37. STORIE DAI BORGHI. DE-PORTARE, RIPOPOLARE

Ho trovato talmente belli questi post di Cronache mesopotamiche che ve li propongo. Questo significa, questo è.
Mare e monti
Ancora negli anni ’70 nella piazza di Recanati capitava di vedere le portannare (=pescivendole portorecanatesi) coi loro banchetti e le gonnellone nere nere, lunghe e larghissime sotto le quali -dicevano- non portavano le mutande, per cui potevano fare la pipì all’impiedi senza che alcuno se ne accorgesse, dicono. Distanze siderali dalla piccola borghesia dei borghi, dedita al commercio, ma anche dalla orgogliosa gente dell’interno, attaccata alla terra e ignara dell’acqua (“De ‘ndo’ ssì? De Porto Reganati?” [“Da dove vieni? Da Porto Recanati?”] detto con un certo superiore disprezzo a sottolineare mancanza di educazione&decoro).
La provincia di Macerata è come un imbuto, la parte costiera è minima, e ha un unico porto,quello di Civitanova (Porto Recanati ha solo il nome: da sempre, le barche si tirano in secca sulla spiaggia, visto che il porto non c’è). Ancora oggi, esclusi bambini e ragazzi educati all’acqua addomesticata delle piscine, sono tanti gli adulti timorosi di allontanarsi a nuoto da dove si tocca. Tanti hanno la casa al mare, ma per “cambiare aria” e godersi un po’ di mondanità estiva. Non è un mare da marinai, insomma.
La notte del 26 ottobre, quella delle due scosse, nell’interno pioveva a dirotto “pareva che veniva giù li diavuli”, dicono. Ci si precipita fuori dalle case, al buio, nelle strade sconnesse di paesini. Il primo rifugio, quella notte, fu l’auto. Non si capì niente, fino alla mattina. Quando la “macchina dei soccorsi” si era messa in moto, e indirizzò le persone dove sarebbero stati al sicuro: laggiù, al mare. E la gente ci andò, al mare, in macchina, coi pullman. In molti casi al paese rimasero gli uomini, per curare il bestiame, o quello che rimaneva di casa. Donne e bambini nei camping. Gli anziani nei vecchi ospedali, negli ospizi (dove sono tuttora, e che traboccano), in strutture della chiesa (che traboccano anch’esse). Situazioni che le cronache hanno già descritto.
Oggi la sorveglianza della protezione civile è meno occhiuta, le persone si sono assestate, i ragazzi da qualche settimana hanno ricominciato la scuola. Dove? I bambini di Fiastra, paese deserto, sono un po’ a Porto Recanati e un po’ (2) a Fiastra. Le maestre, che vivono a Porto Recanati, due volte alla settimana vanno in montagna, fanno lezione e tornano al mare. E i bambini di Fiastra che stanno al campeggio fanno lezione in una struttura del comune, con le loro maestre ma senza contatti con i bambini di qui (per evitare traumi da contagio, dicono). Ed è un caso fortunato, in fondo, perché le comunità di Fiastra e Acquacanina non sono state del tutto smembrate, anche se in molte famiglie c’è qualcuno che è rimasto al paese, e dorme in roulotte, o si arrangia (mentre aspettano le famose casette di legno).
Intanto è arrivato Natale, il freddo polare di questi giorni, e nessuna notizia. Nessuno sa niente. I controlli alle case, anche nelle zone rosse, non sono stati completati. Le chiese chiuse, non si sa davvero che danni ci siano stati alle opere d’arte. Tutto immobile, congelato.
La gente aspetta, passeggia per farsi venire sonno la sera, nei bungalow è freddo ma si tengono le stufe accese giorno e notte. Si aspetta stringendosi al seno della piccola comunità che ieri era il vicinato e i paeselli presepe e i monti, oggi è una di quelle famiglie allargate che la solidarietà crea nelle tragedie, come capita negli ospedali, a volte. E sullo sfondo, sempre, il rumore estraneo del mare, e il freddo, che pure quello è diverso, umido e penetrante. Aspetti primavera, ma non ci sono segni tangibili che allora avverrà un cambiamento.
Tu sai che la parola è sbagliata, che nessuno è stato obbligato, ma quella parola ce l’hanno tutti sulle labbra: deportati. Gente de-porto Recanati, appunto.
Da queste parti, “delocalizzare”, fino all’autunno scorso, significava spostare la fabbrica dalle Marche, luogo di improvviso e sorprendente sviluppo industriale negli anni ’70-’90, ad altrove, Cina Romania Marocco. Ora vuol dire anche spostare il negozio da Camerino Ussita Arquata a nonsisadove. Fra procedure confuse si va alla ricerca di una nuova stabilità, e qualcuno pensa ad un definitivo trasferimento al mare.
Ma tante sono le storie che testimoniano l’attaccamento ai luoghi: l’ultimo è il bar di Montemonaco e tanti altri, a Pieve Torina, Muccia, Arquata, riaprono il bar.
Il bar in montagna è come e più di una scuola: è la piazza d’inverno e d’estate, il luogo di incontro e di scambio, spesso è lo “spaccio” dove trovare di tutto. I baretti di montagna sono uno dei fulcri delle comunità, e non a caso una giovane barista, Linda Cappa, è stata da subito una delle persone simbolo di questo terremoto
Tutto molto bello, poi vai sui luoghi e capisci che la resistenza è dura come pietra e metallo. Che anche se non hai scelta fra mare e monti, e vuoi stare sui monti perché è lì la tua vita, e il mare ti è estraneo, il paese non c’è. Non ci sono persone, non ci sono strade né case. Nelle cittadine la situazione è diversa: a Tolentino hanno riaperto tutte le strade, per esempio. Ma nei paesi in montagna tanti sono i nastri biancorossi che sbarrano le vie. E voler rimanere, senza case di legno vere, significa ancora affrontare le notti ghiacciate in container o roulotte, quando va bene. O rischiare, e accendersi il camino in una casa inagibile, in una delle mille zone rosse, come mostra la foto.
Ripopolare, la montagna, aiutare i resistenti. Soffiare sui piccolissimi focolai della ripresa. Opporsi alla strategia dell’abbandono. Baretti scuole chiese: riaprire, far ripartire il sistema. E andare a vedere, parlare con le persone, creare rete, e rinascere. Quest’anno ci sarà molto da fare. Auguri.

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