A PROPOSITO

A proposito, sì, di italian epic e di un libro già citato. Fabrizia Ramondino sull’Espresso:
Vittorio Giacopini è noto come polemista politico e saggista letterario per i suoi libri e i suoi articoli sulla rivista ‘Lo Straniero’. Con il suo ‘Re in fuga – La leggenda di Bobby Fischer’ (Mondadori, pp. 275, E 17,50) ci si rivela come un grande romanziere epico. Bobby Fischer (Chicago 1943 – Reykyavik 2008), figlio di una ebrea tedesca approdata negli Usa nel 1939 e di padre incerto, cresce a Brooklyn con la sorella maggiore e la madre, che alterna lavori precari con un impegno politico radicale (fin dal 1942 è schedata dalla Cia). “Se sei un bambino che cresce senza un genitore diventi un lupo”, scriverà poi Bobby. Il piccolo lupo a sette anni invece che nella foresta selvaggia trova rifugio nello spazio geometrico della scacchiera. Diventa il più giovane campione nazionale Usa e nel ’72 a Reykyavik è campione mondiale contro il russo Spassky. Fin da ragazzo prodigio ha praticato l’arte di scomparire e ricomparire, ma dopo questa vittoria la sua diventa l’arte della fuga, presto diventata latitanza – a causa del suo rifiuto di diventare un ‘eroe americano’ e del suo odio crescente contro quello che lui considera “l’imperialismo americano” e l’ipocrisia del suo sogno. Arrestato all’aeroporto di Tokyo, evita l’estradizione negli Usa con una mossa scacchistica applicata alla vita: chiede e ottiene la cittadinanza islandese. L’autore con il suo stile preciso e coinvolgente ci trascina da Brooklyn ai ghiacci islandesi, intrecciando magistralmente le vicende della seconda metà del secolo scorso con la leggenda del suo re in fuga. Invano Achille si nascose fra le Nereidi per non partecipare alla guerra di Troia; invano Bobby si nascose nella scacchiera per non partecipare alla guerra della vita.

82 pensieri su “A PROPOSITO

  1. Posso dirlo? Nessuno si incazza? Ebbene, finiamola con ‘sta storia dell’epica applicata a tutto. Fra un po’ è Italian Epic anche il racconto dell’operazione alla prostata subita dal bisnonno di Bruno Vespa. L’epica, secondo me, è “Cantami o diva del pelide Anchille [pelide e peloso, secondo me, mica come il divo Costantino dal petto glabro della De Filippi!) & quella roba lì. Punto e basta.

  2. Be’, Lucio, l’operazione alla prostata del nonno di Vespa direi di no, ma Fisher forse sì.
    A rigore il racconto epico è il genere che sta a metà fra Commedia e Tragedia, intese in senso classico. E dunque una storia in cui i personaggi non sono comuni e ordinari, come il nonno suddetto che starebbe bene nella nella commedia (pappus), ma sono fuori dall’ordinario, superiori alla media, con grandi virtù e/o grandi difetti, tipici da tragedia (e direi che con Fisher ci siamo). Inoltre questi personaggi dovrebbero dimostrare la capacità di intervenire sulle situazioni di fatto in cui sono immersi per modificarle, come accade ai personaggi della commedia, ma allo stesso tempo venire sballottati qui e là dal loro destino, come invece accade ai protagonisti della tragedia. E anche qui con Fisher mi pare che ci siamo. Solo che nella tragedia il destino fotte sempre i personaggi mentre nell’epica a volte no (vedi Ulisse che per arrivare a Itaca ci mette dieci anni per colpa del fato avverso ma alla fine, grazie alle proprie qualità, ci arriva). D’accordo, forse Fisher è meno epico di Ulisse, ma mi pare che rispetti il canone aristotelico del genere epico. Che poi spesso si parli di epica a sproposito sono d’accordo, ma ormai si parla di tutto a sproposito. Che vuoi farci? 🙂

  3. Non ho letto il libro di cui sopra, certamente lo farò, ma da un lato vorrei dire a Lucio che non mi pare affatto ci sia qualcuno che applica l’aggettivo “epico” a tutto, mi sembra un atto di “presenzialismo preventivo” quello di contestare da bastiancontrario una tendenza critica o una dichiarazione di poetica che ancora non è stata espressa in modo chiaro. Al limite, vedo in giro un uso confuso dell’aggettivo, da parte di persone che non sono in grado di districarne i vari significati (quando ad esempio si parla del “teatro epico”, con particolare riferimento a Brecht, lì l’aggettivo ha una denotazione completamente diversa). Dall’altro lato, vorrei dire a tutti di essere cauti nel maneggiare l’espressione “nuova narrazione epica italiana” o, all’inglese “new italian epic”. Nei workshop sulla letteratura italiana a cui ho partecipato in Nordamerica, l’espressione ha “attecchito” non come un’ennesima etichetta, tanto per catalogare una produzione multiforme, ma sulla base di precise caratteristiche accomunanti e distintive: 1) diversa tonalità emotiva rispetto al postmoderno; equilibrio tra complessità narrativa e fruibilità; 2) esplorazione di punti di vista “obliqui” e inconsueti, dal “sovraccarico” dell’io narrante alla “media algebrica” del punto di vista di moltitudini fino alla trasformazione del “discorso libero indiretto” nella simulazione dello “sguardo” di luoghi, oggetti inanimati e addirittura flussi immateriali; 3) “Ucronia potenziale”, ovvero anche dove il “what if” non è esplicito c’è comunque un interrogativo su cosa sarebbe successo se, oppure si cerca di isolare un momento in cui diversi sviluppi fossero possibili; 4) libertà di parlare non soltanto di Italia, di italiani e della storia nazionale, ma di ambientare le proprie storie ovunque (Yumna Siddiqi ha parlato di “narrativa globale” a proposito di Q e 54); 5) sperimentazione dissimulata come “cucitura invisibile” nel linguaggio e nello stile; 6) disponibilità ad andare oltre l’ormai banale “contaminazione dei generi”, che comunque riconosceva lo statuto di questi ultimi, per costruire oggetti narrativi non-identificati; 7) tendenza a uscire dalla forma-libro, con narrazioni che diventano partecipate e/o “transmediali”, nel senso che proseguono su diverse piattaforme, con diversi linguaggi, con l’apporto di più persone, e non si tratta di meri “adattamenti” da un medium all’altro (il film tratto dal romanzo), ma di pezzi di storie che vengono narrati altrove e in altro modo e spesso da altre persone. Come dicevo nell’intervento a Middlebury, *nessuna* delle opere prese in esame ha proprio *tutte* le caratteristiche, ma ciascuno dei libri che ho nominato condivide con tutti gli altri almeno metà di questi tratti distintivi. Ora, io mi sto sforzando di trasformare i miei interventi (e non soltanto i miei) in un saggio lungo, come feci con la “Lezione su 300”. E’ un compito difficile, perché un testo del genere è per necessità complesso e deve rendere conto di una produzione letteraria che si è evoluta nel corso di dieci-quindici anni grazie ad apporti diversi e attraversamenti di generi diversi, e inoltre devo cercare di “estrapolare” nella produzione di oggi le tendenze che portano a un superamento (ad esempio, per me la spinta più interessante, che fonde etica e stile, è quella impressa da chi azzarda e simula uno sguardo non-antropocentrico (nei limiti dell’immaginabile, ovviamente: essendo noi anthropoi, il nostro sguardo è per forza antropocentrico). Invito tutti quanti (ovviamente è solo un invito, mica posso dare ordini!) ad attendere l’esatta definizione prima di contestarla. A fronte di un considerevole sforzo di chiarezza e precisione, mi aspetto critiche chiare, precise, circostanziate, e soprattutto non premature o addirittura preventive.

  4. @Pispisa. Per pigrizia, copio-incollo da Skuola.Tiscali.it:- ) “Il temine epica deriva dalla parola epica ‘épos’ che possiede molteplici significati : parola, discorso,racconto; ma anche verso di poesia,a sottolineare il fatto che il canto epico trae la sua forma espressiva da precisi schemi metrici. In questo genere letterario vengono catalogati testi appartenenti a periodi e popoli estremamente lontani tra di loro. Sono comprese infatti composizioni risalenti al terzo millennio avanti Cristo, delle popolazioni mesopotamiche e indiane, opere dei greci(Iliade, Odissea ecc..) , dei romani (Eneide), dei giapponesi, fino alle manifestazioni letterarie dell’epoca medievale e di quella rinascimentale.
    Benché l’epica, dunque, abbia assunto inevitabilmente, nel corso dei secoli nelle aree geografiche e culturali in cui fiorì, forme assai diverse, essa continua ancora oggi ad identificarsi in quei componimenti narrativi , solitamente ampi, in versi o in prosa, che celebrano vicende appartenenti ad un passato più o meno lontano, spesso favoloso e mitico, e le gesta compiute da uno o più eroi espresse in uno stile solitamente elevato e solenne. Quando questi componimenti sono scritti in versi prendono il nome di poemi.”
    Ecco, mi pare che la componente “vicende appartenenti a un passato più o meno lontano, spesso favoloso e mitico” abbia il suo peso, anche se oggi sono io stesso il primo a dire di qualcuno molto bravo, per es. Roberto Bui, che è “un mito!”:- )

  5. Ma come, io ti cito Aristotele e tu mi rispondi con un taglia incolla da Skuola.it? Mi sento gravemente sottostimato da parte tua. Potevi almeno citare Adorno 😉
    Per WM1: il saggio cui accennavi è ancora un pour parler o ce lo possiamo aspettare a breve? Ho sentito il tuo intervento in USA e mi è parso molto stimolante, un seguito organico da leggere non sarebbe male.

  6. Per me un film “epico” è il film della Walt Disney “I dinosauri”, oppure “Furore”, roba del genere… cioè narrazioni in cui ci sono “epici” spostamenti.

  7. Considerato che la prostata del bisnonno è stata in qualche modo responsabile della nascita del bisnipote, ipotizzo che il bisnonno in questione abbia voluto fare ammenda, ricorrendo all’asportazione chirurgica. C’è qualcosa di epico in tutto ciò… 🙂

  8. Wilhelm, secondo te io sono uno da “pour parler”? 🙂
    Il saggio lo sto scrivendo da domenica, basandomi sugli appunti presi per fare gli interventi e durante i workshop. Erano appunti già molto strutturati, per cui sono già oltre metà della stesura, ma adesso arriva un passaggio particolarmente difficile e denso, quello su allegoria e “allegoritmo”.
    Nel frattempo, abbiamo scritto collettivamente un articolo più breve, che funziona come “abstract” del testo più lungo e che, se tutto va per il verso giusto, dovrebbe trovare una collocazione sulla stampa nazionale passata la buriana elettorale. L’ideale sarebbe mettere on line il saggio lungo il giorno stesso o comunque poco dopo la pubblicazione dell’articolo più breve. Ad ogni modo, credo che gli 8 tratti distintivi siano una buona griglia per collocare le opere che si stanno scrivendo. Ad esempio, voi Kai Zen avete scritto un libro che sembra tenere almeno la metà di quelle caratteristiche: A) equilibrio tra complessità narrativa e fruibilità (e quando parlo di “equilibrio” non intendo uno stato, un risultato, ma una tensione, un tentativo, una serie di riaggiustamenti); B) ucronia potenziale e tendenza alla storia “alternativa”; C) ambientazione non solo italiana; D) transmedialità e spin-off partecipativi. Però c’è un però: ne “La strategia dell’Ariete” non trovo alcune caratteristiche che mi sembrano le più salienti, a cominciare dalla n.1, cioè un tono emotivo, un calore o comunque una presa di posizione che traghetti l’opera oltre la playfulness postmoderna, la strizzata d’occhio, il pastiche, la contaminazione ironica. Cioè mi sembra ancora un testo che non si prende abbastanza sul serio (non nel senso di “serioso”, ovviamente). Considerando che era il vostro esordio come libro collettivo, che prima di cominciare a lavorarci non vi conoscevate nemmeno, e che l’avete scritto vivendo in tre città diverse, direi che sarebbe stato chiedere troppo. E’ già un risultato che altri si sarebbero baciati i gomiti (gran bell’anacoluto). Ma ecco, per capirci, il primo punto è mooolto importante. Non so se sono stato chiaro, è ancora tutto magmatico, nel saggio cerco di esprimermi meglio.

  9. Wu Ming: “equilibrio tra complessità narrativa e fruibilità” è talmente generico e soggettivo che… vabbè, meglio che stia zitto, se no pare che voglia sempre fare il Bestiòn Contrario.

  10. Lucio, a parte che di libri complessi ma respingenti oppure leggibili ma poco esigenti è pieno zeppo il mondo e quindi non credo che bilanciare i due aspetti sia così tanto facile o banale, è chiaro che in questi commenti ho potuto elencare le caratteristiche soltanto riducendo la descrizione all’osso. Nel saggio spiego in che modo si ricerca quest’equilibrio, ad ogni modo credo che io e WM2 abbiamo già anticipato alcune cose nel “Trittico sul pop” dell’anno scorso, e su questo aspetto specifico credo di aver reso un’idea di quel che intendo nella mia recensione a “La storia di Lisey” di Stephen King:
    http://www.carmillaonline.com/archives/2007/01/002089.html
    —-inizio citazione—-
    Il romanzo è intelaiato su quattro flashback disposti “a matrioska”, ricordi rimossi che contengono ricordi rimossi che contengono ricordi rimossi. Nel 2006 viene ricordata una situazione verificatasi nel 1996, al cui interno era riaffiorato un ricordo del 1979, a sua volta imperniato sul racconto di fatti avvenuti negli anni Sessanta. Tutti questi eventi e ricordi sono a cavallo tra due dimensioni, due mondi paralleli: uno è il nostro, l’altro è Booya’moon, universo sospeso tra vita e morte, silenzio e parola, orrore e sollievo. King si muove all’indietro e lateralmente, passa continuamente da un livello all’altro e da un mondo all’altro, e mentre lo fa cambia i tempi verbali, chiude i capitoli a metà frase, interrompe bruscamente i flussi di coscienza dei personaggi, addirittura opera un radicale slittamento del punto di vista saltando dal penultimo all’ultimo flashback.
    Scelte di questa portata, in passato, erano appannaggio di romanzi ipercolti e “illeggibili”; oggi le troviamo in un libro pop e di successo, in coesistenza pacifica coi mille trucchi del mestiere di narratore (suspence, colpi di scena, McGuffin, agnizioni etc.).
    —fine citazione—

  11. @WM1. Allora un buon motivo in più per attendere la fine della farsazza elettorale. Riguardo ai tuoi però, a me vanno bene. Kai Zen è di certo più cazzaro-spontaneista che new italian epic. Almeno fino a ora. Per il futuro non ci pensiamo. Prima di scrivere cerco di non chiedermi mai “Come dovrei essere?” perché, conoscendomi, so che mi castrerei da solo. Meglio se mi chiedo “Che cazzo ho combinato?” dopo avere scritto, e andare avanti così. Gli altri Kai Zen sono all’incirca sulla stessa linea di mancanza di volontà di prendersi sul serio, quantomeno consapevolmente e a priori.

  12. Questo però non esclude di prendersi sul serio (ripeto: non “serioso”, si può essere seri e leggiadri al tempo stesso) a posteriori. Con “La strategia dell’Ariete” avete fatto qualcosa di importante, soprattutto sul terreno del rapporto coi lettori, della co-creazione, del trans-mediale. Questa è una cosa da prendere sul serio, e io vedo grosse potenzialità.

  13. Ti ringrazio, speriamo che le potenzialità si sviluppino. Però ripeto, per il nostro approccio, semplicemente non possiamo progettualizzare. Senz’altro fare un’analisi seria e non seriosa, diciamo attenta e via, a posteriori dello stato dell’arte nostra sì, ci mancherebbe. Il chiedersi “Che cazzo ho combinato” dopo avere scritto da me citato prima si riferiva proprio a quello. Ma mai dire per il futuro faremo questo e andremo in quella direzione. Credo fosse Dashiell Hammett a dire più o meno “Non appena uno scrittore si rende conto di avere uno stile, quello è uno scrittore finito”. Non sarei così tranchant e non generalizzerei, perché per ognuno è diverso e il bello della letteratura (e del resto del mondo) sta proprio qua, ma per Kai Zen (e anche per me come singolo) quella frase ha un suo bel valore (e non solo riguardo allo stile).

  14. WuMing1: secondo te l’ultimo libro di Simona Ventura, “Crederci sempre, arrendersi mai”, ci sta nei parametri dell’Italian Epic? Lei opera su più piattaforme, è a suo perfetto agio in esotiche Isole dei Famosi, dialoga con Morgan e Mara Maionchi (in cui non è chi non veda una reincarnazione di Maat, dea della legge, dell’ordine e della giustizia) eccetera. Forse il suo guaio è che non sempre la sua cucitura è invisibile…

  15. E poi nella sua parabola c’è spazio sì per diversi scarti (e scartine), ma non c’è un grosso scarto emotivo rispetto al postmoderno. I reality sono il colpo di coda del postmoderno, se gli dici che fanno merda ti dicono: ma no, ma no, è tutto ironico, tu non cogli l’aspetto x e l’aspetto y, noi non siamo davvero così, in realtà noi facciamo vedere che la società etc. etc. etc. blah blah blah. tutto uno strizzare l’occhio, un darsi di gomito, un continuo prodursi in risatine e cachinni, sempre con l’aria di dire: io non sono merda, io *spaccio* merda, ma la merda che spaccio serve a far vedere quanto siete merde voi perché io sono uno specchio che vi riflette etc. etc. etc. Ecco il segreto del postmodern: c’è sempre margine per i paraculi e ogni cosa può essere spacciata per critica.

  16. Forse la vita di Bob Fischer non è epica in sé, forse solo negli standard più contemporanei in cui si parla di “epica moderna”, ma ci sta che nel modo con cui Giacopini l’abbia raccontata questo aspetto epico sia molto più evidente di quanto possa apparire dalla biografia di wikipedia.
    In fondo la narrazione, il tono e lo stile, anche nel grosso fiume carico di monnezze che è l’epica, sono determinanti. Risulta difficile per un certo immaginario paragonare le dodici fatiche di Ercole con le vittorie a 14 anni, senza mai perdere, del giovane scacchista contro i maestri statunitensi, ma per me no!
    p.s. Non so se possa risultare utile per il dibattito, ma è possibile attraverso questo nuovo schema far risaltare la differenza tra “Star Wars” – che è epica – e la trilogia di “Indiana Jones” – che è avventura?

  17. L’aspetto x, dici. In realtà avresti dovuto chiamarlo “X factor”. La domenica sera in prima serata su Rai2: Ventura + Morgan + la mitica Mara Maionchi, che ci ha pure un visitatissimo sito e prosegue su svariate piattaforme. Detto ciò, buona notte°-*

  18. Sono davvero curioso di leggere questo saggio di WM1.
    Come accenna Guglielmo Pispisa gli scrittori mica sanno “prima” cosa stanno facendo. Se ne accorgono “dopo”. Mi viene in mente una frase di Proust che diceva (cito a braccio): “odio i libri che esprimono una teoria, mi sembrano sempre dei regali con ancora attaccato il prezzo.”
    Gli scrittori – e in generale chi lavora sul piano espressivo – navigano a vista, solo a posteriori possono riconoscere di appartenere ad un comune sentire (o non appartenerci affatto!).
    Ecco che l’analisi critica si fa fondamentale, determinante. Che sia uno scrittore a fare questo excursus non è, in sé, né un bene né un male. Non è nuova la tradizione del critico-poeta, per intenderci. Un po’ mi dispiaccio che questa lettura non scaturisca proprio dalle pagine deputate, quelle di chi fa critica di professione, ma è un dispiacere di poco conto, in fondo.
    Sono interessato a capire come sviluppi i suoi 8 punti, WM1, anche perché a leggerne le anticipazioni di alcuni ci vedo molte pagine dei miei libri, e non ultime anche quelle che sto per licenziare, o ho appena licenziate.
    Quindi buon lavoro e non farci aspettare troppo!!!
    😉

  19. Hammett sapeva benissimo di avere uno stile, e sapeva anche dove stava andando. E Proust aveva una teoria ben chiara di cosa fosse la letteratura. E Pasolini ha scritto eccelsa teoria della letteratura (si pensi alle sue pagine sul “discorso libero indiretto”). Idem Fortini. Idem innumerevoli altri. Gli scrittori hanno sempre saputo scrivere… critica, teoria, chiamatela come vi pare. Più raro invece che un critico sia in grado di scrivere letteratura. Ad ogni modo, il mio excursus (lo si capisce anche dall’mp3 dell’intervento americano) è proprio un tentativo di rispondere alla domanda kaizeniana “Che cazzo abbiamo fatto?”, e parte addirittura dai primi anni Novanta.

  20. Proust e Pasolini (sono autori che credo di conoscere davvero bene) erano, in effetti, ottimi critici, non è infatti una anomalia che uno scrittore lo sia.
    E’ una cosa che cito spesso, di Vittorini, sulla “tecnica”, che non è una cosa da cui si parte, ma è quella a cui si arriva. E che, in definitiva, diventa la voce autentica dell’artista. Questo percorso euristico diventa spesso – non dico misterioso per non fomentare mistiche inutili – ma foriero di stupore all’artista stesso. Mentre “fai” ridisegni la mappa, oppure la completi nelle parti mancanti, o scendi nel particolare, che poi può anche rivelarsi uno specchio del generale, come un frattale. E’ che tutto ciò non lo si può spiegare – come diceva il filosofo – ma bisogna vederlo, mostrarlo. Il percorso diventa solo alla fine perfettamente coerente.
    La cosa che trovo interessante è capire quanto dello scrittore resti quando usa gli strumenti della critica. Quanta scrittura c’è, insomma. Come anche in un saggio continui a persistere il suo essere scrittore, quindi quanto anche la sua attività di saggista sia perfettamente intrecciata – e perciò modificante – con quella della scrittura letteraria.
    Quanta “letteratura” c’è nella sua “critica”.
    Le terre di mezzo, gli scavallamenti, gli attraversamenti di confine, mi affascinano sempre.
    (vado a nanna che sragiono)

  21. @ wm1
    Prendiamo un testo (come esempio ho in mente i film di Tarantino, che come sai detesto) nel quale sicuramente alcuni degli 8 tratti distintivi sono presenti, ma nel quale (fingiamo che anche tu sia d’accordo) c’è anche quel tratto pseudo-ironico che per te è il segreto del postmoderno («io non sono merda, io *spaccio* merda, ma la merda che spaccio serve a far vedere quanto siete merde voi perché io sono uno specchio che vi riflette etc. etc. etc.»). In questo caso “misto”, o “ibrido”, qual è il criterio prevalente? Siamo comunque all’interno del postmoderno in ragione dell’approccio (che tendenzialmente vanifica le potenzialità insite nella preenza di alcuni tra i tratti del new epic), o abbiamo individuato una strategia di fuoriuscita, quantomeno potenziale?

  22. Dunque: sinceramente, in Tarantino io non vedo un “ibrido” tra il postmoderno e qualcos’altro. Per me – con l’eccezione di “Jackie Brown” che era una creazione più “calda”, personale e meno distaccata – quello di Tarantino è stato il postmodernismo pop più rappresentativo dei megalomani anni Novanta (“il decennio più avido della storia” secondo Stiglitz). Il postmodernismo più di superficie, che non indaga e si accontenta di giocare coi rimandi e la ricombinazione, sempre pronto a rimbalzare via e ricorrere a una ridacchiante “fisica dell’alibi”, in un’eterna, congelata “adolescenza” dell’approccio.
    Ecco, per me quello che sta avvenendo nella narrativa è anche una reazione – talvolta violenta, come è giusto – a quell’approccio. C’è una tensione a superare proprio quella roba là.
    I film di Tarantino, poi, non possono essere “epica italiana” perché non sono epici né italiani, nascono in un altro contesto e sono concepiti in una fase della cultura precedente (anche se di pochi anni) a quella in cui secondo me è avvenuta la metamorfosi.
    Infine, nel saggio provo a chiarire che quei tratti distintivi (che, per carità, servono solo per orientarsi un minimo, non sono la Stella polare) valgono per progetti il cui punto di partenza (non necessariamente di approdo) è lo specifico letterario, per via di un potere “telepatico” della letteratura che il cinema e altri linguaggi non hanno. Infatti, se avete notato, il riferimento e l’esempio vanno sempre alla parola scritta e al linguaggio letterario. Ma anche accettando la premessa di poter ricercare quelle caratteristiche in un film di Tarantino, io non ce le trovo. Quella più importante abbiamo già assodato che non c’è, ma proseguiamo: dov’è il lavoro sul rapporto tra Storia e storie, dov’è l’ucronia sottesa, il “what if” implicito, l’obliquità del punto di vista (che spesso coincide con l’uso di “lingua minore” in senso deleuziano), dov’è la potenzialità di antiantropocentrismo? E, nell’ultimo Tarantino, dov’è andata a finire la complessità narrativa?

  23. Probabilmente ho sbagliato l’esempio, ma la questione che ponevo è: cos’è prioritario, in un caso ibrido? Se la reazione all’approccio postmoderno è un elemento di primo piano, e non accessorio, allora credo di capire che l’abbandono della pseudoironia post- sia una delle condizioni sine qua non.
    Il che, detto per inciso, mi trova del tutto d’accordo.
    PS: per chiarire su Tarantino: io ho assunto nel post alcune caratteristiche positive che altri hanno trovato nei suoi film. In altri termini, mi sono posto dal punto di vista di chi lo considera un autore significativo, importante, ecc.

  24. E’ senz’altro un autore significativo, ha addirittura definito un’epoca. Però è lontano anni-luce dalla sensibilità che sto cercando di mappare. Io lo sento distantissimo da me, da noi, dal lavoro che abbiamo fatto a partire da Q. Per questo mi ha sempre irritato quando, parlando di noi, lo si tirava in ballo gratuitamente.
    Sì, hai colto perfettamente uno degli aspetti che più mi preme. Ovviamente, non vuol dire che non si possano usare ironia e sarcasmo, che non si debba scherzare, che non si possano produrre parodie etc. Vuol dire però che è ora di finirla con il sarcasmo come difesa contro la complessità da parte di chi non vuole mettersi in gioco e addirittura si illividisce se a mettersi in gioco sono altri.
    Copio e incollo dal file su cui sto lavorando proprio adesso:
    “Chi eccede la ‘modica quantità’ di emozione stabilita dai doganieri dell’arte deve stare attento, perché, facendosi scudo con la satira, si mobiliterà lo squadrismo dei frizzi e dei lazzi. E infatti la passione di Saviano, la collera di Babsi Jones e l’estasi di Genna hanno suscitato l’ostilità dei ‘distaccati di professione’, sempre pronti a punire chi ‘sgarra’a colpi di facili sarcasmi.”

  25. Wu Ming1, ognuno è libero di farsi tutte le mappe che vuole. Però con questi discorsi metti le mani avanti: “chi non è d’accordo con la mia mappatura e la satireggia, innesca lo squadrismo dei frizzi e dei lazzi”. Ai critici della “mia” mappatura, per esempio, interessa di più verificare il buono e il cattivo di un libro, più che la sua rispondenza a una manciata di parametri stabiliti da chicchessia. Trovo poco elegante, peraltro, creare dei piccoli paradisi di bontà letteraria a partire dalle proprie opere (= “il mio piatto è RICCO e mi ci FICCO!”). Vabbè, rintanati pure nel resort esclusivo della new epic narrative (mi pare che epic sia solo aggettivo), però lascia ai distaccati di mestiere la libertà di guardare con distacco a formulazioni del tipo “l’ESTASI di Genna”: suvvia, Genna in estasi come Teresa de Avila… siamo seri!

  26. Lucio, quel virgolettato nel mio saggio non c’è. Era solo un’esca per te. Anch’io a volte, di fronte alla prevedibilità dei frizzi e dei lazzi altrui, divento un fascista dei frizzi e dei lazzi 🙂

    Ad ogni modo, libero tu di vedere in qualunque tentativo di analisi una forzatura di ordine normativo, ma un conto sarebbe dire, come tu paventi: “secondo me d’ora in avanti tutti i libri per essere validi devono avere queste caratteristiche”, cosa che non sta facendo nessuno.
    Altro paio di maniche è invece quello che io e non soltanto io sto cercando di fare: rendere conto del perché sento alcune affinità, sensibilità comuni e anche (perché no?) strategie condivise all’interno di una produzione che già esiste, qui e negli ultimi quindici anni, non nell’Iperuranio della narrativa a venire. Produzione che è e rimane eterogenea perché l’eterogeneità è tra i suoi punti di forza, ma che secondo me si muove su un terreno comune, che io cerco di individuare nell’allegoria. Continuerò io e continueremo tutti a leggere anche libri che non hanno nulla a che vedere con questa “nebulosa”, a nessuno verrà impedito di scrivere quel che gli interessa e di giudicare valido un libro per i motivi che più gli aggradano, quindi perché quest’impazienza di screditare a priori, senza peraltro aver letto quello che sto scrivendo? Se a te questa tematica, questo tentativo, questo discorso e questa discussione specifica non interessano, ignorala. Se ritieni tutto questo inutile, non usarlo. Ciao.

  27. Vuol dire però che è ora di finirla con il sarcasmo come difesa contro la complessità da parte di chi non vuole mettersi in gioco e addirittura si illividisce se a mettersi in gioco sono altri.
    Improvvisamente mi si para davanti, come nel display dell’occhio di Terminator, una lunga lista di abituali frequentatori di questa forma retorica: combinazione, sono tutti critici letterari italiani che scrivono contro (da Onofri a Ferroni), dei quali da tempo mi chiedevo cos’hanno in comune

  28. Concordo pienamente sul discorso “non epico” di Tarantino (che comunque, tenderei più ad elogiare come sceneggiatore\dialoghista innovativo, in questo senso più vicino alla parola scritta, che come cineasta in senso ampio).
    Vorrei però sottolineare che se esiste un’arte che negli ultimi decenni ha provato a creare epica, questa sia stata il Cinema e non la letteratura. E non solo dal punto di vista dei risultati, ma anche nelle intenzioni, molti dei grandi autori del ‘900 hanno proprio cercato di pescare dal genere epico le loro storie. Il che secondo me significa anche avere molti spunti di riflessione sulla “nuova epica” e possibili declinazioni.
    [E ovviamente anche in questo campo l’Italia è sempre stata refrattaria a primeggiare. Il cinema italiano, con la significativa eccezione di Leone, mi pare quanto più ci sia lontano dall’epica. Né ho visto negli ultimi anni significativi esempi di rinascita, come pare sia riscontrabile nella letteratura.
    Per il Cinema più che di una mappatura ci sarebbe bisogno di un manifesto programmatico di epica low-budget…E di un po’ di blog di “lipperacinema”.]
    L’unica domanda che mi sentirei di fare sull’ottalogo riguarda l’osservazione che tutti i punti vertono sulla “forma”. E’ vero che potenzialmente tutte le storie possono diventare “epica”, e tutti i personaggi “eroi”; ma senza riflessioni\indicazioni sulla “sostanza”, mi pare che persino un’opera come “Gita al faro” possa in qualche modo rientrare in questa concezione di nuova epica (sia essa italiana o meno). O sbaglio?

  29. Wu Ming1. Vero. Mia amnesia. Copio-incollo i significati inglesi per Pispisa:- )
    1. long narrative poem: a lengthy narrative poem in elevated language celebrating the adventures and achievements of a legendary or traditional hero, e.g. Homer’s Odyssey
    2. elevated narrative poetry: the genre of poetic epics
    This term we’ll cover epic, romance, and allegory.
    3. large-scale production: a work of literature, cinema, television, or theater that is large-scale and expensively produced and often deals with a historical theme
    [Da http://encarta.msn.com/dictionary_/epic.html ]
    P.S. Mi pare che ci stiate dentro tutti, anche Biondillo:- /

  30. Un momento, un momento… 🙂
    Prima cosa: non è un “ottalogo”, non sono comandamenti ma constatazioni a posteriori. Le ho numerate per pura convenienza, ma non sono nemmeno in ordine di importanza e sono anche scritte alla cazzo.

    Seconda cosa: parlando tra di noi su Lipperatura si possono dare alcune cose per risapute (ad esempio che la maggior parte dei romanzi a cui faccio riferimento sono fortemente “politici”), tuttavia anche nei commenti di cui sopra non ne mi sembra di averne fatto una questione di mera “forma” (io comunque sono molto refrattario a vedere come separati contenuto ed espressione). Ho parlato di presa di responsabilità nei confronti di quel che viene scritto (quindi niente scappatoie del genere: “Non lo hai capito che stavo scherzando?”) e di rinnovata fiducia nella parola, e questa non è una questione di forma. Poi c’è la scelta del punto di vista obliquo o addirittura non-umano, che è una questione etica prima che stilistica, infatti ho scritto che mi interessa questo discorso di andare oltre l’antropocentrismo, perché porta a immaginare “il mondo senza di noi”, a vedere le esigenze della nostra specie come relative, non assolute.

    Terza cosa: su cinema ed epica d’accordissimo, e ribadisco una cosa già detta molte volte: Ford, Kurosawa, Leone, Peckinpah, David Lean, Cimino, cioè i grandi “epici” del cinema dai Cinquanta ai Settanta, sono tutti molto amati dagli scrittori che ho menzionato. Però io non sto parlando di epica in generale, ma di una particolare forma di narrazione epica che si è prodotta in letteratura, con gli strumenti e i linguaggi della letteratura, in Italia, in lingua italiana, negli ultimi anni. Non vedo un fenomeno analogo nel cinema italiano recente, e nemmeno nella televisione. E infatti di cinema e tv non esportiamo niente o quasi, mentre i libri vengono tradotti e “Gomorra” finisce nei Top 100 del 2007 secondo il “New York Times”…

  31. Sono più articolate le definizioni del Webster. La n.1 è quasi uguale alla prima che dà Encarta, ma la n.2 dice: “a work of art (as a novel or drama) that resembles or suggests an epic”. E la n.3 dice: “a series of events or body of legend or tradition thought to form the proper subject of an epic” e dà come esempio di utilizzo: “The winning of the West was a great American epic”. Quindi:
    – non è necessario che un epic sia scritto in versi, può essere in prosa;
    – non è necessario che un epic racconti fatti mitici in senso stretto (ossia mai avvenuti), ma può anche narrare eventi storicamente avvenuti (come la conquista del West, appunto), più o meno distanti nel tempo;
    – non è necessario che un epic racconti le gesta individuali di un singolo eroe, ma può riguardare vicissitudini collettive e destini di intere comunità (come avvenne nella conquista del West, infatti).
    Ebbene…
    Opere scritte in prosa che raccontano eventi storici (o di cronaca trascorsa) riguardanti le vicissitudini e le sorti di intere comunità. E con “Epic” ci siamo.
    Opere con queste caratteristiche scritte in Italia. E ci siamo anche con “Italian”.
    Opere con queste caratteristiche pubblicate negli ultimi anni. E ci siamo anche con “New” 😀

  32. Se mi segnali dove sta lo specifico letterario di Travaglio, ne terrò conto al momento della bibliografia ragionata. L’ucronia potenziale è ben evidente: come sarebbe oggi l’Italia se il Berlusca fosse andato in galera nel 1993? Forse difetta un po’ il punto di vista obliquo e inatteso, dato che quello di Travaglio è bello diritto e facilmente indovinabile prima ancora di aprire la nuova uscita di turno. Più interessante il riferimento a Guzzanti, non ci avevo pensato ma “Fascisti su marte”, pur non essendo “epico”, ha una cifra interessante: è parodico e al tempo stesso *deadly* SERIOUS. E’ amaro. E’ eticamente allarmato. E’ sincero. Si prende responsabilità. Prende di petto il fascismo intramontabile (antropologico prima che politico) di questo paese, e lo fa con una premessa ucronica. Insomma, non ha nulla a che vedere col postmodernismo cheap che stigmatizzavo poc’anzi. E a pensarci questa è la cifra di Guzzanti almeno dal “Caso Scafroglia” in avanti. Forse Guzzanti, se non si perde, è uno che potrebbe darci vera, autentica epica nel senso che stiamo discutendo.

  33. “L’odore dei soldi” (imperniato sul cocente interrogativo “Cavaliere, dove ha preso i soldi?”) ha le caratteristiche suggerite dal Webster: 1) è in prosa; 2) racconta un fatto non privo di una sua epicità (The Winnning of Italian Government); 3) riguarda sia un personaggio di grande carisma (il cavaliere MASCARATO), sia il destino di un’intera comunità; 4) è in italiano (e ci siamo anche con Italian)…
    Scherzi a parte, tieni d’occhio il recentissimo “Tutto deve crollare”, dove a parlare, a un certo punto, è addirittura un morto. Ora vado a letto. Nei dì di festa noi alpinisti della domenica abbiamo il vezzo di infliggerci un’alzataccia prima dell’alba:- )

  34. Tarantino insieme a Paul thomas Anderson [ma anche Richard Kelly: donnie darko, southland tales] è uno dei più grandi registi Postmoderni. Death Proof [ad esempio] non è che il manuale sburroso di Postmodernità per eccellenza, quello che io definisco Lo sculettamento del Postmoderno. Poi [ma allora perchè ho commentato??] come disse Bukowski me ne sbatto di una certa macchinosa classicità manifesta e non ho bisogno di urlare “guardami, guardami”.
    Vuoto/pieno vuoto/pieno
    silenzio/dialogo/
    arti impattati/dialogo-

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