Leggi, e che altro puoi fare del resto?, le parole di chi vive nei luoghi del terremoto. Ieri, in una delle tante condivisioni all’articolo di @inpuntadisella su Giap, ho letto per esempio un commento di Silvia, di Ussita: “Non ce ne siamo andati, ci hanno mandato via”. E’ vero. E’ vera anche un’altra cosa: i luoghi di cui parliamo non sono soltanto delle persone che ci vivono, che li hanno scelti e che vogliono rimanerci (non solo per ragioni economiche, come qualcuno diceva). Ma a tutti. Lo spiega molto bene Tullio Bugari nell’intervento che mi ha inviato (e voi continuate: usate la mail che trovate nei contatti, loredana.lipperini@gmail.com, il blog resta a vostra disposizione. Riprenderà però l’aggiornamento lunedì, domani sono a Palermo per l’assegnazione del Premio Mondello. Buona fine settimana).
Sibillini
di Tullio Bugari
I Sibillini sono il nostro cuore, sono come un ventre. Lo è già la valle dei laghi di Pilato, lo percepisci subito mentre sali e ti avvicini, da qualunque parte arrivi, risalendo da Foce di Montemonaco per entrare nella valle un passo alla volta, mentre alle tue spalle sullo sfondo si alza e ti guarda la Sibilla – se ti giri a guardarla anche tu, da qui vedi ancora più evidente la bruttura di quel taglio a zig e zag della strada che la risale sino in cresta, più graffiata che aperta, mi pare nel dopoguerra.
Oppure arrivando dal suo fianco ovest, da Forca Viola appena dietro e appena sopra Castelluccio. Da qui è il Pian grande che si allarga alle tue spalle. O arrivando da Forca di Presta, passando per il Vettoretto, il primo luogo dove i geologi hanno trovato già in agosto la ferita aperta della faglia in superficie. Salendo da questo lato, alle spalle hai i monti della Laga e l’Abruzzo di Amatrice, dall’altra parte della valle del Tronto; qui sotto, vicini, ci sono Montegallo e Arquata. Salendo incroci il sentiero dei mietitori, che i contadini con la falce a spalla percorrevano, salendo da Montegallo e diretti verso Castelluccio e poi giù, a Norcia e in Umbria. Falciavano tornando verso casa, approfittando dei diversi periodi in cui il grano matura alle diverse altezze. Alcuni invece si avventuravano fino alle campagne laziali, sempre a piedi, dormendo di notte all’aperto, negli angoli dei paesi, tornando a casa a fine estate.
Questo agosto mi ero messo in cerca di storie, la prima tappa da alcuni amici che vivono fuori Montemonaco, sulle pendici della Sibilla, che subito mi hanno messo su delle buone tracce. La seconda tappa volevo farla ripercorrendo il sentiero dei mietitori, in senso inverso, da Forca d Presta, sarei andato su a dormire per essere pronto alla prima luce del sole, ma poi degli imprevisti a casa mi hanno fatto rinviare al giorno dopo. Ma era la sera del 23 e il giorno dopo qui era già diventata un’altra storia. O forse le storie sono sempre le stesse, è il nostro sguardo che è diventato altro e ci aiuta a scoprirne i lati più nascosti.
Se sali su dritto verso il monte, invece, e scavalchi la Sella delle Ciaule, dopo puoi scendere ai laghi di Pilato dall’alto, cogliendoli alle spalle. Le Ciaule sono il punto dove i due bracci dell’anfiteatro dei Sibillini si chiude, come un ventre che da qui guardi dall’alto. Se si vuole, anziché scendere subito, si può prendere il braccio a ovest e risalire la cresta del Redentore.
La prima volta che ci salii, mi sembrò di osservare il Pian grande, mille metri più in basso, come dall’aereo, mi sentivo un’aviatore. La fenditura che da dentro ha tagliato il monte ed è emersa a fine ottobre, scorre proprio qui sotto, parallela alla cresta, visibile da Castelluccio.
Qui cammini sospeso nel cielo tra le due valli, sul lato a est, scorgi cinquecento metri più in basso, come una seconda vertigine, i laghi di Pilato, al riparo di quello sperone lanciato in avanti come un muso che è il Pizzo Diavolo. C’è anche la magia dei nomi ad accompagnarti, sospeso sul bordo di un ventre, tra cielo e terra, reale e immaginario.
Non sono tra i più assidui frequentatori di questi loghi, e non abito qui, ma ogni volta che ci sono venuto mi sono sentito bene, in un mondo che poteva offrirmi anche una dimensione più profonda. E non solo qui nella valle dei laghi, ma ovunque perché i Sibillini nonostante l’immagine del ventre non hanno un centro, sembrano piuttosto come una spirale che si apre e in ciascuna delle sue valli ritrovi altri centri, altre vie, altre storie.
Una volta, passeggiando sui piani di Ragnolo, nel punto più opposto alle Ciaule, verso nord, mi sembrò di vederlo davanti a me un ventre mimetizzato e come adagiato nello slargo del paesaggio che avevo di fronte, lo fotografai con emozione.
Altri angoli li ho cercati e trovati andando a scovare i sentieri meno frequentati o addirittura abbandonati. Risalendo ad esempio la valle dell’Ambro, a cui si può accedere dal basso attraverso un sentiero suggestivo intagliato sulle Balze Rosse, uno strapiombo che ricorda alcune scene dell’Ultimo dei mohicani. Poi la valle si fa più dolce e puoi risalirla attraversando faggi con il tronco più grande dei Sibillini, fino alle sorgenti dell’Ambro, un vero e proprio piccolo fiume che sgorga da un grande cunicolo nero sul lato nord della Priora. Se risali ancora arrivi alla cresta e alla sella tra il Monte Acuto e il Fargno a nord e il Pizzo Berro a Sud. Come alzi la testa per lanciare lo sguardo oltre la sella, ti inonda la visione del Monte Bove, maestoso con le sue rocce. Una volta sono riuscito a fotografare un’aquila, alta su quel cielo.
Dal Fargno si può scendere a est verso Bolognola e poi scendere ad Acquacanina e a Fiastra con il suo lago, seppure artificiale ma già acquisito al paesaggio. Sono sceso da qui più volte e lungo più direzioni, anche in bicicletta e allargando il giro verso ovest, passando alti sopra Ussita prima di girare a nord e attraversare i piani di Macereto.
Da questa sella si può prendere anche la direzione opposta e salire sul Berro, un piccolo cucuzzolo a punta dove c’è posto per poche persone, ma ti fa trovare al centro di più valli, al centro della spirale, di fronte sta larga la Sibilla, a sinistra la Priora, a destra il Bove e più giù le altre vette. Sotto scorgi, di nuovo una vertigine, la valle del Tenna, anche questa una volta l’ho discesa in bicicletta, entrando da ovest, dal Passo Cattivo, sopra Ussita e Frontignano, e poi scendendo giù fino alla gola dell’Infernaccio, forse il luogo più suggestivo di tutti, dove la Sibilla e la Priora arrivano a toccarsi e tu se allarghi le braccia le puoi toccare contemporaneamente. Chissà come è ora quel cunicolo tra i nostri mondi, dicono che ci siano state frane, il terremoto qui dev’essersi come ingolfato.
Dal Berro una volta presi a piedi il sentiero che sale alla Priora e poi da qui, anziché tornare indietro, continuai a scendere dalla parte opposta, proseguendo a vista perché sulla mia mappa, ma me ne accorsi dopo, c’era un errore sull’esatta localizzazione del sentiero. Ad un certo punto mi persi tra l’erba alta, dove la cresta che avevo scelto come riferimento si diluiva in un dolce avvallamento e la montagna dietro a me era diventata un anfiteatro a cielo aperto. Poco più avanti incontrai un pastore, settantenne o anche più. Piccolo di statura, come se il nostro fisico ad una certa età decidesse di concentrarsi su ciò che abbiamo di essenziale. Era gentile e curioso, mi indicò lui la strada, “Vai dritto là e attraversa il gregge”. Lui osservava il suo gregge da lontano, con il binocolo. “E i cani?”. “Tranquillo, ti dicono loro quando devi girare attorno!”
Prima di partire chiacchierammo. Scoprii di essere la prima persona che vedeva passare di lì nelle ultime tre settimane. Incredibile, con tutto quel paesaggio attorno e i paesi appena là sotto da tutte le parti. Mi chiese da dove venivo e se si vedeva anche il mio paese. “Jesi” risposi, aggiungendo “Forse si intravede ma è più lontano.” “Io ci sono stato a Jesi, avevo venti anni, durante la guerra, ero un aviatore, all’aereoporto!” Lo diceva come se mi avesse atteso lì da chissà quanto tempo. Lo salutai e ripresi la mia discesa, inoltrandomi giù verso il folto del bosco e della gola, diverse ore ancora prima di sbucare all’eremo di San Leonardo e poi scendere ancora fino alla Gola dell’Infernaccio, e toccare con un solo abbraccio quei due mondi.
L’aeroporto di Jesi, che dopo la guerra è stato smantellato! Ricordo però da bambino quando ci entravo dentro, perché la mia casa di campagna era nei paraggi, e la nostra montagna per giocare era formata dai resti delle postazioni della contraerea, oramai un cumulo di terra ricoperto d’erba, largo una dozzina di metri e alto tre o quattro, i metri mancanti ce li mettevano noi con l’immaginazione. Che ancora vola, come ho immaginato che fosse volato via lui quel giorno, una volta chiuso l’aeroporto, ultimo aviatore, verso i suoi monti, dove poi l’ho incontrato, come se aspettasse di vedermi passare.
Ecco, quando penso ai Sibillini penso sempre a tantissime cose, molte di più di quelle che qui ho riferito dilungandomi un poco, ma al centro restano sempre sovrapposte l’immagine di quel paesaggio sui piani di Ragnolo, e più in qua quel pastore incontrato vagabondando per caso in un giorno più adulto degli altri.