Bene, il fallimento dei referendum ci riporta ancora al punto, e il punto è doloroso quanto noto da molto, molto tempo: non abbiamo una classe politica degna di questo nome. Perché io due cosette sui referendum, da antica militante radicale, avrei da dirle, avrei da dire su come siano stati visti per anni come una spina nel fianco che solo un gruppetto di esagitati che, a parere dei partiti, della politica non aveva il senso, usava e rivendicava come strumento di democrazia diretta. Certo che erano altri anni. Certo che non c’era stata la lunga palude berlusconiana e tutte le mutazioni antropologiche che ne sono seguite. Ma resta il fatto che quella classe politica non c’è. Non al momento.
Ehi tu, e gli intellettuali? Beh, alcuni ci sono, e intervengono e fanno quello che possono: parlano pure con le persone, se qualcuno non ci crede, e la sottoscritta, nel suo ostinato orgoglio pietralatese, vede anche come funzionano le cose nelle periferie. Le persone, molto spesso e non sempre, vogliono dai politici – i consiglieri di municipio per dire – cose come: falciate l’erba, cacciate gli immigrati perché sono pericolosi, gli zingari bruciano plastica e c’è puzza, non si dorme perché c’è la movida.
Non è disprezzo. Non è sottovalutazione. In mezzo a questo tipo di lamentele o rivendicazioni fioriscono cose belle, e solidarietà e iniziative comuni e persone che si fanno carico di ripulire un parco e renderlo un punto di riferimento, per esempio, o che si organizzano per raccogliere e donare abiti per bambini, e altro ancora.
Ma c’è una percezione diffusa, specie fra chi ha superato i cinquant’anni, di un pericolo che minaccia le proprie vite, che come tutte le vite sono fragili e intrise di solitudine e dolore, ma anche di serenità, di desiderio di cose piccole. Quella percezione è stata alimentata senza che si riuscisse a opporvi una prospettiva diversa, al di là dei dannati e gelidi slogan. Se posso, i discorsi politici dai palchi nella grandissima parte sono noiosi, freddi, ripetitivi, svuotati di emozione e, fatemi usare ancora una volta il termine, incanto. Salvo eccezioni, va da sè, e sempre. Ma mi dà da pensare il fatto che le giovani persone si stupiscono e affascinano guardando La grande ambizione e ascoltando le parole, cinematografiche ma vere, di Berlinguer. E che si chiedano anche perché nessuno parla così, oggi. Come Berlinguer, sì, ma anche come Langer, come Pannella, come tutti coloro che nel passato hanno cercato l’emozione, hanno parlato di emozioni, hanno parlato di mani che si stringono.
Io continuo a pensare che se non si trovano altre parole non si realizzano altri fatti, e non si abbatte nessun muro, e non si convince nessuno che i pericoli sono altri, e che riguardano non solo i benestanti che “si permettono di pensare ai diritti”, ma tutti.
Arriviamoci per gradi, partendo da molto lontano.
Il punto di arrivo è evidentemente la bassissima affluenza (fin qui) ai referendum, che darà il via a milioni di analisi politiche più o meno argute. Non essendo una politologa, ma una semplice osservatrice, riprendo il mio vecchio discorso sul disincanto e sullo scivolamento dei piani di realtà. Le mie amiche più giovani sono sconfortate (e pure io, naturalmente) perché ritenevano che un discorso sul lavoro e sulla cittadinanza riguardasse tutti: così sarebbe se moltissime persone non rimanessero chiuse nella propria bolla, convinte che sia meglio non muoversi da là per non farsi male.
Il punto è che se scambiamo i reel su Gesù che fa miracoli per diffusione della fede (mentre invece si devono a venditori di magliette) e i referendum come qualcosa che non ci riguarda, abbiamo un serio problema. “Molto semplice, non ci penso”, diceva Mark Fisher in Realismo capitalista.
Essendo una persona fiduciosa, credo che prima o poi ricominceremo a pensarci e che svilupperemo una consapevolezza tale da riuscire a distinguere cosa è importante e cosa no, e anche a non scambiare venditori di cappellini per diffusori della buona novella e politici che non sono in grado di formulare un progetto per politici veri. Ci vorrà un sacco di tempo, probabilmente, ma accadrà.
Nel frattempo, potete votare fino alle 15, sappiatelo.
Nulla avviene all’improvviso, e molto potrebbe essere evitato se riuscissimo per tempo a predisporre le contromisure: in questi giorni condividiamo l’incredulità e l’orrore per un decreto sicurezza che limita in modo sorprendente la libertà di dissenso e che, in modo meno sorprendente, appaga quella parte dell’elettorato che ritiene che vadano puniti quelli che a loro parere rischiano di complicare loro la vita: chi protesta, i ladri, i poveri, gli altri, insomma, che potrebbero turbare le loro giornate senza scosse. Che peraltro non esistono: quale esistenza è davvero senza scosse? Non lo vediamo ogni giorno? E perché pensiamo di essere immuni da un cambio di rotta o da un rovescio?
Ma nulla avviene all’improvviso. E questa mattina sono andata a ripescare un articolo che ho scritto per L’Espresso il 22 agosto 2022, a poche settimane dalle elezioni, quando ancora molto era possibile. Era quello, della serie dedicata ai programmi dei partiti, su come Fratelli d’Italia concepisce la sicurezza.
“Passiamo al punto sulla sicurezza, che nella vecchia versione annunciava fra l’altro: revisione “della cosiddetta legge sulla tortura. Controllo del territorio anche con il contributo dell’esercito. Chiusura dei campi nomadi anche per eliminare il fenomeno dei roghi tossici nelle grandi città, legge che dica che la difesa è sempre legittima”.
Negli Appunti, è Paolo Del Debbio a occuparsi dell’Italia delle periferie. E per la lotta al degrado, alla spazzatura e alle scritte sui muri evoca la Teoria delle finestre rotte. Ora, la Teoria delle finestre rotte non è un film horror (o forse è horror ma non è un film). E’ una tesi di George L. Kelling e James Q. Wilson apparsa su The Atlantic nel 1982: sostiene, in pratica, che una finestra rotta ne chiama un’altra, e che quindi la criminalità, anche micro, si combatte con il decoro. Il sindaco di New York, Rudolph Giuliani, se ne servirà nel 1994 per la famigerata strategia della tolleranza zero (che rose e fiori non fu: Amnesty Internazional ricorda che le richieste di risarcimento per danni causati da perquisizioni violente della polizia e le denunce per i loro comportamenti arbitrari aumentarono rispettivamente del 50 e del 41%, e che soprattutto tra il 1993 e il 1994 il numero di civili uccisi nel corso di operazioni di polizia crebbe del 35%). Soprattutto, la teoria venne contestata radicalmente in uno studio su Nature del 2017, che dimostra come semmai la repressione dei piccoli crimini abbia causato un incremento dei crimini maggiori.”
“Negli Appunti si va morbidi, si sostiene che lo Stato deve garantire sicurezza perché “non è possibile accettare che una donna non possa tornare a casa da sola senza essere importunata” (vecchia storia, quella dei corpi delle donne usati a fini securitari e identitari). Ma vale la pena di ricordare che confondere sicurezza con decoro è faccenda pericolosa, così come lo è cavalcare l’onda della paura. Alla paura ci si abitua. Ci si abitua a tutto, ricordava Peppino Impastato ne I cento passi: “All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”. Parole simili a quello di uno secondo fantasma da evocare, quello di Luca Rastello, che in Dopodomani non ci sarà scrisse: “Se c’è un augurio che posso farvi, allora, è di non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione. Non è mai finita. Mai. C’è sempre almeno ancora una svolta imprevista, sempre”.
Un po’ in corsa, oggi, dunque posto qui una recensione uscita ad aprile per Linus.
Che si moltiplichino gli horror italiani è cosa buona, e all’inizio del 2025 se ne contano diversi, per di più e per fortuna ambientati nel nostro territorio, faccenda che è stata e in parte è ancora un tabù per molti scrittori. Per esempio, I sette corvi di Matteo Strukul, pubblicato da Newton Compton, si svolge nelle Alpi venete, a Rauch, nella Val di Ghiaccio, così come Morsi di Marco Peano era ambientato a Lanzo Torinese, e, ormai quindici anni fa, XY di Sandro Veronesi immaginava nel Trentino l’inesistente Borgo San Giuda. Anche qui c’è una maledizione, anche qui c’è una strage, e naturalmente una risoluzione di cui si tace.
I sette corvi, in origine, è una fiaba raccolta dai fratelli Grimm, dove i figli di un contadino vengono trasformati in uccelli dopo una maledizione inconsapevole del padre, che non vedendoli tornare con l’acqua per il battesimo dell’unica figlia si augura che diventino corvi. Appunto. La storia prosegue con la ricerca avventurosa e perigliosa dei fratelli da parte della ragazza, in un modo molto simile a quanto avverrà ne I cigni selvatici di Andersen.
Nel romanzo di Strukul i corvi sono quelli, terribili e maestosi, della leggenda. Nel gelo dei boschi che circondano Rauch viene infatti ritrovato il cadavere di una giovane insegnante, che si è allontanata dalla scuola credendo di vedere due studenti che si addentravano fra gli alberi. A sua volta, sembra perdersi nel bosco, ipnotizzata da rumori che non comprende, e verrà ritrovata senza gli occhi. Da Belluno, arrivano il medico legale Alvise Stella e l’ispettrice Zoe Tormen, che ha alle sue spalle un passato da pilota di rally e molti tormenti. Naturalmente c’è una storia che viene dal passato lontano, e altrettanto naturalmente c’è una vecchia e misteriosa depositaria di quel segreto che grava sull’intero paese, e soprattutto ci sono loro, i corvi imperiali, grandi e feroci, che dopo il primo delitto seminano il terrore, colpendo il giusto e l’ingiusto come avviene nelle storie, e non solo.
La scelta più interessante di Strukul è proprio quella di aver usato i corvi: e vale la pena di andare a cercare un libro che nel 2019 uscì per Adelphi, La mente del corvo di Bernd Heinrich (traduzione di Valentina Marconi), indagine straordinaria sul corvo imperiale che i popoli nordici chiamavano l’uccello-lupo, e sull’intelligenza che già gli antichi descrivevano, ricordando (Tucidide) che i corvi avevano l’accortezza di non mangiare animali morti di peste. Ma i corvi sono sempre stati considerati sacri, e spesso temuti: sono i messaggeri di Odino sotto i nomi di Huginn e Muninn, e lo stesso ruolo di osservatori viene affidato da Noé nella Bibbia (il corvo, dopo il diluvio, non tornò, a differenza della colomba e della rondine, testimoniando che esisteva un mondo dove mettere radici). Ma i corvi hanno sempre avuto un legame stretto con la magia oscura, e con la morte, perché si nutrono di cadaveri, e per secoli sono stati perseguitati, fin quando, nel 1979, il Parlamento europeo ha votato una risoluzione che li ha inseriti fra le specie protette. E dovrebbero esserlo, perché la loro intelligenza, ci dice Heinrich, è davvero straordinaria.
Nelle storie, il corvo è nefasto, come ricorda Francesca Matteoni nel suo bel libro Il famiglio della strega, uscito per effequ: insieme ai gatti e ai rospi, si accompagna alle donne dedite alla stregoneria. Ed è il macabro nevermore ripetuto dal corvo a gettare nella disperazione assoluta il protagonista della poesia The Raven di Edgar Allan Poe, per non parlare del fumetto di James O’Barr (poi film fatale con Brandon Lee), che viene citato nel romanzo di Strukul insieme a Poe, ai Figli del grano di Stephen King e ad altri a cui paga il proprio debito.
Questo blog pluriventennale ha un vantaggio fra i molti: le recensioni sono rare o non ci sono affatto (lo scrivo per chi ancora pensa che sia il suo scopo: non lo è mai stato, è nato cresciuto e vive come diario di bordo letterario, culturale, politico). In compenso, in tutto questo tempo, ci sono stati molti interventi esterni importanti, di cui ringrazio gli autori e le autrici. Dunque, torna Otello Baseggio, che è stato un gran libraio Feltrinelli, con un ultimo intervento sulle librerie. Premetto che è tecnico, e premetto anche che ho dovuto togliere i grafici perché litigo con Adobe da molto tempo e non me li fa copiare (colpa mia, sono polla), ma credo che sia di grande interesse per chi opera nei libri, e anche per chi legge, per saperne di più.
“Ma da dove si comincia? Una libreria nuova, non di catena, potrebbe cominciare dall’analisi delle condizioni economiche, politiche, sociali e tecnologiche del territorio in cui vorrebbe insediarsi, a seguire l’analisi dei propri punti di forza, debolezza, opportunità e minacce per poi definire il proprio profilo di offerta e in conseguenza di tutto ciò selezionare titoli e quantità per un primo impianto della libreria cui aggiungere servizi coerenti con profilo e obiettivo di redditività.”
“Allestimento, ascolto, elaborazione delle esigenze espresse, ricerca, aggiornamento, comunicazione, operatività in e out door (servizi territoriali), integrazione territorio e on line, consegna in luogo convenzionato per assecondare le esigenze di vita del lettore”
Ogni tanto, come immagino avvenga a voi, mi capitano sotto gli occhi i famigerati reel di Facebook, ovvero video che non si sa perché l’algoritmo mi propone: da ultimo, scene realizzate con l’AI dove gattoni picchiano gattine che vengono salvate da coccodrilli o da castori, gente che si risveglia a Pompei nel giorno dell’eruzione, Gesù che fa miracoli vari. Non so cosa abbia fatto per dare di me quest’impressione all’algoritmo, a parte vivere con due gatti, ma pazienza.
Questa mattina mi capita invece il reel di una donna che insulta la madre di Martina Campanaro perché ha mangiato un hot dog. Basisco, mi ritornano in mente decenni di accuse alle madri vittime di sciagure atroci che non piangevano abbastanza in pubblico (è capitato per prima, pubblicamente e se ben ricordo, alla madre di Alfredino, troppo composta, dissero comari e comarelle (scusate, ma donne erano) per soffrire davvero. Mi chiedo se siamo impazziti, vado alla pagina in questione e scopro che ci sono altre signore, fra cui la famosa influencer porta-turisti, che inveiscono contro questa povera donna perché aveva mangiato, appunto, l’hot dog. Scopro anche che a innescare la faccenda è un venditore di hot-dog (ma va?) da 70.000 follower, che ha diffuso un video con la madre di Martina mentre mangiava il famigerato hot dog dal suo baracchino. Il seguito, fatto di scuse e rilanci e orrori vari, ve lo risparmio.
Mostri? Ma certissimo. Però mostri che sulla diceria e il pettegolezzo e la cattiveria, che esistevano pure prima, fanno contatti e dunque soldi. Perché quello che è accaduto in questi anni non è semplicemente che si è perso il filtro, e che ognuno scrive o filma pubblicamente ciò che prima veniva tenuto nascosto. Ma è che si rilancia, appunto, e che si tira fuori la parte peggiore di noi incitando gli altri a farlo, e a innalzare il livello dello scontro, si sarebbe detto un tempo.
Certo, lo so, esiste la parte luminosa, esistono persone che scrivono e raccontano cercando di fare l’opposto, e di tirar fuori la parte migliore di noi. Ma dal momento che siamo tutti oscuri, nel fondo, è facilissimo scivolare dall’altra parte. E allora, se si vuole fare qualcosa di serio sull’odio social, non si tratta di sorvegliare né di punire: si tratta di fare un lavoro gigantesco di confronto e di riflessione comune per fermare quel che avviene.
E, la butto là, magari smettendo anche di premiare gli e le influencer elevandoli a idoli e opinionisti in quanto influencer, e gloriarsene. Molti lo meritano, è verissimo: ma moltissimi altri sono solo un’immagine sullo schermo abbastanza graziosa o buffa oppure originale. Voglio dire che dovrebbe valere quello che hanno da dire e non lo status, o i follower, o i cuoricini. Perché il passo verso l’ombra è brevissimo, e non sappiamo quando e se verrà compiuto.
Anche da noi, ovviamente.
Questa mattina ho letto un’intervista a una psicoterapeuta che, in sostanza, ammonisce le ragazze a diffidare dell’ultimo appuntamento con l’ex.
E’ una lettura che mi sconcerta. Come si fa a immaginare non solo una responsabilità, sia pure velata, da parte di chi accetta un incontro per chiarire? Come si fa a suggerire che ci si deve muovere, da adolescenti e giovani, in un mondo dove il maschile si identifica con il bruto? Una cosa è parlare di patriarcato, che esiste, non è morto e continua a fare danni, un’altra è pensare che chi ti parla d’amore può ammazzarti sempre e comunque.
Poi, ho molte amiche che sostengono la necessità della difesa personale da imparare presto, prestissimo, per quanto riguarda le ragazze.
E io capisco tutto e immagino che ci sia una parte di ragione o forse una ragione intera, ma penso anche che non dovrebbe essere così, non dovremmo immaginare un mondo così e non dovrebbero immaginarlo le ragazze e le donne.
Ma nemmeno i ragazzi.
Dunque bisogna insistere perché nelle scuole si parli, nei modi giusti e con le persone giuste e nelle giuste circostanze, di tutto questo, liberandosi dalle pressioni dei cosiddetti Pro-Vita e dei fondamentalisti che agitano lo spettro del gender quando si parla di educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Certo che non è risolutivo, certo che bisogna lavorare su tantissimi livelli: ma da qualche parte si deve pur cominciare. E gli spettri, veri, da agitare, ci sono: sono quelli delle ragazze e delle donne che mentre ministri e ministre temporeggiano e fanno distinguo sono morte davvero. E non saranno le ultime. Purtroppo.
Matteo Nucci è uno dei pochi giornalisti e autori che in questi mesi ha scritto di Gaza (ha scritto giusto ieri sul Manifesto un articolo bellissimo, che è qui). Ma non solo: ogni volta, i suoi reportage dalla Grecia negli anni della crisi mi hanno fatto riflettere e imparare.
Bene, arriva a Nucci un provvedimento di censura da parte del consiglio di disciplina dell’ordine dei giornalisti del Lazio. E’ un richiamo formale per non aver seguito i corsi di aggiornamento.
Dal momento che sono una persona curiosa, e non più iscritta all’ordine da una decina d’anni, sono andata a guardarmi i temi dei corsi di formazione del Lazio, che danno diritto ai relativi crediti.
Italo Calvino “talento giornalistico inespresso”; “Roma artista. Come i mass media raccontano la capitale della cultura e i talenti artistici al femminile” (nel XVI secolo); Roma, dai Colonna alla grande bellezza”, Relatore di eccezione leggo, “Enrico Vanzina, regista e scrittore iscritto al nostro ordine. Vanzina ha dato vita a un viaggio attraverso ricordi personali, storie, aneddoti e fatti di cronaca che hanno descritto la Capitale e i romani tra vizi e virtù. A fare da cornice le vicende legate allo storico Palazzo Colonna, narrate dal principe Prospero Colonna, gentilissimo padrone di casa di un palazzo che ha segnato la storia di Roma”.
Credo che chiunque possa imparare molto di più dagli articoli di Nucci che da uno solo di questi corsi obbligatori.
Certo, l’automatismo della sanzione è impeccabile e non contestabile. Ma è contestabile tutto il resto. Sennò, come avrebbe detto l’amato e indimenticato Attilio Giordano, che lo si fa a fare questo lavoro?
Io non voglio vedere, oggi, domani, dopodomani, le fotografie della piccola Martina Carbonaro, 14 anni, con il suo ex, Alessio Tucci, 18 anni, che ha appena confessato di averla uccisa con un masso e di aver nascosto il corpo in un armadio di un ex casolare abbandonato nei pressi dell’ex stadio “Moccia” di Afragola.
Non voglio vedere praticelli e fiorellini come è avvenuto e forse ancora avviene per Giulia Cecchettin e il suo assassino. Non voglio che si usi in modo alcuno la parola amore. Non voglio leggere gli ennesimi distinguo sulla parola femminicidio. E non voglio neanche ascoltare le parole compunte di qualche ministra che rivendica l’idea dell’ergastolo per chi commette femminicidio. E’ una legge per le morte, come scriveva mesi fa Giulia Blasi, e a noi servono leggi per rimanere vive, perché da morte gli anni di carcere di chi ha alzato il masso o il coltello sono ininfluenti.
Voglio che sia chiaro che quest’ennesima morte non è un episodio isolato, non è un caso, non un inciampo del destino. Che è frutto di una catena lunga e ininterrotta, di un mondo e di una cultura che per secoli hanno giustificato lo sgarbo, e dunque l’abbandono, come qualcosa che merita una punizione. Verbale, fisica. Nel caso di Martina, con un masso.
L’unica possibilità per fermare questo orrore è chiamare le cose col proprio nome, e lavorare, non in modo interessato e di maniera, non facendo la dichiarazione d’occasione con gli angoli della bocca all’ingiù, come qualche ministra farà sicuramente.
E’ coinvolgerci tutte, tutti, nel ribaltare una cultura assassina. Quella patriarcale, esatto.
E infine, davvero, mi chiedo quanto serva questo triste balletto, che ogni volta si ripete: di qua chi si accora, di là chi dice “ragioniamo, il femminicidio non esiste”. Che si spegnerà fra qualche giorno e ricomincerà alla prossima ragazza che semplicemente sceglie di porre fine a un amore, e al prossimo ragazzo che non lo accetterà, e noi ritorneremo a riprendere i nostri ruoli, di qua chi si accora, di là chi dice ragioniamo. E tutto, ancora una volta, sprofonderà nel nostro rimanere immobili, nel nostro guardare il selciato, anziché, come dovremmo, il cielo.
Sul New York Times si racconta di un progetto svedese interessante ma insidioso. L’idea è quella di creare un Canone Culturale del paese per capire cosa lo caratterizzi. Il governo l’ha intrapreso nel 2023 (su ispirazione della destra) con due diramazioni: il canone “degli esperti” e il canone “del popolo”. Il primo coinvolge accademici, giornalisti, storici e altri intellettuali che “selezioneranno 100 opere o altri elementi di importanza culturale che hanno avuto un ruolo chiave nel formare la cultura svedese”. Le possibilità sono ampie, possono entrarci Ingmar Bergman e Pippi Calzelunghe, l’Ikea e gli Abba. Fin qui, a quanto pare, sono stati suggeriti la sauna, August Strindberg, la battaglia di Visby del 1361, le cinque vittorie di Björn Borg a Wimbledon.
“La maggior parte del mondo della cultura è contraria all’idea di un canone”, dice Ida Ölmedal, redattrice culturale del quotidiano svedese Svenska Dagbladet: “Viene utilizzato come strumento populista per indicare cosa è svedese e cosa non lo è, ed escludere alcune persone dal concetto di svedesità”. E ha aggiunto: “”Ma anche se non fosse nazionalista, sarebbe comunque sbagliato per i politici sottolineare cosa sia importante per la cultura”.
Non siamo del tutto esenti da questo discorso: certo, non siamo ancora al canone culturale (e non vorrei aver dato un’idea al ministro Giuli), ma cosa sono le Nuove indicazioni nazionali di Valditara se non il tentativo di delineare un canone? Nazionalista e identitario, ovviamente, come è stato più volte detto e ripetuto.
Il canone, a parer mio, è faccenda pericolosa da ogni punto di vista: e non solo per una questione politica e di identità.
Perché la cultura dovrebbe essere un’indicazione di libertà, non una gabbia.