ALL PASSION SPENT

Fra le molte altre cose che Guido Chiesa scrive su Carmilla, c’è una riflessione, per altro non nuova a chi abbia seguito il dibattito sul NIE  qui e altrove:
Il post-moderno aveva decretato che tutto era già stato detto, la storia era finita e l’unica cosa che ci rimaneva da fare era “giocare” con i pezzi del passato, con ironia e stile. Oggi siamo oltre, siamo alla gelida affermazione che l’apocalisse è in corso e che l’unica cosa che ci rimane è narrarla con gusto, senza illudersi di fermarla, ma neanche provando a interpretarla.
Uso il passaggio per calare un ulteriore tesserina del domino (e non perchè pensi che la discussione di questa settimana sia volta a dimostrare qualcosa: non è necessario avere sempre una meta, nei viaggi che si intraprendono). Nei commenti al post di ieri, qualcuno citava la lingua come fattore di separazione e come elemento “magico” in grado di coinvolgere, emozionare, “salvare”, anche.
Non so se condivido l’ultima accezione: non so, cioè, se davvero le storie possano salvare il mondo. Mi sbilancio, invece, in favore di un altro fattore, che precede, a mio parere, quello linguistico.
Passione.
E non è affatto banale. Non la trovo così frequentemente, nei libri che mi sono davanti: trovo spesso il mestiere, a volte il meccanismo, spessissimo gli automatismi. Per quanto possa sembrare odioso dirlo, e so bene che lo è, ci sono libri che apro, leggo, richiudo chiedendomi se almeno all’autore abbiano in qualche modo giovato, se gli abbiano portato una qualunque emozione mentre li scriveva.
Non vale soltanto per i libri, naturalmente: è soltanto per ribadire che scrivere non è necessariamente un gesto salvifico. E leggere neppure. Dipende, come sempre.
Ps. Segnalazione di servizio: nasce il primo archivio videludico italiano. Notizie sul blog di Giovanna Cosenza.
Pps. La segnalazione non è casuale.

38 pensieri su “ALL PASSION SPENT

  1. Condivido e rilancio. Chi vanta attenzione alla lingua, di solito, non mi convince: nè come scrittore, nè come critico, e a volte neanche come persona (avrò avuto sfiga, ma sai com’è). Mi dà l’idea di un meccanico che forse non sa riparare la macchina, però oh!, come luccicano i suoi cacciavite.
    Epperò. Uno dei romanzi che ho amato negli ultimi anni, “Casa di Foglie”, fa un lavoro sulla lingua interessantissimo. E lo fa un altro mio mito, “Le tredici vite e mezzo del Capitano Orso Blu”. Ma non è un lavoro fine a se stesso, è legato alla storia, è legato ai personaggi, diverte, appassiona (e produce best seller – forse il ‘popolo’ non è così bue come i Colti vorrebbero credere?). E sulla lingua, notavi giustamente tu, lavora Stephen King. Ci lavora moltissimo Thomas Ligotti. E che dire di Clive Barker, che con Abarat sta costruendo forse IL capolavoro fantasy di passaggio di millennio? Questi sono tutti scrittori viscerali, gente che fa page-turner e ti pesta con suoni, odori, sesso e sapori. Non lavorano sulla teoria, cercano, in pratica, di far funzionare la macchina. Dico una cosa grossa: qualsiasi altra esigenza, qualsiasi altra pretesa, è non solo vaga, peggio, è disonesta.
    A me le feste piacciono più delle messe – un bel libro deve farmi ballare, mentre di esser salvato, grazie tante, non ho voglia. Meglio andare con Samuel Clemens dove la compagnia è buona.

  2. Le solite baggianate sul Postmoderno: “Il post-moderno aveva decretato che tutto era già stato detto, la storia era finita e l’unica cosa che ci rimaneva da fare era “giocare” con i pezzi del passato, con ironia e stile.” Ma quando mai????? Ma CHI l’ha detto??? Qualche self-promoting cavaliere del NIE, probabilmente.

  3. D’accordo con Francesco.
    Anche a me chi lavora sulla lingua non mi piace e mi sembra uno scrittore saccente e senza passione…
    Proust, Kafka, Philip Roth, Walter Siti, Aldo Busi, Eugenio Montale, Flaubert, Garcia Marquez, Tommaso Landolfi, Cervantes, Rabelais, Fenoglio, David F. Wallace, Céline, Saul Bellow, Carver, Michele Mari, Nabokov, Bret E. Ellis, Faulkner, Hemingway, Fitgerald, Scerbanenco, Fruttero & Lucentini, Harper Lee, Truman Capote, William Burroughs, Aldo Busi, Mario Soldati, Kurt Vonnegut, Chandler…
    Li vogliamo buttare tutti definitivamente via in un bidone della monnezza, questi scrittori qua? Che dici?
    E poi, certo, ci sono quelli che, con la scusa della lingua, spacciano il falso senza passione. Su questo d’accordo con Lipperini. Ad esempio, a mio parere, uno di quest e Erri De Luca.
    Però, davvero, non generalizziamo in questo modo. Facciamo del male a noi stessi…
    Francesco, non te la prendere, davvero: è chiaro che sto esasperando quello che dici. Prendila come una chiacchiera amichevole. Solo che… come dire… a me piace pure Thomas Ligotti (l’ho letto in originale e mi sembra decisamente bravo), ma davvero tu ritieni che ci sia qualcosa di male a dire che “Cent’anni di solitudine” sia più bello e importante e più pieno di passione di “Songs of a Dead Dreamer”?
    O c’è qualcosa di sbagliato nel dire che “Quarto potere” è stato più importante del pur bello (l’ho visto tre volte di seguito e mi è piaciuto un sacco) “Ratatouille”?

  4. Non so se l’affermazione di Chiesa sull’apocalisse in corso sia una metafora, ma in tutti i casi non la condivido molto. D’accordo con Loredana quando dubita della natura salvifica delle storie, ma che abbiano la possibilità di influenzare gli uomini che poi nel mondo si troveranno ad agire mi sembra indubbio.
    E’ proprio parlare di apocalisse che non mi piace, in questo contesto in cui si parla di uomini: cosa può portare alla distruzione dell’umanità, a parte la decisione di un eventuale dio o la fine dell sole tra cinque miliardi di anni? Un meteorite che colpisce la terra, eventualità che nessuno può impedire, tranne forse proprio gli uomini, se investissero in una tecnologia adeguata. Tutte le altre calamità naturali non possono, in un colpo, uccidere miliardi di uomini, se non ce l’hanno fatta nei secoli scorsi. Allora l’apocalisse di cui si parla deve essere causata dagli uomini? Idiozie: l’arma perfetta non c’è ancora, e se anche immaginassimo un conflitto o una crisi in grado di sterminare due terzi della popolazione mondiale… beh, proprio questo crollo demografico garantirebbe la sopravvivenza dell’umanità per altri secoli in un mondo che, all’improvviso, ha di nuovo risorse per tutti.
    Insomma, l’apocalisse è un concetto limite, che non può essere causato dagli uomini; solo dalla natura, con il meteorite, ma di fronte a una fine del mondo così a che serve la letteratura? A consolarsi negli ultimi istanti prima di sparire tutti in un vuoto senza memoria? Ma non credo che il NIE sia narrativa consolatoria.
    Forse è l’idea di “salvare il mondo” che è sbagliata, frutto della stessa arroganza positivista che nonostante tutte le smentite è dura a morire. Il saggio iniziale sul NIE è stato scritto da Wu Ming 1, e i WM hanno sempre e dichiaratamente ambientato i loro romanzi in momenti cruciali della storia, in cui tante strade erano aperte e c’erano diversi mondi possibili a seconda delle scelte: ed è così che vedo anche il momento storico attuale, una crisi che offre un bivio, con la scelta sulla strada da prendere ancora aperta. La letteratura non può imporre la strada da seguire, ma può raccontare storie che facciano riflettere i lettori, instillare dubbi, spingerli a vedere con occhi diversi anche la vita quotidiana e, di conseguenza, le scelte da fare. Ma se parliamo invece di apocalisse allora neghiamo l’esistenza di più possibilità, diamo per scontato che le scelte sono già state fatte e la meta è unica e inevitabile. E allora a cosa serve la letteratura?
    Parlare di apocalisse secondo me fa sembrare prossima la fine della civiltà che è sì inevitabile, ma che WM1 pone in un futuro remoto, abbastanza lontano da permetterci di “estinguerci con dignità”, ovvero di cambiare noi stessi. L’apocalisse, invece, nega il cambiamento. E “narrare con gusto” l’inevitabile mi sembra una frase molto vuota.

  5. Ma cavolo, non è che lo do per scontato. E non è neanche una questione di de gustibus… E’ solo che mi sembra chiaro (mo’, il povero Ligotti mi dispiace farlo diventare la pietra di paragone…) che Garcia Marquez è stato per il mondo, per il nostro immaginario etc. etc. più importante e seminale di Ligotti. Come, che so, Caravaggio lo è stato per tanti suoi contemporanei o epigoni successivi – ha segnato un passo avanti; come gli impressionisti, come Picasso etc.
    Ed effettivamente, non è neanche questione solo di lingua, ma di passione, immaginazione, genio creativo etc.
    Per esempio… che Philip Dick scrive bene? No, non mi sembra. Eppure è un grande, un genio, ha fondato un intero immaginario, da cui tutti oggi ci abbeveriamo (senza “Ubik”, tanto per dire, col cavolo che ci sarebbe potuto essere “Matrix”).
    Stephen King, pure… scrittura elegante o meno, ha fondato un immaginario. Non è tra i miei preferiti, ma non ci metto niente ad ammetterlo: è così chiaro…
    Insomma… ci sono quelli bravi (e tanto di cappello).
    E poi ci sono i geni, quelli che segnano un passo avanti nella storia della cultura umana (musica, fumetto, letteratura etc.) Ammettere questo, non va a detrimento di chi fa un buon lavoro, ma non deve neanche fare torto a questi giganti. Capisco che danno fastidio – ma perché non limitare a rendere a cesare quel che è di cesare anziché sentirci sminuiti noi al loro cospetto? Mamma mia, quanto narcisismo…
    Alla fine il succo è questo:
    Un mondo senza Ligotti è insomma immaginabile.
    Ma un mondo senza Peanuts o senza Macbeth mi dispiace, ma non lo è più. Cioè non è più immaginabile perché ne siamo pregni, sono cose entrate nel nostro dna, che lo vogliamo o meno, e sia che li abbiamo letti sia che non li abbiamo letti.
    E’ questo che volevo dire. Sperando di non averti fatto arrabbiare ancora (ma poi perché siete tutti così nervosi?)

  6. Marco,
    “Stephen King, pure… scrittura elegante o meno, ha fondato un immaginario. Non è tra i miei preferiti, ma non ci metto niente ad ammetterlo: è così chiaro…”
    comunque è una lingua per così dire ‘prensile’ come poche, e forse questo dipende dalla sua semplicità, che si rivela plasticità (una semplicità ottenuta lavorando, è chiaro). Prensile di che? della realtà.
    Poi lui è vero ci caccia dentro il soprannaturale, ma a volte gli riesce meravigliosamente bene, e appunto diventa un costruttore di immaginario. Se non fosse così Kubrick non l’avrebbe preso in considerazione.
    Oh, quella citazione di Guido Chiesa sembra uscito dal libro intervista a Carla Benedetti (ed Coniglio), anzi secondo me esce proprio da lì, e direttamente o di rimbalzo è arrivato a Chiesa.

  7. No, no – io mi esprimo un po’ così perchè lo trovo divertente, ma non mi arrabbio per niente, anzi! Quindi, avanti con coraggio.
    Quello dell’influenza sull’immaginario è un discorso che riesco a capire. Ma. Una risposta che volevo darti l’ha già data Barbieri. Un’altra è che in questo discorso spesso ci si caccia dentro una presupposizione: ‘influenza l’immaginario chi piace a me’. Esempio: tu ci metti dentro Busi. Busi? Scherziamo? Ma chi è, Aldo Busi, al di fuori di un ristretto circolo di persone?
    Faccio outing: a me Busi mi fa schifo, lo considero un pessimo scrittore, tecnicamente misero, narrativamente tapino – uno spreco di carta e spazio. Una volta ebbi una breve discussione con lui e lo trovai, anche di persona, superficiale, arrogante e interessante quanto un ciocco di legno. Nello specifico, sparava a zero sul Signore degli Anelli. Lui. Cioè, non so se mi spiego.
    Ora, il Signore degli Anelli ha più influenza sull’immaginario contemporaneo di quanto Aldo Busi possa mai averne. Per non parlare di D&D: si può piangere per la fine della Grande Letteratura, ma D&D ha formato più gente di Aldo Busi. Su questo, mi pare, siamo tutti d’accordo, apocalittici, integrati e Terza Via.
    Ma non è che D&D mi piace per questo (per dirla tutta, poi, D&D non lo gioco da più di dieci anni). Mi piace per altri motivi.
    Quello che non condivido dei tuoi interventi (che non condivido io, sia chiaro, nessuna pretesa di Verità) è che troppo spesso ‘salti’ tra piani – da quello semiotico a quello valutativo, da quello sociologico a quello valutativo. I piani sono piani. Trattiamoli con rigore. Che poi, anche con rigore si possono dire frescacce, ma almeno si diminuisce il rischio.
    Il tentativo del post era, mi pare, di interrogarsi sul ruolo della passione nello scrivere e nel leggere – una cosa molto più barthesiana che sociologica.
    Allora, se mi dici che linguisticamente Cent’anni è ‘superiore’ a Teatro Grottesco, rispondo: da un punto di vista semiotico, questa frase non ha molto senso. Se mi dici che è superiore perchè ha ‘più influenza sull’immaginario’, rispondo: allora D&D è di molto superiore a Cent’anni. E pensa che Cent’anni mi piace più sia di D&D che di Teatro Grottesco!
    Ma, davvero, ho la sensazione che la nostra sia una differenza, come dire, cosmologica, di approccio con il mondo…

  8. Credo di sì, hai ragione: c’è una differenza di approccio tra noi due.
    Piccola puntualizzazione: non ho detto che Busi lo considero un gigante della cultura mondiale – mi sembra un bravo scrittore (nei suoi primi libri) che lavora molto sulla lingua.
    Quando parlavo di giganti, tiravo in ballo invece Dick, King, G Marquez, Charles Schultz, Picasso ecc.
    A ogni modo credo ci sia spazio per tutti. Poi, davvero, ai posteri l’ardua sentenza.
    Un ultimo consiglio: andatevi a vedere le classifiche di vendita di libri di trenta, quaranta, cinquant’anni fa e così via. Troverete qualche Best seller ancora oggi considerato un libro fondamentale. E tantissimi altri Best seller che all’epoca sembravano aver spostato le montagne (di fatto erano stati acquistati da milioni di persone, e spesso si trattava di libri fatti bene e godibilissimi) ma di cui oggi si è persa completamente memoria.
    Può darsi che fra cent’anni “D&D” sarà considerato un contributo culturale più importante di “Cent’anni di solitudine”. Può darsi il contrario. Io – per l’idea che mi sono fatto del mondo – scommetterei su Garcia Marquez. La cosa divertente è che, se io e tu (Francesco) facciamo questa scommessa, non potremo comunque vivere così a lungo per capire chi ha vinto, e nessuno potrà offrire in perfetta lealtà una birra all’altro. Credo questo dica molto sulla nostra piccolezza di uomini. Vabbe’, siamo fatti così. Prosit lo stesso, un brindisi virtuale per quando non ci saremo più. E statti bene, davvero.

  9. Occhio che D&D non è un bestseller – va avanti dal 1974. E se parliamo di immaginario, per definizione non ha a che fare con la memoria cosciente (lacaniani, battete un colpo!): quindi, magari, quei bestseller che non ricordiamo, l’hanno influenzato eccome, il nostro immaginario. Quando Max Weber voleva studiare l’etica protestante ‘reale’, si andava a prendere fogliacci dimenticati, non testi teologici.
    Però si, mi piace molto quello che dici sul fatto che ‘il bello è che non potremmo saperlo’. Ottimo motivo per starsene a brindare e fare quello che ci procura piacere. E si torna a bomba, al post da cui tutto è cominciato…

  10. Sono d’accordo con l’affermazione da cui nasce il post, ma con qualche puntualizzazione. Il termine “postmoderno” in Italia è stato usato in modi diversi, senza grande controllo: spesso (penso alla cosiddetta “seconda generazione” di scrittori postmoderni di cui parlava Luperini, quelli disimpegnati, privi di rapporto con la tradizione, ecc.) è stato un contenitore buono per metterci dentro tutto quello che nasceva da una certa data in poi. I filosofi italiano che hanno inventato il “pensiero debole”, in fondo, non hanno fatto che mettere un’etichetta diversa su un prodotto che altri chiamavano “postmoderno”: e in quel caso (rispondo a “e vai con la censura”) la citazione di Chiesa è quasi letterale. Mentre Lyotard usava il “postmoderno” per indicare i margini di una cesura, più che i tratti di uno stile culturale. E David Foster Wallace, pur criticando la letteratura postmoderna americana, le riconosce il tentativo, fallito, di intraprendere una battaglia culturale, battaglia che in Italia ha qualche assonanza con le posizioni della Rivista Tabard. Insomma, questa parola finisce con l’essere un ombrello semantico troppo ampio. Nel manifesto di WM1 “postmoderno” è usato in modo univoco, e designa proprio quelle posizioni di passività (di nichilismo passivo, se mi passate l’espressione) verso l’esistente, collocate in un preciso frangente temporale, verso le quali il NIE costituisce una rottura. Rottura che non significa assumere una posizione uguale e contraria rispetto alla falsa alternativa tra lingua e trame, anzi (ma chi l’ha detto che l’attenzione alle trame è incompatibile col lavoro sulla lingua?). Cos’ come critica del postmoderno non significa condividere l’idea che tutto è solo postmoderno, interpretazione ermeneutica, narrazione della narrazione, ecc.
    Lo stesso vale per il termine “apocalisse”: c’è un uso quasi consolatorio di questo termine, come se bastasse trovare la parola “giusta” rispetto a ciò che accade per sentirsi a posto; e c’è un uso forte, di denuncia, quasi performativo, come nei romanzi di Alan D. Altieri, o in certi libri di King come L’ombra dello scorpione.

  11. Spiegatemi però com’è possibile scrivere senza “lavorare sulla lingua”. Si può raccontare una storia senza preoccuparsi di scegliere le parole giuste e il modo giusto di metterle sulla pagina, senza interrogarsi sull’effetto che quelle parole avranno? Nessuno scrittore prescinde da questo. Che poi nel farlo si dimostri abile o inadeguato, creativo o derivativo, sincero o disonesto, questo è aperto alle interpretazioni, ma è un altro piano.
    D’altro canto, esiste una scrittura in prosa (limitiamoci alla prosa, per non allargare troppo il campo) che non contenga racconto? Ho molti dubbi al riguardo. Anche Joyce nell’Ulisse racconta, come c’è racconto in Mafarka il futurista, in Horcynys Horca, nei Canti del caos etc.

  12. La lingua che parliamo oggi è una lingua artificiale, fissata dalla scuola in strutture ed espressioni istituzionalizzate, è anche per questo che gli autori contemporanei che suscitano passione in gran parte la destrutturano o si rivolgono ai gerghi e li traducono in narrazione.
    Questo fatto io credo che dipenda dalla scolarizzazione e dalla fine sostanziale dei dialetti, lingue vive, da cui la letteratura prendeva forza ed espressione e contributi per arricchire la lingua comune, ogni libro importante ha stabilito un riferimento per la lingua e una tappa nella sua storia.
    In questo senso il lavoro sulla lingua era e forse è ancora uno dei meccanismi fondamentali della scrittura.
    Certo che quando diventa il tema della scrittura, o è un saggio o è noiosa.
    Una letteratura che si nutre della sola lingua scolastica è destinata alla tragica inedia postmoderna, oppure spacca i banchi, ma quando ogni finestra sarà rotta e non ci saranno più sedie per sedersi, quando ogni lavagna sarà inservibile cosa racconterà?

  13. Temo alla fine di non aver capito il senso del post. Al postmoderno ho dato pochissimo retta, se non per quanto mi è stato utile come chiave di lettura di un mondo e dei suoi oggetti, ma esiste una specie di entusiastica ideologia del postmoderno, che trovo giovanilistica e superficiale da cui mi tengo fuori – senza troppa fatica. Mi basta un solo morto per farne a meno.
    Eppure, senza scomodare i morti. concordo sulla necessità della passione, ma sottoscrivo quanto dicono Marco e WMing. Ma mi chiedo anche – benchè spesso sui miei tavoli incontri libri palloserrimi – che cosa davvero sia questa faccenda della passione, che cosa si intenda. Se non c’è una parzialità e un’ingiustizia di fondo in questo giudizio – la mancanza di passione che cosa terribile – per qualificare forse passioni ma anche stili esistenziali, stili sentimentali, che non sono sintonici con le nostre o che hanno canali espressivi diversi dai nostri. Il lavoro sul linguaggio per esempio è una cosa molto vicina alla tradizione europea, che la letteratura americana dissimula con zelo (dissimula non è che scrivono alla ndo cojo cojo) ma forse è solo una verticalità diversa, legittima anche se qualche volta lontana.
    La zia Julia e lo scribacchino – grande romanzo di riflessione sui meccanismi della narrazione.
    Anche l’ineffabile scribacchino, che comincia invariabilmente i suoi racconti con la fronte spaziosa etc, dopo di che innesta il suo pilota automatico per la strutturazione del racconto – lo scribacchino che scrive vivendo fuori della vita, cose meccaniche e prive di tutto, ha una sua vertiginosa verticalità un qualcosa di gigante rispetto alla narrativa franca e vera e appassionata dell’altro polo, Mario che ama e comincia a scrivere mentre comincia ad amare.

  14. Be’, Roberto, tu sai meglio di me che uno degli scrittori contemporanei che più “lavorano sulla lingua” (e con quali, vertiginosi risultati) è il buon vecchio Elmore Leonard, e conosci altrettanto bene le difficoltà insormontabili che ci siamo trovati ad affrontare nel tentativo di riportare in italiano questo lavoro sulla lingua.
    Ed è proprio lavorando sulla lingua che Leonard, autore sottovalutato come pochi, manda avanti la trama dei suoi romanzi. Una scelta radicale, a mio avviso, che il lettore italiano (abituato a vedersi presentati i suoi libri come “gialli” o “thriller”) non è ancora riuscito ad apprezzare.

  15. WM1: “I bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera” (Proust)
    Forse però chi parla di ‘lavorare sulla lingua’ in realtà intende un certo tipo di lavoro, cioè quegli autori che si concentrano sulle parole fino a creare una lingua davvero ‘straniera’ e difficile, come in Horcynus Orca o Eros e Priapo.

  16. E parallelamente chi lavora per essere altrettanto esatto, ma semplice, universalmente comprensibile, viene pensato come uno che non lavora sulla lingua.

  17. Io ‘compro’ volentieri le osservazioni di Daniele e Wu Ming – soprattutto il fatto che non esista lingua in prosa che non racconti. Ma appunto, scrittori e critici che ‘si concentrano sul lavoro sulla lingua’ non sono gli stessi che lo fanno nel modo in cui piace a me – Casa di Foglie è un esempio che adoro perchè lì a prima vista il lavoro sulla lingua sembra contorto, avviluppato. Poi leggi tre pagine e ti cali del tutto dentro la storia. Ecco, io voglio una lingua che mi cali dentro. Per arrivarci bisogna lavorarci? Si, certo, moltissimo, con rigore, passione e perfino (brrr) ‘creatività’, una parola che con l’uso che se ne fa, mi vergogno a usare. Ma se uno scrittore mi fa ‘concentrare’ sulla sua lingua, la lettura diventa a sua volta un esercizio di stile, e io mi faccio due maroni così e preferisco birra e salsiccia con gli amici.

  18. La traduzione era anche buona, ma è difficile giudicare il lavoro sulla ‘lingua’ se la ‘lingua’ è tradotta. A volte tendo a farlo anche io: il Capitano Orso Blu l’ho letto in traduzione, quindi avrei dovuto dire, più esattamente, che mi piace il modo in cui lavora sui ‘linguaggi’ – perchè della ‘lingua’ non posso dire niente. Però, ecco, credo che sarebbe da non farsi… credo, eh, non è una cosa su cui abbia opinioni forti.

  19. @ Francesco: allora siamo d’accordo al 101,36%. Mi avevano “spaventato” alcune affermazioni un po’ troppo sbrigative, come quella di Marco poco sopra:
    “Anche a me chi lavora sulla lingua non mi piace e mi sembra uno scrittore saccente e senza passione…”
    @ William. Ecco, appunto: attenzione a giudicare la lingua di un autore dalla traduzione. Non sempre (anzi, di rado) si può leggere un romanzo in lingua originale, ma nell’esprimere un giudizio, si tenga conto della mediazione che è avvenuta. Per tornare all’esempio che faceva Luca Conti, cioè quell’Elmore Leonard di cui io e lui siamo (stati, nel mio caso) traduttori, in Italia lo hanno tradotto e pubblicato per trent’anni senza alcun significativo esito editoriale, perché la lingua veniva banalizzata in modo atroce.
    Ma su questo ho scritto in modo più approfondito qui:
    http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/nandropausa11.htm#10

  20. Mandala da me che le parlo della cinciallegra nella musica di Olivier Messiaen (ovviamente inventando tutto ché non ne so nulla) 🙂

  21. a parte tutto il resto, direi che l’immagine molto ricorrente (sovente compiaciuta) di un'”apocalisse in corso”, dove si manifesterebbe il Male con la emme maiuscola, è un po’ farlocca, così come è farlocca l’idea stessa di Male con la emme maiuscola.
    l’apocalisse è SEMPRE in corso e lo è già negli abissi del tempo profondo che hanno visto momenti di accelerazione apocalittica pre-storica rispetto ai quali quello in atto è solo una minuscola increspatura.
    la storia e la pre-storia e tutto quello che è accaduto prima della pre-storia è di fatto apocalisse come sequenza ininterrotta di catastrofi, vale a dire di collassi più o meno lenti.
    se questa fosse davvero l’apocalisse, sul tipo di quella di Giovanni, mi considererei un privilegiato ad assistervi e partecipare.
    ma temo non sia così.
    brutte notizie anche per quelli che credono esista il Male (metafisico), evidentemente non accorgendosi di far parte anche loro, come tutti, di quella universale catena di sopraffazioni e malattie che lo costituisce.
    eccetera.

  22. Che l’apocalisse sia in corso e non resti altro da fare che contemplarla è una posizione che Guido Chiesa attribuisce ad altri, a quelli che critica.
    Detto questo, figurarsi l’apocalisse è sempre stato utile. Senza le rappresentazioni che arte e cultura hanno dato di una possibile catastrofe atomica globale, nessuno avrebbe avuto chiaro il pericolo. I cinegiornali USA degli anni Cinquanta consigliavano agli scolari, in caso di esplosione di bomba H, di rannicchiarsi sotto i banchi! Poi cinema e letteratura popolare si sono assunti il compito di *immaginare*, di *far vedere* la possibile apocalisse, certe prese per i fondelli sono cessate e sono nati movimenti per la pace e il disarmo, movimenti che hanno reso le popolazioni più consapevoli, fatto pressione sui governanti, informato dei pericoli. La catastrofe va visualizzata, per poterla evitare.

  23. un tempo quella che oggi ci pare un apocalisse si chiamava crisi ricorrente del capitalismo.
    ma queste sono definizioni da comunisti, quindi meglio sorvolare.
    tuttavia a quelli come me qualsiasi definizione non politica della situazione in atto interessa poco: qui non c’entra il male, ma lo sfruttamento di uomini e risorse…
    oggi, oltre al parziale collasso di sistema, è in vista la tenaglia costituita dall’esaurimento delle risorse, da un lato, e della quasi certa emergenza climatica.
    temo che l’apocalisse non l’immagini davvero nessuno, se no la pressione (attualmente molto debole) sarebbe più percepibile.
    ormai siamo a ridosso del Doppio Evento, mancano pochi decenni…
    spero di campare abbastanza per fare la mia parte.
    questi sono solo pensierini, ovviamente.

  24. “…ci sono libri che apro, leggo, richiudo chiedendomi se almeno all’autore abbiano in qualche modo giovato, se gli abbiano portato una qualunque emozione mentre li scriveva.”
    Boris Vian che citai nel post di Murakami mi ha fatto proprio questa impressione. E’ polpa emozionale che vive, scrive, recita, compone, sceneggia. [Boris Vian] “ci ricorda con lucidità, abbandonando gradualmente il territorio narrativo del suo teatro dell’assurdo, che quando l’amore chiude il suo sguardo su di noi, anche il mondo attorno perde a poco a poco colore, dignità e dimensione. Semplicemente si dissolvono l’interesse e la gioia che noi stessi avevamo costruito sui grigiori della realtà comune.” Così scrive Ivano Fossati nella prefazione al libro. L’autore stesso nella premessa infatti recita: “Solo due cose contano: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington”. Che, se non ricordo male, divenne il padrino di sua figlia.
    Babsi Jones, senza andare troppo indietro nel tempo, è un altro nome completamente al di fuori del circuito dei bravi mestieranti delle parole con il suo unico (?) romanzo e qui pluriacclamato Sappiano le mie parole di sangue. Con le sue parole, attraverso domande che aprono crepe, esternazioni che abortiscono riferimenti, racconti egocentrici di gelo che rilasciano sangue, consegna al lettore le più cupe riflessioni sulla guerra balcanica, e non solo.
    Poi Moresco, Palahniuk, il mestiere e le sovraeccitazioni della Santacroce, i primi Benni e Pennac, King stesso. Quest’ultimo, in un’intervista riportata dal Corriere on line, alla domanda su come sarebbe finito da giovane se non avesse fatto della scrittura un lavoro, rispose: «Oh, sarei morto. Mi sarei ubriacato a morte, drogato a morte, oppure ammazzato o qualche altra dannazione. La scrittura è come una grande pompa che mantiene la pressione gradevole e costante; e che permette di sfogare ogni ingorgo dell’ anima. Vengono fuori tutte le insicurezze, tutte le paure; ed è anche un gran bel modo di passare il tempo». Bella comunione di meccanismi ed emozioni.

  25. “Solo due cose contano: l’amore, in tutte le sue forme, con ragazze carine, e la musica di New Orleans o di Duke Ellington”
    ah, saperlo prima.
    il fatto è che la verità esce sempre fuori all’ultimo e così te ne accorgi a cose fatte che quello che contava non erano eguaglianza, giustizia, diritti humani, et coetera, ma la musica e l’amore in tutte le sue forme (ahum ahum) con “ragazze carine”… e noi che invece ci accontentavamo di tipi così così, talvolta al limite della cozza, magari però intelligenti, spiritose, saporite… ecco, sbagliavamo.
    e poi io, che il padrino di mio figlio era mio cognato…

  26. Tashtego, Vian era un personaggio, meraviglioso davvero.
    Fondò un locale notturno che accoglieva le celebrità dell’arte, delle lettere e dell’esistenzialismo. Era ingegnere (laureato in ingegneria cartaria), traduttore (fra gli altri, Chandler), ottimo trombettista (conobbe Bechet, Gillespie, Davis), compose oltre quattrocento canzoni, scrisse testi teatrali (tutti stroncati dal pubblico e dalla critica dei suoi tempi, come i suoi libri), era membro dell circolo dei patafisici, ma era pure contro ogni ordine precostituito e amico di Queaneu, Sartre, Camus; Prevert gli dedicò una poesia…
    Pennac disse che in lui “c’è l’ingordigia del piacere di vivere”, e che “nella sua scrittura non c’è psicologia, ci sono solo comportamenti”. Morì stroncato da attacco cardiaco a trentanove anni avendo vissuto evidentemente da leone, consapevole che sarebbe successo presto e, come disse qualcuno, ad un passo dal diventare un’icona generazionale degli anni ’60.
    Saluti e salute, torno nel mio orticello.

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