I REFERENDUM, LA GRANDE CAUSA, LANGER E LA NOIA DEI DISCORSI POLITICI

E’ la primavera del 1990: Alex Langer scrive una lettera a San Cristoforo, di cui, bambino, ammirava le statue nelle chiesette di montagna. Gli dice che lo capisce, che comprende il suo sentirsi sprecato dopo aver prestato la sua forza ai signori più illustri, e ammira il suo “sentirsi assetato” di una Grande Causa. Quella Grande Causa gli sarebbe apparsa nelle sembianze di un bambinetto da traghettare dall’altra parte del fiume, ponendolo davanti al più difficile cimento della sua vita.
Trent’anni fa, Langer individuò in uno stile di vita diverso la nostra Grande Causa: con il rovesciamento, scrisse in quella lettera, del motto dei giochi olimpici, citius, altius, fortius, più veloci, più alti, più forti. Fermare la corsa, spiegare che la competizione è truccata, anzi autodistruttiva, “il passaggio da una civiltà del “di più” a una del “può bastare” o del “forse è già troppo”: questo era il compito, e lo è ancora.
Vari lustri dopo, siamo qui a constatare la verità di quelle parole e a non riuscire non dico ad attraversare il fiume, ma a vederlo.
Ciò di cui sentiamo parlare sono le persone, non le Grandi Cause, e nemmeno il minimo sindacale costituito dai programmi: non ce ne lamentiamo, ma anzi siamo i primi a prestarci al gioco della personalizzazione. Vale anche per la sinistra: anche quando i programmi, ora detti agende, esistono, seguiamo rotture e possibili alleanze più che interessarci alla prospettiva. In pratica, siamo già disposti su due file, tre al massimo, pronti a fronteggiarsi sui nomi, la prossemica, il vocabolario dell’uno o dell’altra. Invece, dovremmo esser qui a ragionare su scuola, università, diritti civili, lavoro. Su un programma.
Bene, il fallimento dei referendum ci riporta ancora al punto, e il punto è doloroso quanto noto da molto, molto tempo: non abbiamo una classe politica degna di questo nome. Perché io due cosette sui referendum, da antica militante radicale, avrei da dirle, avrei da dire su come siano stati visti per anni come una spina nel fianco che solo un gruppetto di esagitati che, a parere dei partiti, della politica non aveva il senso, usava e rivendicava come strumento di democrazia diretta. Certo che erano altri anni. Certo che non c’era stata la lunga palude berlusconiana e tutte le mutazioni antropologiche che ne sono seguite. Ma resta il fatto che quella classe politica non c’è. Non al momento.
Ehi tu, e gli intellettuali? Beh, alcuni ci sono, e intervengono e fanno quello che possono: parlano pure con le persone, se qualcuno non ci crede, e la sottoscritta, nel suo ostinato orgoglio pietralatese, vede anche come funzionano le cose nelle periferie. Le persone, molto spesso e non sempre, vogliono dai politici – i consiglieri di municipio per dire – cose come: falciate l’erba, cacciate gli immigrati perché sono pericolosi, gli zingari bruciano plastica e c’è puzza, non si dorme perché c’è la movida.
Non è disprezzo. Non è sottovalutazione. In mezzo a questo tipo di lamentele o rivendicazioni fioriscono cose belle, e solidarietà e iniziative comuni e persone che si fanno carico di ripulire un parco e renderlo un punto di riferimento, per esempio, o che si organizzano per raccogliere e donare abiti per bambini, e altro ancora.
Ma c’è una percezione diffusa, specie fra chi ha superato i cinquant’anni, di un pericolo che minaccia le proprie vite, che come tutte le vite sono fragili e intrise di solitudine e dolore, ma anche di serenità, di desiderio di cose piccole. Quella percezione è stata alimentata senza che si riuscisse a opporvi una prospettiva diversa, al di là dei dannati e gelidi slogan. Se posso, i discorsi politici dai palchi nella grandissima parte sono noiosi, freddi, ripetitivi, svuotati di emozione e, fatemi usare ancora una volta il termine, incanto. Salvo eccezioni, va da sè, e sempre. Ma mi dà da pensare il fatto che le giovani persone si stupiscono e affascinano guardando La grande ambizione e ascoltando le parole, cinematografiche ma vere, di Berlinguer. E che si chiedano anche perché nessuno parla così, oggi. Come Berlinguer, sì, ma anche come Langer, come Pannella, come tutti coloro che nel passato hanno cercato l’emozione, hanno parlato di emozioni, hanno parlato di mani che si stringono.
Io continuo a pensare che se non si trovano altre parole non si realizzano altri fatti, e non si abbatte nessun muro, e non si convince nessuno che i pericoli sono altri, e che riguardano non solo i benestanti che “si permettono di pensare ai diritti”, ma tutti.
La competizione, ieri come oggi, è truccata e non si può cambiare. Bisogna trovare altro. Altre Grandi Cause. Altre parole. Altre strade. Altri incanti.
E’ banale ripeterlo, ma non c’è molto altro da fare, al momento.

 

 

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