30. STORIE DAI BORGHI: UNA CRITICA E UNA CONTROCRITICA

Sono rimasta colpita da uno scambio di tweet avvenuto ieri: mi scrive Antonella Morgillo da Bologna, rimproverandomi per il racconto “al negativo” del dopo-terremoto. Mi scrive, in dettaglio: “Capisco il tuo ammirevole diritto di cronaca sul terremoto,ma leggo quasi sempre storie di malfunzionamenti e di disservizi. Quasi sempre la gente è meravigliosa contro uno stato (in questo caso il dipartimento di protezione civile  nazionale) casinista e impreparato. È molto ingiusto tutto questo.È una situazione complessa e delicata, e lo “stato” nella veste delle donne e uomini che da agosto stanno lavorando li sul territorio impegnati a riportare una normalità perduta. Lo stato, dicevo, non è solo cattivo. Sembra che nulla sia stato fatto, ma forse sono di parte perché operatore”.
Non so se la sensazione ricevuta da quasi due mesi di cronache sia questa, ma provo a ricapitolare. Che donne e uomini lavorino senza sosta da agosto è non solo indubbio, ma ammirevole. Che la generosità di operatori, volontari e no, sia un segno della forza delle persone che credono in una comunità è altrettanto ammirevole e indubbio e scalda il cuore. C’è un ma. Che riguarda non certo i singoli, che vanno solo abbracciati e ringraziati, ma il progetto. E il progetto può e deve essere sottoposto a critiche: soprattutto se non ci sono risposte, soprattutto se si prospettano soluzioni non accettabili, soprattutto se si chiede, come è stato fatto, di demolire le casette di legno acquistate privatamente e collocate su terreni privati, soprattutto se si è preferita la soluzione della deportazione in costa invece di tentare, come è stato fatto dalla stessa protezione civile nel sisma di vent’anni fa, di tener salda la comunità. Ci sono storie bellissime e dal basso, che sono state narrate qui. Allo stesso modo, mi auguro di poterne raccontare altrettante su una ricostruzione ancora lontana.
Sperando che il dubbio sia chiarito, lascio la parola, per chiarire ancora, a una delle tante storie, magnificamente raccontate, che si trovano puntualmente su Cronache mesopotamiche (seguite la pagina, sì).

MATERIA GRIGIA
Ci sono circa 17000 persone “assistite” solo nelle Marche; tale numero non comprende quelli che si sono arrangiati; coloro che “hanno trovato autonoma sistemazione presso parenti e amici”, come dicono i giornalisti. Come se non fosse necessario assistere un “parente o amico” che ha perso la casa.
Tutte le storie dell’entroterra cominciano una sera di fine ottobre, il 26, alle 19 circa. L’ora del rientro per quasi tutti. Chi era dentro casa, scappa fuori. Alcuni poi però rientrano. Si cena. Le 21, qualcuno ancora a tavola, altri a lavare i piatti o davanti al pc. Tutto si muove, di nuovo, più forte. Stavolta si fugge veloci coi calcinacci fra i capelli, la polvere grigia che entra nel naso, nei pori della pelle. Si scappa in ciabatte, in pigiama. E spesso non si ritorna più. Si dorme in macchina, nei palazzetti; chi può, va in vacanza, anche solo per pochi giorni, basta andare lontano. La scossa del 30, quella delle 7:40, fa crollare case vuote. Un terremoto a intensità crescente che non uccide nessuno, ma fa morire le case e le cose.
(Tutti noi abbiamo per giorni tenuto in macchina un borsone con l’essenziale che il buonsenso dettava, coperta maglione documenti soldi caricatore. Tutti abbiamo pensato che quell’essenziale non era niente rispetto a cose come gli asciugamani di nonna o al libro preferito).
Il dopo è una storia di spaesamento. Storie che aspettano di essere raccontate, tutte uguali e tutte diverse. La fortuna è che la costa di cui quelle montagne sono l’interno sono fitte di alberghi e campeggi vuoti, data la stagione. Se non hai più un tetto e ti offrono vitto e alloggio a cento chilometri, ci vai. Soprattutto se hai figli piccoli o adolescenti. Molti di queste persone il loro viaggio spaesante lo hanno già fatto una volta, in passato: ci sono rumeni, albanesi, marocchini. Tanti sono quelli che non vogliono lasciare la casa. Altri, come allevatori e contadini, proprio non possono.
Sono tante le famiglie spezzate: uno al mare, l’altro al paese. Alcune comunità vengono smembrate fra strutture ricettive talora piuttosto lontane l’una dall’altra.
In tenda a zero gradi non ci puoi stare, nei container-dormitorio senza nemmeno il gabinetto non ci vuoi andare, le casette di legno vere (che non sono appoggiate al terreno, ma hanno fogne e allacci di gas e luce) ci vogliono mesi perché siano pronte. E occorre una zona congrua e pianeggiante che in paesi appollaiati sulle rocce non c’è. Nei campeggi la sorveglianza della protezione civile è rigidissima. Certo, la sicurezza. Ma c’è chi si sente a disagio anche per questo.
Cominciano i viaggi verso “casa”, anche se casa non c’è più, e il bungalow è un tetto e un posto caldo, ma non è “casa”.
Per entrare a casa tua devi chiedere di essere accompagnato da un vigile del fuoco. I tempi sono strettissimi, nessuno deve rischiare.
Apri la porta, se non è bloccata, e attraversi quello che era il tuo spazio sicuro ora invaso da frammenti di muro, di vetro, di mobili rotti. Cosa prendere?
C’è chi è andato a controllare se il frigo era vuoto (perché poi la roba puzza); c’è chi ha voluto prendere solo la foto di nozze, ma ha lasciato il computer sulla scrivania; chi ha cercato gli orecchini della madre ma non le chiavi della macchina; chi voleva entrare in camera del figlio, ma le mattonelle divelte bloccano l’ingresso; chi in camera ci è entrato, ma l’armadio si è imberlato e non si apre più.
E c’è chi a casa sua ci va di notte, per non farsi vedere dai vigili, e passa una ronda e lo scambiano per un ladro, e deve farsi identificare; e chi entra nella casa deserta, nel quartiere deserto, e scopre che il gas non c’è ma la corrente sì, e si fa una lavatrice e stende i panni per mimare una normalità perduta.
È tutto un po’ così: dal di fuori tante case sembrano integre, ma dentro sono distrutte. Più o meno come queste persone, che di terremotato hanno, soprattutto, il cervello.
[niente di quanto è scritto è frutto di fantasia]

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