Capita di pensare, soprattutto in queste settimane, che il nostro tempo sia fatto di rabbia e protervia. La rissa sul referendum, il risentimento di chi non vuole essere contraddetto (il piccolo esempio avvenuto ieri su Facebook, vecchie notizie postate come attuali e il sentirsi offesi “dai giornalisti presuntuosi” da parte di chi difendeva la propria scelta “perché sì”, i condomini arroganti che ghignando ti dicono “la minoranza deve tacere”, cose così, di tutti i giorni), la rabbia. Invece no. Veniamo rappresentati così e ci adeguiamo a quella rappresentazione. Siamo, per fortuna, altro. Valgano le storie dei borghi, come quelle raccolte da Marina Marini, qui sotto. Altre storie sono raccontate da @inpuntadisella su Giap.
Rita arriva a farsi la permanente un paio di volte all’anno: una volta quando sta per partire per Macchie, d’estate, ed un’altra quando torna a Tuscania per l’inverno. Ha più di 80 anni ed i capelli interamente bianchi. Stavolta non le domandiamo, come al solito, come è andata la vacanza e non le diamo il bentornata, ma le chiediamo come sta, come sta la sua casa. Rita racconta del suo terremoto, della paura provata e di come il marito, avanti negli anni pure lui, dopo le scosse non riuscisse a trovare la forza per acciuffare qualche indumento e scappare fuori, mettersi in salvo sulla strada, lontano da quella casetta che era stata di suo padre e che lui aveva restaurato con amore, spendendoci un sacco di soldi, nel corso degli anni, per mantenere salde le sue radici e non abbandonare completamente il suo paese nativo. Le dico che ho visto le foto di Macchie su Facebook, che altri che possiedono la casa lì sono andati ed hanno fotografato il posto: allora non ce la fa più, piange e mi chiede se ho visto la sua, la prima a sinistra dopo l’arco. Dice che ancora nessuno è andato a controllare, a quantificare i danni ed è desolata perché non sa se riuscirà a vedere la ricostruzione, la rinascita di quel piccolo, microscopico paese pieno dei suoi ricordi. E certo, aver già vissuto un altro terremoto nel paese dove è venuta a vivere con la famiglia ed aver assistito già ad una ricostruzione non aiuta.
Pasqualina ha 96 anni e quando c’è stato il terremoto a Tuscania, il 6 febbraio 1971, lei che veniva da Macchie e suo marito da Castel Sant’Angelo sul Nera, erano appena andati a vivere nell’abitazione nuova che aveva retto benissimo alle scosse. Avevano aperto la casa ai parenti meno fortunati, quelli rimasti senza un tetto sulla testa, e li avevano ospitati finché la ricostruzione non aveva fatto il suo corso. Anche Pasqualina aveva restaurato la sua casa al paese e, quella, era diventata la casa delle vacanze di suo figlio e della nuora, dei suoi nipoti e dei loro amici. Un’occasione in più per rivedersi con i suoi parenti. Suo fratello restava più a lungo di tutti a Macchie, scendendo al piano solo ad inverno inoltrato, a volte già con la neve. Aveva le chiavi di molte abitazioni perché Macchie, come molti altri paesini della zona, si popola solo d’estate, ma le case e le tubature vanno controllate, specialmente quando gela. Adesso che il terremoto ha devastato quel paesetto da presepio, e non c’è più un posto dove andare, Pasqualina aspetta suo fratello a Tuscania, vuole ospitarlo e lui dice che sì, verrà giù a vivere con lei questi ultimi anni di vita. Poi ci ripensa e va, con altri tre o quattro compaesani superstiti in un albergo messo a disposizione per i terremotati, perché a 87 anni non puoi pensare di sradicarti per sempre dai tuoi luoghi e, forse, stare insieme ad un pugno di gente che sei abituato a vedere ogni mattina ti rende la vita meno amara.
Annamaria è più piccola di me di pochi anni, siamo state sempre vicine di casa. Come tutti gli altri bambini terremotati, anche noi abbiamo conosciuto la paura che ti si annida dentro come un ragno e non ti fa dormire, l’angoscia per la tua casa distrutta e la tua vita devastata. Abbiamo conosciuto la vita in tenda e nelle baracche di legno, sballottate da una casa di parenti ad una di amici. Atteso che qualcuno ci ridasse la nostra abitazione, il nostro paese e la nostra vita di prima del terremoto. Anche i suoi genitori venivano dalle Marche, la mamma a servizio dai signori per sfuggire ad una povertà che obbligava la madre a riscaldare mattoni nell’unica stufa di casa per metterli nei lettini dei figli più piccoli, per non farli morire di freddo e il padre, come tanti altri, qui, arrivato operaio- pastore con la transumanza e rimasto in cerca di un destino migliore. Le radici, però, sono radici e così Annamaria, abituata ad andare a Macchie dai nonni, si compera una vecchia fienilessa e la trasforma in una graziosissima casetta piena di mobili della nonna e di altre cose vecchiotte che ha trovato gironzolando per i mercatini della zona. Mentre si taglia i capelli mi confessa che mai avrebbe immaginato di dover affrontare un’altra ricostruzione! Confessa di non avere ancora osato andare a vedere… sua figlia, intanto, posta foto su foto della sua vita a Macchie nel suo profilo facebook. Eccola piccolissima e ridente insieme ai vicini, davanti all’unica chiesola del paesuccio, sulla neve con il babbo e poi più grande davanti ai giardinetti voluti e realizzati dai paesani stessi. Le ultime foto la mostrano con i suoi due figli e il marito per le stradine di Macchie, felici e spensierati, prima che tutto ciò diventasse solo un ricordo…