AMATE MIE: SU SHIRLEY JACKSON

Settimana complicata: riprendo la conduzione e poi mi aspettano ben cinque giorni torinesi per Scuola Holden. Dunque, il commentarium mi perdonerà se aggiorno il blog con articoli già pubblicati su carta. Questo, per esempio, è apparso su Linus, ma dal momento che parla dei racconti di Shirley Jackson spero di esser perdonata.

 

“Una vecchia signora sale sul treno: è elegante, ha un cappellino e un cappotto nero, sembra l’incarnazione della Nonna Universale, sorridente e con le ciambelle fatte in casa in un pacchetto adornato da un nastro. La vecchia signora sta andando a New York a trovare il nipote in licenza,  e mostra a tutti la sua fotografia. Con lo stesso apparente candore, rivela che la sua reale intenzione è quella di sobillare il nipote contro la moglie, che a suo dire riceve lettere da altri uomini.
Una donna, Mrs Melville, entra in un grande magazzino. Non viene servita subito, tamburella sul bancone, si innervosisce, medita di andare a protestare con la caporeparto, chiede una camicetta taglia 48, c’è solo la 46, ma la commessa lo dice a voce troppo alta e Mrs Melville è sempre più decisa a rivolgersi all’ufficio reclami. Però, salendo, incappa nel ristorante, e come non fermarsi per una merenda dopo un pranzo con crocchette di pollo, patate fritte e torta al cioccolato? Ma anche la cameriera, a suo parere, è scortese, e dunque c’è un motivo in più per rivolgersi all’ufficio reclami.
Ellen ha un marito, due figli maschi e una bellissima pelliccia. Molto più preziosa di quella della sua cara amica Marjorie, che oltretutto ha solo una figlia e un marito meno brillante. Però, durante una festa, sorprende Marjorie fra le braccia di un amante, nel guardaroba. Tace. Ma la parola “guardaroba” sarà la scusa per ottenere dall’amica favori sempre più impegnativi.
Ancora. Anne è la cugina di Charlotte e la assiste nel suo bel cottage col giardino in fiore in quella che dovrebbe essere la sua ultima estate, ma si sa come vanno le cose, e certe volte le malattie sembrano lasciare tregue così lunghe da rendere impazienti. Così, cominciano ad arrivare bigliettini. E scatole di proibitissimi dolcetti. E sigarette. Bigliettini sono anche quelli inviati da Miss Strangeworth per seminare zizzania nel paese, ma solo in nome della sua morale, perché non trova tollerabile che certi segreti rimangano tali. Vuole solo bellezza, come quelle delle sue spettacolari rose.
Ci sono molti modi per fare paura, e uno di questi è ritrovare nelle pagine di un libro i tipi umani che oggi vengono allo scoperto sui social, ma che sono sempre esistiti, come le donne di Shirley Jackson, squisita precog del mese. Adelphi manda in libreria Un giorno come un altro, nella traduzione di Simona Vinci, che oltre essere a sua volta scrittrice altrettanto squisita, è un’appassionata lettrice di Jackson. E lo si constata in L’altra casa, interessantissimo esperimento letterario già citato ai lettori di Linus, che costeggia il gotico e lo fa rientrare nel mondo che all’autrice è caro: l’analisi delle relazioni, delle emozioni non dette, dei desideri smarriti, degli spaesamenti, reali o immaginati e che, come in Jackson, ruota attorno a una casa. In Vinci è Villa Giacomelli, a Budrio, provincia di Bologna, e come da tradizione non è quel che sembra: segue percorsi che sfuggono alla razionalità e all’architettura, nasconde luoghi possibili solo nella mente, eppure reali quanto possono essere reali i sogni. E’ qui che una cantante, Maura, e la pianista-custode che la accompagna, Ursula, cammineranno dove d’abitudine non si cammina. Con la grazia lucida con cui Vinci ha sempre caratterizzato la sua scrittura.
Torniamo a Jackson, spesso incasellata nella definizione di “autrice gotica”, che pure ha la sua parte di verità: come tale è stata amata e omaggiata da Stephen King e da molti altri, fra cui Joyce Carol Oates. Nei fatti, è una delle scrittrici più abili nell’individuare l’orrore nelle pieghe della assoluta normalità: nel suo romanzo più famoso, L’incubo di Hill House, non siamo certi che la casa in cui Eleonor approda sia davvero infestata, o se si tratti invece di una distorsione della sua mente. Eppure, qualcosa di strano c’è, anche se è difficile da cogliere subito: le proporzioni sbagliate. Come scrisse King in Danse Macabre, “Shirley Jackson elaborò il concetto meglio degli altri, credo; certo meglio di Lovecraft, che l’aveva capito ma sembrava impossibilitato a mostrarlo. Theo entra nella camera da letto che divide con Eleanor e guarda incredula i vetri sporchi della finestra, l’urna decorativa, il disegno del tappeto. Presa a una a una, nessuna di queste cose è sbagliata; solo se si sommano i loro angoli, esce un triangolo i cui angoli interni assommano a più o a meno di 180 gradi”.
In Abbiamo sempre vissuto nel castello, che è il romanzo gemello di Hill House, la casa non accoglie e fagocita ma protegge dal resto del mondo Merricat e Constance, le due sorelle che hanno perso l’intera famiglia per una manciata di arsenico nello zucchero (e chi l’abbia versato è faccenda che Jackson risolve magistralmente in poche righe). E’ il paese che deve essere tenuto fuori, perché le odia, e pensa che siano due streghe. Esattamente come un paese che odia è al centro del racconto più celebre di Jackson, La lotteria, quello che dopo la sua pubblicazione sul New Yorker, nel 1948, le fruttò fama e, certo, un considerevole drappello di odiatori.
In altre parole, l’orrore in Jackson è la quotidianità, di cui è straordinaria osservatrice, e nasce dall’apparente semplicità della sua vita. In Paranoia, scrive: “Trovo molto difficile distinguere tra vita e finzione. Sono una scrittrice che, per una incredibile serie di coincidenze, si trova seduta alla macchina da scrivere per poche ore al giorno, visto che trascorro il resto del tempo a passare l’aspirapolvere sul tappeto del soggiorno, a portare i figli a scuola o a cercare qualcosa di nuovo da preparare per cena”.  Dunque La lotteria nasce così: “una mattina di primavera stavo andando a fare la spesa con mia figlia nel passeggino, e mentre scendevo verso i negozi pensavo ai miei vicini, come fa chiunque abiti in un piccolo paese. La sera prima avevo letto un libro in cui si raccontava come veniva scelta la vittima di un sacrificio, e mi stavo chiedendo chi nel nostro paese sarebbe stato un buon candidato per quel ruolo. Mi stavo chiedendo anche cosa sarebbe successo se avessero estratto a sorte famiglia per famiglia; i fratelli Campbell, che non si parlavano da quasi vent’anni, avrebbero dovuto presentarsi insieme? E mi stavo chiedendo cosa sarebbe successo al giovane Garcia, che aveva sposato una ragazza detestata dai suoi genitori: avrebbero dovuto ammetterla tra i membri della famiglia? Immaginare i miei conoscenti in una situazione del genere era molto affascinante, così decisi che avrei provato a metterla per iscritto appena tornata a casa. Quindi, dopo aver fatto la spesa, spinto il passeggino su per la salita e rimesso mia figlia nel box, mi sono seduta alla scrivania e ho scritto la storia che mi ero raccontata per tutta la mattina.”
Funziona così. E, per inciso, in Un giorno come un altro non ci sono solo perfide signore: ma maghe buone, e quelli che potremmo chiamare angeli, in mancanza d’altro. Perché non esiste il racconto del Male senza un bagliore almeno del suo opposto”.

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