VERRANNO A CHIEDERCI DI BERLUSCONI

Molti anni fa, credo una quindicina, scoppiò il caso Daniele Luttazzi, o per meglio dire il non caso: qui un riassunto. Non è questo che mi interessa stamattina, è la violentissima reazione che scoppiò nei suoi confronti. Al tempo, su questo blog, Wu Ming 2 scrisse un commento che mi è tornato in mente oggi (l’inferno è una buona memoria, eccetera). L’ho ritrovato. era questo:
“Quanto peso ha, nella reazione contro Luttazzi, l’investimento morboso che nell’Italia berlusconiana si fa su certe figure salvifiche? Non sarà
che parte del problema sta anche in questo?”
Ecco, l’Italia berlusconiana. A due anni meno un giorno dalla sua morte, mi chiedo quanto si discuta ancora di quanto siamo cambiati nei lunghi anni in cui fu presidente del Consiglio e in cui comunque ha avuto un ruolo chiave nella politica italiana. Quanto lo ricordiamo? Quanto discutiamo degli effetti che ha avuto?  Secondo me poco, e questo è  il suo maggior successo.
Diciassette anni fa, Alessandro Oppes intervista Javier Marías per Repubblica. E Javier Marías definisce così l’Italia: “Un paese cupo, antipatico, di cattivo umore, che ha perso il senso della solidarietà, e dove persino, l´espressione può sembrare un po´ forte, emerge qualche sintomo di razzismo”. E aggiunge:
“in Italia è stata ormai chiaramente abbattuta la frontiera tra ciò che si può dire o non dire in pubblico. Il linguaggio da bar, quello che io preferisco chiamare “linguaggio da caverna”, si è trasferito alla politica. È una forma superiore di demagogia, perché non si tratta solo di dire alla gente ciò che vuole sentire: il fatto che i politici adottino in pubblico il linguaggio crudo e brutale che dovrebbe essere confinato nel privato, gli dà legittimità. E ricompare nella bocca dei cittadini, ma con una veemenza molto superiore. Il pericolo è innegabile, perché può sempre accadere che ciò che si è detto si decida di metterlo in pratica, che si passi dalle parole ai fatti”.
Quando Berlusconi morì, provai ad analizzare gli effetti di anni e anni di berlusconismo sulla letteratura. Ovvero: la mutazione del linguaggio dopo le televisioni commerciali, e dopo il tentativo di abbattere letterariamente l’antagonista, lui, attraverso i romanzi, e infine il ritrarsi in se stessi e nelle vite personali, perché quel che c’è là fuori è irredimibile. Il tutto, ovvio, con le dovute eccezioni.
Questa riflessione venne per paradosso scambiata per elogio, mentre è la conseguenza più spaventosa che si possa immaginare: essere cambiati, chi scrive, chi legge, chi vive in questo paese, senza rendercene conto. Adottare un pensiero binario (o si insulta o si celebra). Svuotare le parole di significato. Non comprendere i testi. Rifiutare il dialogo in favore dell’aggressività.
Il peggiore degli scenari possibili, ed è vero, tangibile, ed è oggi.
Non mi interessa rievocare il passato: dimenticare mai, usare il passato per un paio di meme, però, è inutile. Mi interessa capire cosa fare di quei semi che sono stati piantati in un paese a partire dagli anni Ottanta, come sono germogliati, quali veleni possono soffiare ancora sul presente e sul futuro. Non solo in letteratura: la letteratura raccoglie lo spirito del tempo, non lo determina. E lo ha fatto, lo fa.
Mi interessa capire come contrastarli, con quali altri racconti, con quali altre parole.
Chiacchierando un tempo con Andrea Camilleri disse che il problema non era il Cavaliere, ma il cavallo. Ovvero noi, che gli abbiamo permesso di salirci in groppa e ci siamo abituati al peso. Non so se la frase fosse sua, ma è vera.
E’ questo il punto su cui chi prende parola pubblica, dunque tutti e tutte ai giorni nostri, deve concentrarsi. Il resto è un soffio. E, come diceva Marìas in quell’intervista, “il caso dell´Italia è ancor più plateale, perché tutto sta avvenendo in modo più gridato, più scoperto. Quello che temo di più è che tutte queste cose possano essere contagiose, che possano contagiare altri paesi. Si sa, l´imbecille ha successo nel mondo. Le idee più stupide trionfano”.
Per esempio. Pensiamo ai discorsi sulle donne. L’inferno è una buona memoria, ma gli archivi di questo blog sono ancora meglio.  Allora era normale che delle femministe si scrivesse così:

“Ma io non ne posso più delle brutte che difendono le belle, delle devastate in amore che mettono in guardia le donne corteggiate cercando di impedire a loro di provare a vivere un sentimento, di lesbiche represse”
Ottavio Cappellani (Affari Italiani)

O così:

“Ciò che il pensiero femminista più arcaico finge colpevolmente di non capire, è che in una società libera di cittadine e di cittadini maggiorenni nessuno può imporre a nessun altro un comportamento, un’ideologia, uno stile di vita. (Fabrizio Rondolino, Viva la gnocca)

E il bello è che oggi è ancora più normale, anche se c’è maggiore rivolta quando lo si fa. Ma la narrazione di Berlusconi era quella.  Qui le belle tuse, di là il settore menopausa. O anche, qui la libertà sessuale, l’allegria, la felicità, di là le bigotte, le noiose, le moraliste. Questo è il frame, e in questo frame, ahimé, siamo caduti.

Se abbiamo pensato di esserne immuni, o di aver superato quella fase, abbiamo commesso un errore mortale. Chi è nato all’epoca del primo governo Berlusconi ha oggi superato i trent’anni ed è vissuto immerso in quella palude: certo che se ne può uscire, ma se ne esce solo ricordando, analizzando, chiedendoci cosa possiamo fare.

A volte, guarda un po’, persino chiedendo scusa per quello che non abbiamo fatto, faccenda che non mi sembra molto di moda nella politica.

Un pensiero su “VERRANNO A CHIEDERCI DI BERLUSCONI

  1. Quando a Giorgio Gaber gli chiesero cosa pensasse di Berlusconi, saggiamente rispose: “non mi preoccupa Berlusconi in sé, mi preoccupa il Berlusconi in me.” Sempre grazie Loredana Lipperini per questo blog, rara oasi di verità. Giuliano

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