ALL PASSION SPENT

Accoccolata sul divano, esamino la pila di libri che ho poggiato sul tappeto. Sfoglio, scorro, metto da parte quelli su cui voglio tornare il prima possibile (Anticorpi di Luisa Stagi, per esempio), ne scelgo uno da leggere subito. Sono incuriosita dall’autore: o meglio, sono curiosa di seguirne le tracce dopo un romanzo su cui mi trovavo in profondo disaccordo (può un lettore essere “in disaccordo” con uno scrittore dal punto di vista della narrazione, oltre che dell’etica? Beh, a me capita: sono i casi in cui mi rifiuto di seguire il cammino a cui vengo invitata, e rimango seduta a guardare. I casi, direbbe una mia amica, in cui le parole tornano ad essere segni neri su carta bianca, e il famigerato patto si stiracchia, si tende e infine esplode come una bolla di sapone).
Non dirò il suo nome, perché questa non è una recensione, ma una notazione senza pretese. Ci siamo incrociati diverse volte, ma abbiamo condiviso lo stesso tavolo in un solo caso, qualche anno fa. Ricordo che quella sera citai un altro scrittore italiano, che amo molto, e che il mio interlocutore, con un sorriso gentile, disse: “Non leggo questa roba”. Ricordo anche di aver sorriso educatamente a mia volta, e di avergli risposto: “E’ un peccato, per te”. Banalità da commensali per caso, niente di rilevante.
Però quella serata mi è tornata in mente mentre leggevo il suo nuovo romanzo, naturalmente apprezzandone l’abilità linguistica, la sapienza con cui alterna/sviscera/rende metafora piccoli episodi e grandi lacerazioni dello spirito, finzione-nella-finzione e finzione-nella-vita.
Ma chiedendomi, contemporaneamente, il senso di un libro del genere.
Chiedendomi, cioè, perché dovrei alzarmi dal mio angolino di lettore cortese ma annoiato, e seguire chi scrive in una narrazione che tale non è, e che è semmai il resoconto narcisistico di un particolare momento della propria particolare esistenza, dove all’introspezione dettagliata si unisce la fotografia di un ambiente asfittico perché piccolissimo, con i nomi che sarà così consolante riconoscere insieme ai tic ben noti e ai rituali comuni a quel centinaio di persone che, forse, si sentono gratificate da un’appartenenza. Da uno status che viene dato per acquisito, e che li garantisce anche quando, forse, non hanno nulla da dire.
E’ la stessa logica (certo, utilizzata con maggiore abilità) che spinge il dirigente Rai a raccontare i corridoi male illuminati di viale Mazzini e l’insegnante a trasformare la sua scuola in modello narrativo. Quattro pareti. O, più spesso, le pareti tonde e lisce di un pozzo, dal cui fondo non si alza neanche lo sguardo per cercare di descrivere le fasi lunari o le costellazioni. Uno sguardo orizzontale che non cerca altro che il proprio riflesso.
Mi fa sognare, chi mi invita a guardare da quella prospettiva? No. Mi rivela qualcosa che non so guidando i miei passi fra realtà e immaginario? Nemmeno. Mi invita soltanto ad entrare nella sua vita. Ed io mi chiedo perché dovrei, se nella sua richiesta trovo compiacimento, e forse arroganza, ma nulla che io possa condividere.
Nota a margine.
Qualche giorno fa ho telefonato a un amico: ci siamo raccontati, quasi simultaneamente, il senso di due interventi effettuati in ambiti diversissimi e che riguardavano, però, la stessa tematica. Abbiamo scoperto di aver usato, infine, la stessa parola: passione. Stavo aspettando un autobus sotto la pioggia, mi sono messa a ridere e ho pensato che era bello non sentirsi soli.
C’entra e non c’entra. E se questa fosse la pagina di un libro di narrativa, e non la schermata di un computer, avreste dovuto chiuderla, sbuffando.

34 pensieri su “ALL PASSION SPENT

  1. Be’, intanto è una donna (“mi sono messa a ridere”). Quindi niente “Dalla parte delle donnine”, stavolta. Confesso che, per un istante, ho temuto ti riferissi a Walter Siti, poi ho capito che sarebbe stato troppo GRAVE da parte tua attaccare un omino così:- )

  2. Giurerei di aver letto le parole “Un esempio”, anziché “Nota a margine”, poco fa. Hai ritoccato il testo, per caso, giocherellona? Oppure sono io che sto de-lirando (uscendo “de lira” = dal solco).

  3. “l’abilità linguistica, la sapienza con cui alterna/sviscera/rende metafora piccoli episodi e grandi lacerazioni dello spirito, finzione-nella-finzione e finzione-nella-vita”.
    E da qui si capisce che il misterioso scrittore-commensale era Montaigne.

  4. No, ho ritoccato dopo il tuo intervento, Lucio, perchè mi sono resa conto che “per esempio” poteva essere frainteso: io intendevo fare l’esempio del qualcosa-che-manca, tu hai inteso come un esempio tratto dal libro in questione.
    Mica sono Montaigne, io.
    (Luca, non sono neanche così vecchia, peraltro)

  5. … è semmai il resoconto narcisistico di un particolare momento della propria particolare esistenza, dove all’introspezione dettagliata si unisce la fotografia di un ambiente asfittico perché piccolissimo,…
    porca miseria. loredana, non stai parlando di un libro solo, stai parlando di 3/4 della narrativa italiana degli ultimi 30 anni
    e temo che tu abbia ragione
    o per lo meno ci sto pensando

  6. Ma non sei tu a essere vecchia, è Montaigne che si è fatto prendere la mano dall’aura d’immortalità che lo circonda.

  7. In effetti gli scrittori ombelicali dopo un po’ li chiudi con la sensazione di aver perso tempo; a me capita di arrabbiarmi quando sai che chi scrive è capace di ben altro, ma si accontenta (forse per contratto, forse perché ha bisogno di due euro) di quel che gravita attorno al proprio ombelico.

  8. Credo di aver capito di chi parli. Condivido quanto dici, sarà in forma di narrazione ma non è e non può essere coniderata narrativa né fiction…

  9. uh – ma nun era che l’ombecalità era una categoria trasversale, dissimulata solo dai più furbi? tipo flaubert: madame bovarì so’ io.
    allora questo qui non è tanto furbo e mi sa anche virante alla patologia.
    Un problema.
    Il nome
    Che ne so, tipo gioco dell’impiccato che ci dici di quante lettere? l’iniziale?
    va beh, niente giocavo:)

  10. Sono divorata dalla curiosità! Chi sarà questo scrittore altezzoso e narciso? Anche Proust lo era a pensarci, ombelicale e sprezzante…

  11. Ma certo che Proust era ombelicale e sprezzante: ma una cosa è partire dalla propria esistenza (e chi non ci parte?) per arrivare ad una narrazione in cui ogni lettore possa riconoscersi, o comunque possa partecipare alla narrazione medesima. Alzare lo sguardo dal fondo del pozzo, insomma. Un’altra è chiudere il racconto su se stessi…

  12. che bello questo tuo post, così colloquiale, intimo. sono quelli che preferisco, quando smetti gli abiti della paladina del genere (sessuale e letterario) e ti racconti. non m’importa tanto sapere chi è l’autore che ritrai, in fondo è una categoria esistenziale, una tipologia di idiota che si ritrova anche in ambienti diversi dalla scrittura.

  13. Ma che è tutto questo mistero? Sembra costruito ad arte per fare abboccare qualche pescione intontito della rete!

  14. Ciao Loredana,
    sul nome del misterioso autore del romanzo che stai leggendo hai fatto venire la curiosità anche a me.
    Tra un po’ partiranno le scommesse.
    🙂
    Stavo aspettando un autobus sotto la pioggia, mi sono messa a ridere e ho pensato che era bello non sentirsi soli.
    Bella, la nota a margine.

  15. “che bello questo tuo post, così colloquiale, intimo. sono quelli che preferisco, quando smetti gli abiti della paladina del genere (sessuale e letterario) e ti racconti.”
    Sottoscrivo, 10 e lode ai toni di questo post.
    Poi, non so.
    Non so se è peggio uno scrittore abile linguisticamente ma arrotolato su se stesso, o un profondo d’animo e grande trasmettitore di passioni, ma con una scrittura piatta a scarna.
    Per la lettura dico.

  16. Più che viltà, a me sembra sensibilità, desiderio di non personalizzare e di tutelare una persona.
    Mi sembra che Loredana non se la prenda tanto con l’autore “misterioso”, ma con un sottogenere alle cui tentazioni la letteratura italiana soggiace un po’ troppo spesso, ossia il sottogenere-“letteratura” introspettivo e asmatico, autobiografico in senso “pianerottolare”, della serie: “mi crogiolo nei cazzi miei in pubblico”. Vero, lo faceva anche Proust, ma in Proust il crogiolarsi è solo il punto di partenza, su quella base di esperienze intime e ricordi si costruisce una grande narrazione che parla a tutti, narrazione il cui nucleo duro poetico resiste al tempo e alle epoche.
    Il fatto che questo scrittore abbia (presuntamente, perché non so nemmeno chi sia) prodotto un intingolo intimista di quelli che abbiam visto mille volte non significa che i casi personali da cui è partito non siano reali e sentiti e persino dolorosi, non significa che non sia sincero nel tentativo di raccontarli, ma soltanto che non riesce a ottenere da questo un discorso che interessi e tocchi gli altri (o almeno non Loredana, ecco).
    Da qui la scelta di non ferirlo, di non metterlo alla berlina, di prendere il suo libro come exemplum di una tendenza generale. Oltre al fatto che, a sentire Loredana, quest’autore ostenta anche snobismi e razzismi nei confronti di progetti letterari diversi dal suo, il che è tipico di chi pratica il sottogenere-“letteratura”…
    Non capisco, avreste preferito un’alzata di polverone, avreste preferito la gogna in piazza, “Tal dei Tali è uno scrittore di merda” etc.?

  17. no, wu ming 1, per carità. è che per me è un pour parler se non so nemmeno di chi stiamo trattando. tutti nei commenti hanno iniziato a scagliarsi contro un genere di cui io però non conosco i rappresentanti, potrei dissentire magari, se nessuno mi dice qual è l’oggetto del discorso parlo per generalizzazioni e per pregiudizi e per me è inutile, sterile, un po’ da bar. mi capisci?
    ombelicale secondo me è un termine ultrasuperato. solo nel cinema tendono a usarlo ancora come sinonimo di autoriale (mi è capitato a una cena con registi di sentirlo ed ero sconvolta). è grazie a gente come voi, i wu ming dico, che autoriale ha perso la sua accezione snob, ed è anche per qst che vi stimo. ma voi parlate sempre chiaro, con nomi e cognomi. perché tutelare? chi scrive si espone. che qst autore non piaccia a loredana non vuol dire che non possa piacere a te o a me. se ha pubblicato può non stare a sentire che si dice di lui, ma mica sentirsi non tutelato di fronte alle opinioni.
    poi secondo me c’è una confusione: parlare di storie piccole o chiuse in spazi chiusi come le case diventa automaticamente autobiografia. ma chi lo ha detto? ci sono persone a cui piace scrivere e leggere storie che non fanno sognare e non insegnano e non costruiscono mondi nuovi. che prendono porzioni di reale e come uno zoom li ingigantiscono fino a farne vedere le deformità. non parto dal presupposto che uno mi racconti i cazzi suoi oppure inventi. non me ne frega nulla. mi interessa il modo in cui la lingua e lo sguardo riescono ad aprire varchi laddove tutto sembra già esaurito, dato per definito. scontato.
    non me ne frega se poi lo scrittore è narcisista, arrogante, me ne sbatto di lui, capisci? se non lo capite voi che avete un nome collettivo! è l’opera che mi muove. anche coi suoi difetti. se penso, per esempio, ai film italiani recenti, trovo che cover boy sia un buon film. racconta una storia piccola, e un rapporto di amicizia dentro una roma vera. la struttura è cedevole, alcune trovate narrativamente non funzionano, ma quella casa “scabra”, quelle brandine e quei corpi di giovani, un rumeno e un abruzzese, dentro roma (una roma che non vedi se non DA quella cosa, eppure così autentica, rispetto ai film di e con nanni moretti – che io peraltro una volta amavo), mi commuove, mi commuove più di qualunque altra storia grande e importante e immaginifica ed epica e nuova.

  18. Zohaira, in genere non mi frega nulla del narcisismo e dell’arroganza di un autore, basta stargli alla larga e nel caso vedere se le sue opere invece meritano, se quelle opere vanno oltre chi le ha scritte, il che certo non scusa l’arroganza ma aiuta a capire che non è tutto, a vederla come elemento di una contraddizione interessante. Al contrario, arroganza e narcisismo di un autore mi sono di evidente ostacolo se la sua opera si esaurisce nella rappresentazione di quel narcisismo e di quell’arroganza, come ad esempio accade in tutti i libri scritti da Aldo Busi negli ultimi vent’anni. Per dire, Carmelo Bene era senz’altro una persona sgradevole, anzi, mi spingerei a definirlo anche in modo peggiore, era un individuo con cui non avrei mai voluto condividere un ascensore o trascorrere nemmeno uno scampolo di serata. Però quello che faceva come drammaturgo e macchina attoriale andava molto oltre, e oggi il suo lavoro rimane ed è utile. Il suo lavoro è “altruista”, cosa che lui in vita non riuscì mai a essere. Questo aiuta, aiuta molto.
    Per il resto, è verissimo che ci sono autori che prendono piccole storie e ambientazioni asfittiche e, come dici tu, “come uno zoom le ingigantiscono per farne vedere le deformità”. Però, appunto: le ingigantiscono. Le trasformano in qualcosa di grande. E ne fanno vedere le deformità, cioè gettano uno sguardo non conciliato. Penso a “L’anno luce” di Genna, che è al tempo stesso “intimista” e di ampio respiro, neo-borghese e universale, parte da storie di corna tra manager milanesi e arriva ai destini del pianeta e della specie. E’ un libro che ho amato e che amo molto. Ma quante volte lo hai visto accadere, questo, nel minimalismo e nell’autobiografismo de noantri?

  19. sì sì, infatti io non l’attribuivo a te! ma nei commenti è stata usata considerandola “in tema”, capisci?
    mi trovi d’accordo.
    lo sguardo non conciliato è la chiave, appunto.
    ma c’è una miopia di fondo che spesso – anche a loredana, mi dispiace – sembra non consentire di andare oltre e verificare quello sguardo, per colpa di di un pregiudizio.
    ma adesso sono io che faccio illazioni, e quindi mi scuso, e mi ritiro.
    ciao!

  20. Ringrazio Roberto per aver perfettamente compreso il motivo per cui non ho fatto il nome di questo scrittore: nessun desiderio di istigare una caccia all’uomo, ma, semplicemente, l’intenzione di non interferire nel giudizio che verrà dato sul suo romanzo con una stroncatura. Peraltro, mi sembra di aver scritto, nei primissimi post di questo blog, che le stroncature non mi interessano. Mi interessa, invece, interrogarmi su un atteggiamento comune a diversi autori e che personalmente mi lascia fredda (specie quando è accompagnato, nei loro testi – quel che avviene fuori è affar loro – dall’autocelebrazione del loro essere scrittori e dal racconto del mondo piccolo dell’editoria italiana).
    Quanto al pregiudizio di cui parla Zohaira: possibile, naturalmente. Molti di noi sono condizionati dal proprio desiderio di lettori e dalla voglia di trovare un’affinità con ciò che leggono. Credo sia alquanto normale.
    Posso però assicurarti che ho letto il libro, dalla prima all’ultima pagina, proprio per cercare di vanificare il pregiudizio medesimo. Probabilmente mi esprimo male, e vengo spesso fraintesa da te per mia incapacità: sembra che io voglia soltanto storie di un certo tipo. Non è così. Non avrei letto e amato autori che hanno raccontato proprio quei mondi piccoli che però consentivano di aprire i varchi di cui parli.
    Qui, credimi, il varco non l’ho visto. Può essere un mio limite di lettrice. Può essere anche un limite di chi ha scritto. Non pretendo di diffondere verità, e difatti ho parlato di notazioni e sensazioni personali, non di giudizio critico.

  21. credo che esplicitare il nome dell’autore non avrebbe interferito in nessun modo col giudizio del lettore sul nuovo libro di covacich, autore che sa partire dall’autobiografico per raccontare con mezzi letterari notevoli una storia in cui tutti possono riconoscersi. non ho ancora letto “prima di sparire”, ma ho apprezzato molto i suoi precedenti romanzi.
    ci si può confrontare sulla propria idea di letteratura serenamente, secondo me, anche quando agli antipodi, mentre un post così scatena comunque il gioco della caccia all’uomo, gioco che per chi conosce un po’ la narrativa italiana si esaurisce subito.

  22. stefano,
    anche io ho pensato subito a covacich, e stanotte ho preso in mano Prima di sparire per verificarlo. è bastata la prima pagina per capire che era lui. avevo pensato di venire qui senza fare il nome, perché è evidente che loredana non voleva farlo, ma l’hai fatto prima tu.
    io non ho letto i suoi libri precedenti, quindi non posso fare un discorso generalizzato. ma devo dire che leggendo una trentina di pagine di questo (per poi passare irrimediabilmente ad altro!), ho capito che cosa loredana volesse dire.
    il problema non è, secondo me, da dove parti. puoi raccontare una storia piccola che parla dell’amore tra due adolescenti “suburban” e scrivere un capolavoro, per esempio. ce n’è uno in questo momento in libreria (ma non è scritto da un italiano).
    puoi parlare dell’amore e dell’amicizia, di madri e figlie, di padri assenti, di gente che si taglia le mani e di anoressici (e magari ne viene fuori un libro sorprendente come quello di giordano), usare i temi più inflazionati eppure riuscire ad aprire squarci o minimi spiragli di sguardo.
    la questione è anche la lingua. la struttura.
    io trovo che questa lingua non sia niente di speciale. che questa struttura sia troppo aderente, mimetica, domestica: ma non è lo spazio che occupano i personaggi, è lo spazio della pagina che è domestico. forse covacich voleva cercare di darci anche l’idea di come funziona un certo mondo, quello televisivo ad es., ma lui non è walter siti (“come tutti”), e quello che ne viene fuori è solo una sgradevole sensazione di autocelebrazione, naif e anche un po’ ridicola se si pensa che, appunto, lui non è un autore davvero celebre.
    questa è davvero la sensazione più sgradevole, che un editor avrebbe dovuto attenuare.
    invece, quando descrive la contraddizione, il dolore che si prova quando ami due persone contemporaneamente, di amori diversi, quando ti senti proiettato verso una fuga e una forza centripeta ti blocca, in quello lui riesce meglio. e sinceramente quello è un tema che a me interessa.
    ma le pagine che ho letto lo hanno offuscato con “ho viaggiato per vanity fair, per gq, per…”, “c’è un mio testo all’ambra jovinelli e in altre 20 sale”, insomma: che cazzo ce ne frega, a ma’?
    io credo nel linguaggio. nel modo in cui le parole vengono distribuite sulla pagina. possono dire cose già dette eppure, se inedita, sapiente, quella associazione di parole, quella lingua e quella struttura, produrranno lo stesso una visione nuova, sempre. anche se si parla di galline che fanno l’uovo.
    non capita qui.

  23. Volevo uscirmene con un elegantissimo: Ma insomma, chi sarebbe ‘st’autore?, ma vedo che molto probabilmente lo avete già individuato, e spubblicato – prendendo la mano alla Lore che non intendeva farne il nome: non è suo dopotutto questo blog?, e non si poteva rispettare il suo desiderio di non fare quel nome, salvo farle cambiare idea e aspettare che appunto a fare quel nome fosse lei, cioè la padrona di casa?
    Oggi ho seri problemi a entrare nell’amministrazione del mio blog, mi si para davanti ‘sto benedetto Apache Tomcat 5.5.2.: che roba è?
    Sarà pure un cazzo personale, ma diventa subito (direi quasi: automaticamente) pubblico e comune nel momento in cui io non riesco a scrivere il mio blog, cioè patrimonio che vi propongo appunto in condivisione, ed è per me una palestra di scrittura che ha senso per me solo se mi mette in contatto con voi.
    La scrittura, più che mai la letteratura, è un’azione pubblica, addirittura per me un’azione politica.
    Comunque per la soluzione dell’impedimento tecnico non potrò far altro che implorare aiuto presso lo staff tecnico, appunto, di kataweb. Ciò che mi accingo a fare.
    Buona giornata a Lore e a tutti voi.

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