5. CRONACHE DA LAMPEDUSA: CON I DETRITI ALLE CAVIGLIE. L'HOTSPOT

Ogni notizia, ogni testo letto, ogni voce ascoltata, è depositata su di te. Provi a farla tacere nel momento in cui arrivi davanti a quello che oggi si chiama hotspot, a Lampedusa. Provi, perché non è semplice, e sai che nel migliore dei mondi possibili un hotspot non dovrebbe esserci. Che il sistema di accoglienza (e identificazione, o viceversa) e smistamento è inadeguato davanti alla mutazione storica che è in corso.
Che siamo vecchi.
Non anagraficamente e non solo noi, il gruppo di SconfinareaLampedusa, fermo davanti al cancello, in una campagna che è sempre quella, arsa e gialla come si conviene a un’isola che, ricorda Evelina, un tempo si definiva “Africa” (vai a Lampedusa? In Africa vai) e oggi è il ponte, il passaggio, il luogo delle contraddizioni e del riflesso di quello che noi siamo, e di quanto poco abbiamo fin qui compreso.
Dunque visitiamo l’hotspot, e non è stato facile per niente, e si deve solo alla volontà di ferro della sindaca Giusi Nicolini, che è con noi e che, ancora una volta, non ha paura di dire quello che va detto, e quanto deve costarle, questo essere in mezzo, questo essere tirata per la giacchetta da una parte e dall’altra. E del resto lei lo ha detto, che l’hotspot non ha senso:
“L’hotspot concepito così come lo vuole l’Europa, cioè come un sistema che serve a identificare i migranti economici e a respingerli, non può funzionare a Lampedusa. L’isola è un centro di primo soccorso e di prima accoglienza che riceve persone che hanno bisogno di immediato soccorso, ustionati, bambini, donne incinte, tutte persone che hanno bisogno di cure e che non possono ritrovare un centro stracolmo da persone che si rifiutano di rilasciare le impronte. Fino ad oggi avevamo ottenuto il rispetto del ruolo che la geografia dà a Lampedusa, cioè prima accoglienza, ma l’hotspot cambia tutto: è un meccanismo per il ricollocamento che ha fallito, da settembre ad oggi sono stati ricollocati solo 580 persone su 39mila sbarcati tra Lampedusa e Lesbo. Questa è una presa in giro”.
Comunque , siamo qui e siamo, certo, visitatori, ed esserlo in nessun modo può significare esperire quel che significa sul serio stare nell’hotspot: non dalla parte di chi arriva, non dalla parte di chi lavora qui. Qui significa zona militare e reti e cancelli. Qui significa le lunghe panche all’aperto dove ci si siede una volta sbarcati. Qui significa le stanzine del centro medico, quella degli psicologi, quella dell’identificazione e delle impronte. Qui significa edifici dove gli ospiti dormono e dove non entreremo, ma certo non fatichi a immaginare quel che è stato detto, che i dormitori sono piccoli e i materassi accostati. Qui significa che, no, non c’è una mensa o un luogo comune e il riso col pollo più pane più mela li mangi all’aperto, se è bel tempo, o sul materasso, appunto. Qui significa che ci sono bambini allegrissimi che ti vengono incontro, e donne, giovani tutte, che li guardano e stanno fra loro, e sono più meste e riservate degli uomini. Qui significa che c’è un’ala separata per i minori non accompagnati e una per gli uomini. E gli uomini, che poi sono ragazzi poco più che ventenni, sono impegnati in gran numero in una partitella di pallone.
Ora, tu sai quello che altri sanno o che dovrebbero sapere, su cosa sono gli hotspot e perché non dovrebbero esserci. E qui ti viene il dubbio, uno dei mille, perché ti senti nel ruolo scomodissimo e angoscioso del Richard Gere-Samantha Cristoforetti-altro di turno, e ti senti la visitatrice privilegiata, l’ennesima particella dello spettacolo anche se non vuoi. E sai che mentre decidono di cambiare politica (la cambieranno, poi?) dovrebbe esserci almeno una mensa e, sì, il wi-fi, perché tutti vogliono telefonare alle famiglie o ai parenti che sono già, chissà, al Nord dell’Italia o di quel che resta dell’Europa, e per telefonare con pochi euro nella scheda, ammesso che tu abbia un cellulare, devi scaricare qualche app che ti permetta di farlo gratis o quasi, e dunque il wi-fi ci vuole, ma non c’è.
Mentre pensi questo, ci siamo avvicinati a un gruppetto di ragazzi. Vengono dalla Guinea. Uno di loro è quello più allegro e loquace, ci chiede come ci chiamiamo, e a noi chiede da dove veniamo, in un rovesciamento immediato di ruoli, come è giusto che sia. Ha un’istruzione superiore, se è questo che si vuole sapere. E lui, e il suo compagno più silenzioso a fianco, chiedono una cosa: “livres”. Libri. Bilingui, francese italiano. Per imparare, ma anche per leggere, perché adesso è giugno, e il tempo è bello e ci sono le partitelle, ma arriverà l’autunno e poi l’inverno, e forse loro saranno ancora qui, chi lo sa, e cosa fai nei dormitori allora?
Cosa vuoi che rimanga in testa a chi si occupa di libri se non una richiesta di libri? Questa è la vocina malevola che non può non farsi sentire, ma la richiesta c’era, e non si tratta solo di abbandonarsi all’onda, sempre meno potente, della cultura come motore di cambiamento: ma di tornare a quel pane e a quelle rose che oggi sono folclore, rimasuglio di tempi passati, e che invece hanno ancora un senso profondo, perché le persone che arrivano qui non sono ombre affamate. Non c’è solo la fame, la fuga dalle guerre e dalle ritorsioni. C’è l’essere in primo luogo persone, che hanno bisogno di pane e di rose, di scarpe e di libri, di parole e di lavoro, di musica e di case.
E c’è un’altra cosa, poi. Il nostro interlocutore (esito fino alla fine a scriverne il nome, perché non so se faccio la cosa giusta, e il nome lo conosco come lui conosce il mio, e mai lo dimenticherò) ha la forza radiosa della speranza. Della certezza, infine. Perché, ci dice, ora è qui, ed è italiano, ed è felice di esserlo, dopo tutto quello che si è lasciato alle spalle, e adesso comincia, ne è certo, la vita nuova.
Ecco, alla fine di questi cinque giorni e di queste cinque storie, quella forza e la cognizione della realtà che da italiana mi arriva, sono quello che mi lascia il dubbio più forte.
Tutti quegli “aiutateli a casa loro”.
Tutti quegli uomini e quelle donne che trascorrono il loro tempo a scrivere status, tweet, sms, contro “quelli che ci rubano il lavoro”.
Tutti quei giornalisti che ancora si premurano di precisare la provenienza di chi delinque, nonostante tutto.
Tutti quei cittadini che votano, in Italia come in Gran Bretagna, sperando in un risarcimento per le loro vite. Un risarcimento. Come se non solo un lavoro perso o non trovato o un disagio economico fossero le molle per chiedere un cambiamento, ma ogni mancata soddisfazione, ogni frustrazione, ogni fallimento personale montassero quel risentimento irresistibile che porta a chiedere non giustizia per tutti, ma soddisfazione per sé.
Non riusciamo a capire, non riusciamo a trovare gli strumenti per essere nella storia che cambia adesso, e in quel flusso siamo immersi, e alle nostre caviglie salgono i detriti delle scelte sbagliate, come quella di un’Europa solo finanziaria, ma era da tempo che bisognava capirlo, e non solo dirlo. Ma agirlo. Ognuno nelle proprie scelte. Cosa possono fare i narratori, se non provare a cercare le parole, e ripeterle, anche se un cuscino di versi sotto la testa di un morto, come diceva Fortini, serve a ben poco?
Questo è l’ultimo post su Lampedusa. Non sarà l’ultimo grazie per il ka-tet di cui ho fatto parte. E per tutte le persone che ho incontrato e che hanno donato il proprio tempo e le proprie parole per permettermi, se non di capire, di ribaltare i pensieri, e di cercarne di nuovi.
Grazie, mille volte ancora, e per tutti gli anni a venire.

2 pensieri su “5. CRONACHE DA LAMPEDUSA: CON I DETRITI ALLE CAVIGLIE. L'HOTSPOT

  1. Sono interessanti queste “cronache”, perché insieme a Lampedusa parlano di noi, delle nostre debolezze , dei nostri sguardi sfuggenti con l’ansia da opinione,le finte del politicamente corretto , il resistere alla languidezza da fine dei tempi. La difficoltà o l’impossibilità ad esprimere un giudizio sincero nostro, che non sia già passato dalla immaginaria graticola virtuale . di una realtà sempre più opaca, sfocata dietro agli specchi e ai vetri degli smart e dei pc.
    Nostante tutto il mondo resta troppo grande per farsi misurare con le parole.. Forse davvero vale la pena partire dalla guinea attraversare deserti e mari in tempesta per gustarsi infine una granita all’arancio buona per quello che è.
    ciao, k.

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