E che vuoi dire, in una giornata così? Ha senso parlare di libri, in una giornata di follia, comunque la si veda, come questa?
Magari sì, magari ha senso, perché pochi di noi, credo, hanno le parole e le competenze giuste per analizzare seriamente quello che sta accadendo. Non siamo che spettatori, come in quell’alba lontana del 1991 quando in televisione abbiamo visto il cielo di Baghdad diventare verde sotto i bombardamenti.
Si attende, come si può.
La comunicazione di servizio, piccola nella giornata di oggi, importante per chi ha a cuore la storia della letteratura e delle scrittrici del Novecento, riguarda l’uscita presso Cliquot della prima raccolta di racconti di Alba De Céspedes, L’anima degli altri.  Per quel che vale, ho firmato la prefazione. Qui un frammento:

“La storia pubblica di Alba De Céspedes comincia nel 1934, quando sul Giornale d’Italia esce il suo primo racconto. Nei fatti, la sua scrittura è già cominciata da tempo. Negli appunti dei Quaderni, dice: “Si deve tener presente che scrivere non è per me uno svago, come per i dilettanti, ma una mansione fin dall’infanzia. Scrivevo a 5/6 anni, pur sapendo appena scrivere. Conservo ancora gli originali con la mia scrittura d’allora”. In un’intervista racconterà che il padre, vedendo la bambina china su un piccolo quaderno, le chiese se la poesia che stava scrivendo fosse sua. Alba, a quanto pare, rispose: “Papà mi dispiace, ti prometto che non scrivo più!”. Il padre, invece, la incoraggiò: “Invece sì, continuerai. È il tuo destino” (e glielo ripeterà, morente, nel 1939). Più tardi, in un’intervista a Sandra Petrignani, svelò il contenuto di quella poesia: “La prima cosa che ho scritto, a cinque o sei anni, è stata una poesia sulle donne che lavorano e soffrono”.
Ma questo è prima. In quel 1934, con un matrimonio e un figlio alle spalle, gironzolava davanti alla tipografia del Giornale d’Italia, perché amava “in modo enorme l’odore di inchiostro che emanava da quelle stanze al pianoterra. Allora mi attaccavo alle sbarre delle finestre per sentirlo meglio”. Infine, inviò un racconto alla redazione, convinta che non l’avrebbero pubblicato.
“Invece un amico una sera mi telefonò e mi disse: ‘ma tu hai pubblicato una cosa sul Giornale d’Italia? Perché c’è la firma A. De Céspedes’ – per non far vedere che ero una donna, perché si cercava di pubblicare un numero minore di donne possibile – Dissi sì, sono io. Scesi e mi comprai 24 copie del giornale”.”

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