incontrato alla sede di Minimum Fax e mi ha pure regalato un paio di libri. Io non difendo il mercato, non è colpa mia se ci sono squilibri e i pesci grossi e quelli piccoli. Se una casa editrice fa schifo penso che debba fallire, punto, non le vado a suggerire di fare meglio, perché non me frega nulla. Se c’è la possibilità di far crescere il numero dei lettori e degli appassionati di letteratura, e penso ci sia, si lavori in questo senso. Senza farlo diventare un imperativo però, a proposito di istituti tecnici, la loro bellezza non sta nel fatto che creano lavoro, cosa buona, sta nel metodo, nella scienza, che non esclude le parole. parole e formule, dunque, tutto e di più, per rimanere in tema wallaciano. Non tutte le persone amano le parole. Dal momento che per la realizzazione di questo proposito le case editrici e il mercato non c’entrano nulla ( non capisco perché parlarne come degli agenti colpevoli ( e allo stesso tempo da salvare ). al di là di specifiche responsabilità su specifiche scorrettezze, regole sul lavoro e concorrenza sleale. Una persone alla quale sono stati forniti gli strumenti fondamentali si appassionerà o meno alla lettura e sceglierà i libri che vuole.
Piccolo lettore x, va bene leggere poco, ma bisogna leggere bene. Leggi il mio primo periodo.
Non è Ekerot che si lamenta, sono le case editrici. E se si lamentano, evidentemente c’è un problema, o anche loro sono affette dal lamentismo italico?
@ Ekerot
ho letto male. Per il resto non so se è lamentismo italiano, non posso parlare per ogni singola casa editrice. Però che uno si metta a dire che i libri non sono detersivi mi fa sbadigliare e mi fa pensare male. Vendi ciò che vuoi vendere e come lo vuoi vendere e non rompere le palle. Parlami dei tuoi libri e non di quelli degli altri.
Vecchia regoletta: prima si legge, poi si commenta. Ammesso che ripeterti le stesse identiche cose per anni abbia un senso. Quanto a Raimo: contesta proprio la negazione di ogni funzione “educativa” delle case editrici (ma che parlo a fare, poi?) 😀
“Scrivevo che l’unico modo per invertire la tendenza catastrofica era pensare un piano di alfabetizzazione culturale coordinato con la scuola e l’università, e non iniziative rivolte essenzialmente al mercato come le promozioni e le feste del libro. Scrivevo che la Nielsen fa ricerche di mercato e censisce soprattutto quello che la gente compra, non quello che la gente fa: ossia non ci dicono molto sulla lettura che non riguardi l’acquisto di libri o di e-book, non ci parlano per esempio le abitudini della lettura on-line. Scrivevo che Gian Arturo Ferrari se ne doveva andare, per manifesta incapacità a gestire questo ruolo.”
“da almeno una decina d’anni, da quando con vari scrittori, editori ci siamo resi conto che la crisi economica stava investendo in modo calamitoso il settore culturale e editoriale, abbiamo pensato di rimboccarci le maniche e svolgere un ruolo di supplenza a una politica inane. Per questo sono nate realtà come Tq, i Mulini a Vento, Monteverdelegge, la Tribù del Lettori, i Piccoli Maestri, il Forum del Libro, o decine di associazioni, di piccoli festival indipendenti, di gruppi di lettura”
“Nel peggiore, come nel caso di Riccardo Cavallero, capo di Mondadori Trade, con una tronfia indifferenza si è detto che gli editori non hanno il compito di educare, hanno il compito di vendere.”
“Chi in questi anni – invece di piangere nel ricordo di un’età dell’oro (sì, ci ricordiamo anche di un pessimo articolo di Ferrari sul Corriere che parlava della Fiera di Francoforte, sputando sentenze sulla crisi editoriale italiana) o pensare come succhiare le ultime gocce di un mercato esausto – si è formato, studiando i progetti italiani o internazionali che sono riusciti a riconquistare lettori, chi ha letto per esempio i libri di Antonella Agnoli o ha guardato come funziona l’esperienza londinese di Sergio Dogliani, chi ha speso materialmente una parte importante del proprio tempo andando gratuitamente nelle scuole di periferia, nelle biblioteche sperdute di provincia, chi ha creato con pochissime forze e zero fondi degli osservatori sul libro più attivi del Cepell (il Tropico del Libro, il Forum del Libro, Librinnovando…); ora ha almeno la piccola fortuna di avere una speranza.”
Beh, se vuoi ridurre tutto quello che dice Raimo alla sua reazione alle parole di Mondadori Trade, che legittimamente ha la sua idea di editoria, e non si capisce perché invitarla a certe iniziative, d’accordo. Io ci leggo molte altre cose, con le quali concordo ( non con tutte ), come concordo con molte cose che dici. Non capisco invece perché pensi che commento prima di leggere, cosa che non ho mai fatto. Ho visto il tuo link, ho letto il pezzo e ho commentato. Perché presumi che commento senza leggere? Se le case editrici vogliono partecipare al processo di educazione, bene, se non vogliono pazienza. La loro assenza in ogni caso non impedisce la riuscita del processo, e non si capisce in ragione di cosa contestarli, dal momento che hanno tutto l’interesse a essere dominanti, e con ragione. Un editore che pubblica certi libri avrà tutto l’interesse a far sì che nascano nuovi lettori appassionati, ma infatti nessuno lo ha impedito in questi anni. Dire che le case editrici non hanno obblighi non implica che non possano, se vogliono, provare a “educare”. Ma non lo si può pretendere e non gli si può imputare nulla. La cosa che non mi piace del testo di Raimo è l’idea di fondo che mette assieme tutto, che parte dal presupposto che sia un problema che i libri si vendano poco. Non si può allo stesso tempo impegnarsi per diffondere una certa idea di letteratura e parlare di crisi di settore, perché non tutti i libri sono uguali, e se certi libri che si considerano brutti o dannosi, tipo quelli per bambini che diffondono certi stereotipi, è cosa buona e giusta che non vendano, da questa prospettiva. Il punto è smettere di pensare al mercato e pensare unicamente ai lettori.
Non so ma mi pare, lasciando per un attimo da parte le case editrici, di vivere in un momento in cui la velocità dei rapporti interpersonali stimolati dalle moderne tecnologie, non favorisca (tra le altre cause) l’approccio ad una lettura più calma e approfondita come quella del libro.
Bisogna mettersi in coda – lunga: http://www.wired.com/wired/archive/12.10/tail.html