Anna e Claudia sono due insegnanti. Anna Novero e Claudia Pepe mi hanno scritto e mi hanno inviato, rispettivamente, una lettera e un testo. Ho deciso di pubblicarli entrambi, perché le loro voci possono raccontarci molto più di uno sguardo dall’esterno. Eccole
LO STIPENDIO DI ANNA
Mi chiamo Anna sono una logopedista, da un anno “prestata” all’insegnamento. Le scrivo in questa giornata particolare, l’ultima della mia breve convalescenza, domani torno al lavoro nella mia scuola, finalmente!
La disturbo per la grande attenzione che sempre dedica, sia a Fahrenheit sia sul suo blog, alla lettura, all’insegnamento, alla scrittura e alla scuola.
Di recente ha ospitato il Professor Giacomo Stella, mi è piaciuto particolarmente ascoltarvi perché molte delle mie scelte personali e professionali derivano dal fatto che vengo da una famiglia “dislessica” (lo sono sia il mio babbo sia i miei due fratelli minori). Mi ha fatto decidere di studiare linguistica cognitiva e, dopo la laurea in Lettere, buttarmi subito a prenderne un’altra in Logopedia.
Mi sono specializzata proprio in didattica ed apprendimento e ho avuto dieci anni di lavoro pieno e gratificante (non economicamente, ma questa è un’altra faccenda).
Nonostante le soddisfazioni che mi hanno regalato i bambini e i ragazzi, le famiglie e gli insegnanti con cui ho lavorato negli anni, mi sono accorta che, per poter davvero essere “esperta” di apprendimento, mi mancava l’esperienza “in classe”. Detto fatto!
Sono diventata una Prof di Lettere e Storia (materie che adoro) alle superiori. Al momento Supplente.
Insegnare ad una classe è un’esperienza quasi di ascesi in sé stessi, da quanto è appagante, coinvolgente e… difficile.
Ma sta funzionando.
Mi confronto con il mio compagno insegnante, con i miei nuovi colleghi e studio a più non posso, ma… sta funzionando.
O dovrei dire “stava”. Perché purtroppo, con la morte nel cuore, temo che presto dovrò interrompere questa esperienza. Il motivo è che io, come circa altri trentamila colleghi siamo senza stipendio da mesi e mesi. Alcuni non ne hanno mai visto uno, da settembre. Io sono stata pagata solo per il mese di novembre (il 19 gennaio), quasi nessuno ha avuto lo stipendio di gennaio. Il MIUR e il MEF si rimpallano la “colpa” uno con l’altro.
Spesso, dopo il lavoro, alla fine di lunghi pomeriggi di peregrinazioni telefoniche e rimpalli vari (MIUR-MEF-NOIPA, Ragioneria di Stato), l’operatrice del NoiPA (che dovrebbe materialmente pagare i nostri salari), mossa a compassione, ci spiega che è inutile accanirsi, perché il problema è che non ci sono fondi, semplicemente perché non sono stati stanziati.
I nostri salari vengono pagati (raramente) con “emissioni speciali”. In occasione di quella del 24 dicembre (sic!), MIUR e sottosegretario Faraone dichiararono che l’emergenza era finita e che da gennaio sarebbe stato tutto regolare.
Così non è stato.
Al NoiPA – sottovoce – ci dicono che i fondi stanziati sono inferiori alla cifra necessaria e vengono distribuiti “random” (e peraltro sono considerati “arretrati” quindi con tassazione più alta e senza “bonus Renzi”, ma non ci dobbiamo preoccupare, perché tanto ci restituiranno tutto… con il 730 del 2017!).
Cara Loredana, mi perdoni il lungo sfogo, ma la situazione è davvero difficile.
Due, tre, quattro mesi senza stipendio vogliono dire affitti non pagati, rate del mutuo “saltate”; vuol dire avere l’acqua alla gola e non vedere una via d’uscita.
Vuol dire richieste di aiuto ai genitori pensionati per pagare l’asilo per i bambini, l’assicurazione della macchina o l’abbonamento ai mezzi (necessari per andare al lavoro, a scuola; un lavoro che non viene pagato).
Per me che sono indipendente da quando avevo vent’anni (ne ho quaranta) questa è la cosa peggiore.
Dovrei dare aiuto ai miei genitori, non chiederlo.
E lo chiedo non perché sia disoccupata, sarebbe comprensibile; io ho un lavoro, ho un contratto, con lo Stato Italiano, che non onora questo contratto e – cosa anche peggiore – si trastulla con un ignobile scaricabarile di responsabilità, rimpalli e false promesse.
Sulla pelle di noi insegnanti, dei nostri sfortunatissimi allievi e delle loro famiglie.
GLI OCCHI DI CLAUDIA SUL BULLISMO
Quando una vita cessa di esistere, tutto diventa ricordo, memoria e dolore. Ma quando una vita cessa di essere perché vessata, torturata, presa a morsi da un insieme di comportamenti verbali, fisici e psicologici reiterati nel tempo, posti in essere da un individuo, o da un gruppo di individui, nei confronti di persone più deboli, quello che ti resta, è un pugno nello stomaco e il tempo di fumare una sigaretta guardando i vetri consumati dal tempo.
Quando una dodicenne si getta dalla finestra della sua camera da letto per non andare scuola e spiega il suo dramma in due lettere ai genitori, agli stessi bulli che la perseguitavano e per puro caso, una tapparella le vieta la morte, ti chiedi in che mondo stiamo vivendo, e le sigarette non bastano più. “Ora siete contenti” scrive un cucciolo in gabbia ai suoi seviziatori, ora tolgo il disturbo, tolgo la disperazione che si è impadronita della mia vita, tolgo l’angoscia, il supplizio, lo strazio che ricopre la mia pelle, mi impadronisco del mio travaglio e dedico le doglie ad uno zefiro di vento. Disfarsi del proprio destino, oggi, è diventata l’unica difesa per chi non riesce più a trattenere le lacrime, quelle che non fai vedere ai bulli che usano la loro violenza per sbatterti contro un muro, quello che non ti porge appigli. Hai paura di confidarti con le persone che ti amano, hai paura di deluderli, di apparire quello che sei, di non trovare la risposta giusta, e i tuoi occhi non cessano mai di rivedere l’inferno che ti attende ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Ma non ci sei solo tu: siete tanti, tanti quanti i vostri violentatori, gli stupratori di anime, i loro ghigni sono i vostri fantasmi, il loro sguardo, l’attesa della colpevolezza. Un dodicenne tirato in mezzo dal branco, costretto a stendersi sui binari, immobilizzato e trasformato nell’obiettivo di un crudele tiro al bersaglio con un fucile ad aria compressa, legato a un cancello e costretto a fumare uno spinello mentre due ragazzi gli urinavano addosso e un altro li filmava. Ragazzi disabili annientati da una società che li vuole vedere diversi, così differenti, difformi, dissimili, da chi usa gli occhi solo per fissare una televisione silente e le mani solo per schiaffeggiare il vuoto che lo avvolge. Dolci ragazzi, fate di tutto per confondervi con le giornate che passano, la vostra melanconia assume il volto del passaggio di un’età ingrata, di un’età che non vi rappresenta, e noi genitori e insegnanti, non riusciamo a scorgere la tormenta che vi accompagna nelle vostre stanze chiuse coperte di urla sommesse. Dobbiamo farvi capire che questa vita è una vita da cautelare, da curare, da prendere con attenzione, con rispetto e delicatezza. Anche se esistono studenti di 15 e 16 anni, in gita a Roma, che si ritrovano in una delle stanze dell’albergo all’insaputa dei professori. E dopo risate e scherzi, prendono di mira un compagno, forse ubriaco. Lo spogliano, depilano e decorano con caramelle e marsh mellows filmandolo con il cellulare. Questi giovani che non hanno più memoria si privano della loro coscienza e vivono solo di un presente che non ha né ieri né domani. Solo un oggi di cui disfarsi. E certi genitori li difendono:” E’ un fenomeno che parte della crescita, è solo una ragazzata, sono loro che non si sanno difendere, sono solo ragazzi insicuri che hanno problemi in famiglia e che quindi vanno aiutati”. Dimenticando che il bullismo affonda le radici nell’infanzia, magari da parte di chi è stato a sua volta vittima di abusi o abbandonato in una scuola dalla mattina alla sera, o in una casa dove le uniche persone con cui parlare erano i protagonisti di una vita irreale, una vita da sognare. Non di meno possiamo escluderci dall’innocenza in mancanza di prove. Siamo tutti testimoni dell’isolamento in cui viviamo, siamo tutti colpevoli di vedere dita puntate senza afferrarle, siamo tutti presenti quando il mormorare diventa diffamare, biasimare, calunniare. Chi di noi può sentirsi assolto quando il nostro sguardo evita il barbone sotto casa, gli emigrati che rimangono figli di un mare diventato troppo nero? Chi di noi si ferma quando assistiamo senza osteggiare al lancio di bombe lanciate su scuole piene di voci siriane che cantano in inglese, francese, curdo o aramaico? Stiamo diventando senza accorgercene i fiancheggiatori della denigrazione dell’essere, della deflagrazione dell’umano. Nasciamo liberi, senza pre-concetti e innocenti. Poi, per il resto della vita, cerchiamo di dimenticarcelo.
Claudia Pepe
Due storie che colgono l’abbandono della scuola da parte dello Stato.
Una scuola che troppo spesso anche se malvolentieri si ritrova impotente e che fatica a recuperare un senso attorno a cui ricostruirsi (e ricostituirsi).
Un massacro di cui “La Buona Scuola” è soltanto l’ultimo capitolo (e perdonate questa retorica abusata).