7. STORIE DAI BORGHI: QUELLO CHE HO VISTO, QUELLO CHE BISOGNA FARE. E FRANCESCO, DA MUCCIA

Chi è rimasto, ha gli occhi scintillanti di paura, eccitazione, trauma. Fa cose. Qualunque cosa. Pulire il pavimento di un bar attraversato dalle crepe. Cercare un capannone dove aprire l’officina. Raccontare, e la storia è quella, sempre. La prima scossa, mercoledì  26 ottobre. Qualcuno dopo quella scossa ha fatto uscire di casa gli anziani genitori. Per fortuna, perché la seconda, quella delle nove di sera, ha fatto esplodere muri e finestre che si sono abbattuti dove i genitori avrebbero potuto essere: il tavolo dove si cena, il letto. Poi è arrivata la terza, quella della mattina di domenica, e tutti hanno pensato la stessa cosa: la terra si aprirà. Si è aperta.
Chi è rimasto, rimane con la volontà fra i denti. Non ci sono container. Arriveranno, è stato detto. Ma da Fiastra raccontano che la proposta è questa: “container da 3 posti ad esclusivo uso dormitorio. Se siete in due, vi troverete con un estraneo, se siete più di tre, verrete smembrati. E per i bagni dovrete uscire, bagni e docce e lavatoi in comune: sui Sibillini, che si sa il clima è favorevole. E per mangiare, refettorio comune. Volete questo, o preferite abbozzare e aspettare sulla costa che arrivino le casette?”.
I container del 1997 erano pensati per i nuclei familiari e avevano bagno e cucina. Piccoli, certo. Ma sono stati utilizzati, nello stesso “clima sfavorevole”, per uno, tre, cinque anni. E hanno permesso alle comunità di rimanere unite.
Raggiungo al telefono qualcuno che conosco ed è sulla costa, in attesa del famoso 30 aprile delle casette. Vorrei non averlo fatto. La voce è atona. Quasi non mi riconoscono, pensano che io sia sotto la loro vecchia casa, e specificano che sono sul mare, purtroppo sono sul mare. Qualcuno fa avanti e indietro: una, tre, quattro volte al giorno.
Non sono solo gli effetti del terremoto quelli che ho visto ieri: sono gli effetti dell’abbandono, deciso subito con efficienza indubbia, e poi quella concessione dei container, come si fa coi bambini testardi. Perché mai dovreste voler vivere in un container quando potete stare sul mare, in albergo?
La risposta è semplicissima: non solo per essere vicino alle case, agli animali, alle attività, ai luoghi. Ma perché tutti hanno la stessa paura: che dalle coste non si torni. Che si ricominci là, in luoghi più grandi. Che questi luoghi muoiano per sempre (eh, si sa, i giapponesi non avrebbero mica ricostruito). E molte delle persone testone e cocciute non vogliono farli morire.
Ho sempre creduto che cultura non sia una parola vuota. Che non sia il distintivo da esibire per essere dalla parte dei buoni e dei buonisti, delle anime belle da salotto, del mignolo alzato. Cultura, per me, è quello che unisce. Sia fatta di libri, musica, cibo, cinema, arte, cammini, paesaggio, terra. Dobbiamo usarla, adesso.
Dobbiamo usarla per far sì che le opere d’arte che sono state messe in salvo dalle chiese e dai musei non rimangano per anni chiuse in un deposito.
Dobbiamo usarla per portare musica, parole, arte, libri, progetti.
Dobbiamo usarla per attirare spettatori e ascoltatori.
Dobbiamo usarla per non far morire questi luoghi, per far sì che non diventino una nuova, sterminata L’Aquila. Che oggi è già uscita dalla nostra memoria, e non è ricostruita, ricordiamolo.
Questo è l’impegno che dobbiamo prendere. Intanto, ospito qui i racconti in versi di un ragazzo di Muccia, che è un luogo di spettri adesso. Che siano di stimolo, e non solo di memoria.
FRANCESCO DRAGO, DI MUCCIA
Muccia era un paese piccolo,  dimenticato da Dio;
a volte così noioso che credevi di impazzire se fossi rimasto lì;
c erano troppi volti noti e spesso sentivi gli sguardi che dicevano parole
senza che le bocche si aprissero.
Volevi andartene e voltare pagina
strappare quel libro letto mille volte
rilegare in un cassetto tutto e dire basta.
Invece poi ti accorgevi che saresti impazzito davvero
se avessi lasciato le sue colline; il fiume che gira sotto il ponticello e forma una piccola pozza
che avresti pianto se non avessi più sentito”Coccu che fai? i troatu una via justa che lu poru nonno tua e anche babbu pensavano sempre a te” da Maria,passando al Cacciatore;
che niente avrebbe avuto più un senso se non saresti potuto stare ore in silenzio a contemplare
Camerino,Morro, la strada serpeggiante che dal balcone di Madonna de Col de Venti
scivolava e guardavi sempre là;;
A Muccia si, coperta dal colle,
là c era c è ci sarà sempre casa mia e il mio cuore
e la mia anima.
E realizzavi e realizzi che casa è il luogo dove la tua infanzia ha plasmato il tuo mondo
quel mondo che tutti noi
figli delle Marche
insieme
ricostruiremo.
Capita che quando credi che tutto vada per il meglio e ti senti sicuro succeda un evento catastrofico che distrugge il tuo paese; riduce in polvere la casa fatta da tuo nonno dove hai sempre vissuto; dove hai passato tutti i tuoi inverni di fronte al camino e le estati a maledirla perchè c era sempre quel prato enorme da falciare,,,, capita che vedi tutti i luoghi della tua vita ridotti in macerie… capita… ma poi ti alzi e vedi tanta gente attorno a te…che ti aiuta, chi conosci… e ti sorprendi, incredibilmente, nonostante tutto a sorridere… maledetto terremoto ricordati che la vita alla fine… vince sempre!
Vivo, sopravvivo.
Distrutto il mio paese , mangiata la mia terra
come in una guerra resisto
assisto al massacrante dolore di un infinito sisma che distorce le fondamenta del mio presente
del mio passato.
Ma non cado; no,non cado
se non per non rialzarmi più forte e baldo, per gridare
alla matrignia natura che ha divorato tutto:
sono distrutto, ma mi rialzerò
ci rialzeremo più forti e sicuri di
prima

Un pensiero su “7. STORIE DAI BORGHI: QUELLO CHE HO VISTO, QUELLO CHE BISOGNA FARE. E FRANCESCO, DA MUCCIA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto