Nelle ultime pagine della Montagna Incantata di Thomas Mann, dopo anni di tempo fermo e dilatato, ogni cosa precipita. L’inizio del disastro è visibile nell’aumento dell’irritabilità degli ospiti del sanatorio. Segnali da poco, per cominciare: un commensale silenzioso che insulta la cameriera perché il te’ è freddo; una raffinata signora malata solo lievemente che, dopo una lite con una commessa nel paese vicino, ha uno sbocco di sangue e muore. E, naturalmente, lo scontro fatale tra i due grandi antagonisti intellettuali del romanzo: l’umanista Luigi Settembrini e il gesuita Leo Naphta. Una cosa da poco, anche qui. Una gita in slitta, una sosta per caffè, latte, pane di pere in una locanda. Un discorso feroce di Naphta sul significato della libertà che Settembrini bolla come infamia. Il duello. Mortale, e che prelude ad altre morti imminenti e collettive.
Troppo facile fare paralleli e tracciare similitudini tra la fine di un mondo e il nostro presente. Però questa rabbia insensata che infrange il cristallo in cui malati e no si sono ritirati mi torna in mente, a più riprese, in questi giorni.
Come ognun sa, sono giorni in cui – incredibilmente – ci si dilania sul figlio di Nichi Vendola. Non su un principio, perché al principio ci si arriva di sbieco, e solo dopo molta schiuma scesa da molte bocche, ma sul caso singolo.
E’ freddamente interessante constatarlo: scrivo freddamente perché occorre esserlo, credo, e provare a uscire dalla nuvola purpurea in cui siamo immersi, prima che il Naphta di turno metta mano alla pistola (metaforica, certo).
Cosa smuove questa vicenda? Molte cose, e a diversi livelli.
Il primo è ormai classico, da quando un certo atteggiamento nei confronti dell’intellettuale (peggio ancora, del politico intellettuale) è divenuto prassi. Chi prende una determinata posizione è, nella migliore delle ipotesi, un radical -chic. Come scrivevano i Wu Ming nel 2013:
“Lasciamo perdere le origini del termine «radical-chic», inventato dallo scrittore conservatore Tom Wolfe per irridere gli artisti di sinistra – su tutti Leonard Bernstein – che raccoglievano fondi per le spese processuali delle Pantere Nere. Oggi «intellettuali radical-chic» è l’espressione stereotipata per dire che chiunque svolga un ragionamento complesso non fa parte del «Popolo», fa perdere tempo prezioso al «Popolo», annoia il «Popolo», perché il «Popolo» – per definizione – «non capisce le vostre seghe mentali!»”
Ora, con mia sorpresa questa posizione “per il Popolo” e “contro gli intellettuali” si diffonde come una malattia contagiosa anche presso persone che mai avrei sospettato di voler semplificare la realtà. Ed è un primo, sgradevole segnale. Se tenti un ragionamento complesso, appunto, vieni richiamato a terra, spesso terra-terra. A un breve status scritto ieri su Facebook (“sommessamente: sarò molto lieta di riscontrare lo stesso interesse per le donne indiane e bengalesi e il loro sfruttamento da parte di noi occidentali capitalisti quando andrete a comprare una maglietta da H&M o da Benetton o dagli altri marchi fast-fashion, grazie”) e seguito da commenti spesso violenti, una delle ultime risposte, letta poco fa, è questa:
“Sommessamente, vorrei vedere te se fossi stata concepita a tavolino senza una madre…
O certo, ne conosco di orfani di mamma, si sopravvive ma è un dolore terribile! Il piccolo Tobia invece no, non potrà averlo: sarebbe omofobia, per lui avergli tolto la madre deve chiamarsi amore.
Una deriva tristissima, ma da vivere sommessamente”.
E’, ripeto, freddamente interessante. Perché di bambini “concepiti a tavolino” parliamo da anni e anni, da quando esiste la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa. Possibilità che, peraltro, in Italia è ancora poco accessibile, nonostante le pronunce che hanno svuotato la terribile legge 40. Già, però, ai tempi della legge medesima e soprattutto del referendum sulla stessa, chi prendeva posizione contro la fecondazione assistita rivendicava la bellezza della maternità “naturale”, se non addirittura “animale”, contro la violenza della tecnica. Gli infertili si fottessero. Ecco, non si diceva esattamente questo, ma il senso non cambiava: la genitorialità non è un diritto, adottassero un bambino (come se fosse facile), si dedicassero al piccolo punto (o ad altro).
E’ strano. Perché molte persone che si battono per la naturalità e animalità della maternità (che, a mio modestissimo parere, non è mai carnale, ma è fatta di una cosa che si chiama amore, e di un’altra che si chiama cura, e l’amore e la cura non appartengono alla carne, ma a quel che chiamiamo in molti modi: empatia, anima, cuore, decidete voi), sono le stesse che si battono per il diritto all’interruzione di gravidanza, e anche per la libertà delle donne di scegliere se avere o meno un rapporto sessuale a pagamento.
Personalmente, vedo un sospetto di incoerenza: nel momento in cui rivendico la libertà di scelta sul mio corpo (se essere o non essere madre, come essere madre, come e con chi fare sesso. Come e quando morire, aggiungo) , credo che questa libertà vada rivendicata fino in fondo.
Certo, con tutti i paletti e le tutele possibili che impediscano lo sfruttamento: lo sfruttamento delle prostitute, lo sfruttamento delle donne che portano avanti la gestazione per altri, o che, attenzione, donano i propri ovuli perché altri possano avere un figlio. Ripeto, con tutti i paletti del mondo: e quei paletti, scusate se mi ripeto, vengono solo in parte dalle leggi, e moltissimo dalla cultura, e dunque dall’educazione, e dunque dalla possibilità di apprendere (a scuola, dannazione) chi siamo e come diventiamo donne e uomini, femmine e maschi, se preferite.
Ma ci sono i bambini, diranno, più o meno in coro, quelli che giocano la carta dell’infanzia. Certo che ci sono i bambini: ma quei bambini, desiderati e amati, da coppie etero e omosessuali che siano, saranno accolti da una famiglia che non li ha “comprati” (ricordate le accuse rivolte alle coppie che cercavano all’estero la possibilità di ricorrere all’eterologa? Uguali), ma ha fatto quanto poteva per realizzare non un capriccio ma un progetto.
E qui arriviamo al punto dolente: sia coloro che ricorrevano all’eterologa, sia, attenzione, chi ricorre all’adozione internazionale, e per finire chi ricorre alla gestazione per altri, ha disponibilità economica. E quindi, sì, certo, si pone una questione di classe. Gli infertili poveri alzino le mani in segno di resa e si dedichino al piccolo punto. E’ vero, innegabile.
Ma non è necessariamente sfruttamento.
O, per meglio dire, esiste un problema globale che riguarda lo sfruttamento, e che però, questo intendevo dire nel mio status di ieri, finisce regolarmente in secondo piano, esattamente come i bambini invisibili (i diecimila di cui ho parlato qui, i minori migranti) di cui poco ci interessa, o solo a tratti, nei grandi discorsi a tutela dell’infanzia.
In questi giorni ho sentito evocare continuamente le donne asiatiche che, per la povertà in cui versano, sono disposte ad “affittare l’utero”. E il mio stupore era semplicemente questo: come mai questo improvviso e caldo interesse per l’utero delle asiatiche quando nella maggior parte dei casi è passata nell’indifferenza la storia dell’utero di Shila, espulso per schiacciamento dopo il crollo del Rana Plaza dove migliaia di ragazze bengalesi trascorrevano ore a cucire le nostre magliette e i nostri pantaloni a poco prezzo per una manciata di centesimi? Come mai il corpo delle donne viene considerato sfruttato solo quando riguarda la sua funzione materna e mai quando muore in una fabbrica che assembla smartphone o, molto più vicino, mentre coglie pomodori?
Benaltrismo, mi è stato detto. Temo che non sia così: se si parla di sfruttamento, se ne parli a tutto tondo, sempre, e non soltanto se questo riguarda il nostro grande mito, quello del materno. Nessuna madre è buona per natura. Lo sarà, lo diventerà, crescendo insieme al proprio figlio e figlia. La natura non prevede la bontà: a quella dobbiamo provvedere noi, piccoli esseri umani. Se sapremo resistere alla rabbia. Se saremo, davvero, capaci di comprendere le forme di amore che sono lontane dal nostro maledettissimo modello personale. E se, davvero, sapremo difendere i deboli: e non duellando a casaccio su un social network, mentre il mondo, fuori, scricchiola.
Se posso, uso parole non mie, ma di un amico facebookiano (Anton Caracal) che già ho condiviso qualche giorno fa, e che mi paiono, sommessamente o meno, assai calzanti:
Quindi da oggi scopriamo che i corpi delle donne sono mercificati. I miserrimi non-occidentali e i poveri occidentali (donne e uomini) sono merce da quando esiste il capitalismo (scegliete voi dove farlo cominciare, se due o quattro secoli, quattromila o diecimila anni fa), forza lavoro schiava, proletaria, sottoproletaria, a cui le forme della produzione hanno sempre imposto le forme della riproduzione (non erano calcolati – e non lo sono, ancora, fuori dall’occidente, e pure al suo interno – costi e benefici di un figlio da gestare, sfamare, e poi mandare in miniera, in fabbrica, qualche volta a scuola?), ma la mercificazione dei bambini comincerebbe da oggi. Gli scarti semi-improduttivi di quella merce globale annegano ogni giorno nel Mediterraneo, i telegiornali ci raccontano ogni ora quanti bambini e quante donne, e quante madri coi figli fra le braccia crepano nelle acque gelide dei mari europei, costretti a viaggi infiniti e orrendi perché non è loro concesso (dall’Europa) un visto per salire s’un aereo e un corridoio umanitario se lo sognano; se in Europa ci arrivano vagano per mesi fra le frontiere di filo spinato, subiscono la selezione (a che fa pensare, la selezione?) fra profughi e “semplici” migranti, e fra profughi Isis e profughi delle guerre che non c’interessano, diventano risorsa politica per il razzismo europeo come per i democratici sedicenti anti-razzisti: e lo sfruttamento di bambini, donne, (c’è posto per gli uomini?) comincerebbe con la Gestazione Per Altri. Colpa dei maschi omosessuali, maschi come tutti, anzi peggio perché non accetterebbero la differenza sessuale e il limiti della natura (alla faccia della messa in crisi dei binarismi). Nessuno che vada a chiedere alle madri surrogate se si sentono sfruttate o ricattate. Perché non lo si va loro a chiedere? Perché forse risponderebbero che preferiscono gestare per altri che lavorare in miniera, in una fabbrica tessile clandestina 20 ore al giorno senza mai vedere la luce del sole, finire nel traffico di esseri umani dove la prostituzione non è scelta, ma imposta fino a quando dal corpo c’è da spremere qualcosa (e poi quel corpo lo si butta nella spazzatura), violenta, senza protezioni giuridiche o sociali. Che preferiscono pagarsi le rette universitarie piuttosto di rinunciare all’università, o di pagarle ai figli invece che mandarli a lavorare ad una pompa di benzina della provincia americana; che preferiscono avere una polizza sanitaria piuttosto che morire. E con questo bisognerebbe fare i conti, mettendo in discussione le certezze attorno alla libera servitù imposta dal capitale. Perché forse questo è un modo “femminile” di resistere al capitale, di soggettivare un contro-potere. A chi giova, in effetti, la proibizione assoluta e per principio, se non ai maschi eterosessuali (omofobi) che non sopportano che il corpo femminile possa essere usato come forza politica, quegli stessi maschi per i quali lo stupro (il corpo maschile usato come arma) è violenza solo se commesso da stranieri (e il circolo si chiude)? Se non a tutti quelli (uomini e donne, religiosi e non religiosi) che si spacciano per paladini delle donne per difendere solo i bambini contro le donne, che nel nome della “sacralità della vita” non dovrebbero nemmeno poter abortire, perché un bambino, anche quando “in potenza”, è sacro, il corpo di una donna sacrificabile ai principi? Se non alle femministe della differenza che con tutti questi personaggi si alleano, perché vedono come il diavolo la possibilità che un bambino non abbia bisogno di un “ordine simbolico materno”, e che la cura d’altri non abbia limite di genere (il che metterebbe in crisi decenni di teorie fondate sul binarismo di genere: perciò forse è meglio allearsi con le peggiori forze patriarcali, misogine, antiabortiste…). Se non a tutti gli omofobi che blaterano di egoismo, perché il fare figli degli eterosessuali sarebbe altruista e oblativo (chi sarebbe il “chi” a cui si dona qualcosa, il “chi” di questo desiderio di ricevere un dono, se ancora non esiste, e comincia a chiedere quando lo di è messo al mondo… per desiderio di “chi”?), proprio mentre sono riusciti a impedire un istituto minimale come la stepchild adoption, cioè il diritto del bambino ad una famiglia stabile (mica parliamo di adozioni di orfani, ci mancherebbe: quella è per gli etero, così altruisti…)?
Ma la vera tragedia è che se le donne (e non solo) devono inventarsi una resistenza ai differenziali economici, sociali, politici, simbolici, imposti dal capitalismo, è perché l’interezza della loro esistenza è, in misura variabile similmente a quella dei maschi, determinata e schiacciata da questi differenziali di potere, mica solo nove mesi di gravidanza. L’interezza della loro esistenza è non potenzialmente ricattabile, ma in stato di ricatto costante. Lo vedete o no che pater familias e patrimonium appartengono alla stessa area etimologica e semantica, perché sono storicamente, materialmente sovrapposti, o vedete sempre e solo il pater?
Se in questo mondo esiste l’oppressione, questa non comincia e non finisce con la maternità surrogata, con nove mesi di gravidanza. La lotta proibizionista-abolizionista contro la GPA è diventata la cortina fumogena dell’Occidente ricco per difendere (intenzionalmente e consapevolmente o meno, all’origine o per effetto) i propri privilegi complessivi, l’interezza dei rapporti di dominio, dietro la maschera umanista-umanitaria della difesa dell’utero delle donne povere.
In questi giorni sto dedicando anch’io un sacco di tempo alle discussioni on line sulla GPA. Malgrado ottimi propositi, non riesco ad astenermi, pur sapendo di contribuire così allo sversamento pubblico di fiumi di bava.
Cerco anch’io di mantenere la freddezza, cosa che non mi è facile, essendo stato a suo tempo coinvolto in carne e spirito nella macelleria emotiva che fu la piena vigenza della legge 40.
Nel rifiuto di quello che con spregio viene definito “utero in affitto” ho riscontrato, in infinite discussioni, una sequela impressionante di incoerenze e di fallacie logiche, oltre a un terrore supremo che è poi, credo, il vero motore di questo moto viscerale che tante persone manifestano.
Cominciamo quindi dal terrore, che secondo me è né più né meno che la paura atavica di non sapere più chi si è, di perdere il proprio posto nel mondo. Molti hanno interiorizzato, quale elemento fondante della propria identità, una certa idea della biologia e del sesso: sono uomo e sono donna e questo è ciò che mi definisce prima di ogni altra caratteristica biologica o culturale. Se scopro che l’atto da cui origina il mio potere, che è quello generativo, può essere compiuto in modi finora sconosciuti e facendo a meno delle caratteristiche biologiche di cui sono portatore o portatrice, ecco che il mio dono non vale più niente; perdo la mia presa sul mondo, ne vengo espulso. E quindi devo combattere questa deriva, fino alle estreme conseguenze (manifestazioni internazionali in nome del femminismo, campagne di stampa, semplici liti al bancone del bar, tutto va bene purché si allontani da me lo spettro di questa nullificazione).
Questo potente motore (la paura) ha bisogno, per agire, di incanalare il proprio impulso in argomentazioni dotate di una qualche razionalità, che peccano però di grande incoerenza. Me ne vengono in mente diverse, la maggior parte delle quali già elencate nel post da Loredana:
– Lo sfruttamento dei corpi: qui il minestrone prevede, tra gli ingredienti, il sempiterno richiamo alla prostituzione (come se la GPA fosse la stessa cosa, e come se – anche qui – non fosse possibile distinguere sfruttamento e libera scelta) e la schiavitù riproduttiva delle donne indiane; si ignora consapevolmente che esistono strumenti in grado di separare nettamente lo sfruttamento dalla scelta volontaria di portare avanti una GPA, e infatti di solito a questa obiezione non si ottiene risposta. Negli USA, per esempio, non ci si può proporre come gestante per altri se non si dimostra di avere un certo livello di reddito e non si sono già avuti dei figli: cose che riducono a zero le possibilità di sfruttamento e minimizzano i rischi fisici e psicologici connessi a questa pratica (che sono comunque minimi, a confronto con attività di ben maggiore impatto). Curiosamente, questo interesse per i corpi delle donne dei paesi poveri non è mai emerso né, come nota Loredana, quando questi corpi sono costretti a lavori pericolosi e umilianti, né quando a sfruttarli sono state (e sono) le aziende farmaceutiche, che notoriamente hanno messo a punto la pillola anticoncezionale (e dato così un enorme impulso all’emancipazione femminile) sulla pelle delle donne di quello che allora si chiamava terzo mondo, imbottite di ormoni e sottoposte a trattamenti di cui non si è mai capito bene quali fossero le conseguenze. E ancora oggi le prove di tossicità vengono effettuate su “volontari” che lo fanno per soldi (uno è morto di recente in Francia, nei test per un farmaco innovativo), assumendo sostanze di certo molto più pericolose di una GPA, che rimane comunque un evento naturale, mentre naturale non è iniettarsi in vena sostanze mai sperimentate prima. Ma di questo nessuno parla, facendo sorgere più di un sospetto che i divieti per molta gente inizino dove finisce la loro possibilità di beneficiare personalmente di quello che la tecnica mette a disposizione. E poi, se sussiste questo disgusto per la mercificazione, tanto che pure la fecondazione eterologa solleva inenarrabili polveroni polemici, perché nessuno parla mai del commercio di spermatozoi? Forse che i corpi maschili e i loro prodotti sono per natura meno pregiati, più disponibili, così da rendere indifferente quello che per i corpi femminili non è consentito? Alle mie orecchie, questa amnesia selettiva richiama potentemente il mito della Grande Madre Generatrice, a cui sola va tributato rispetto e onore. E non è un mistero per nessuno, che ancora oggi molte donne vedano in questo potere la loro personale giustificazione dello stare al mondo con onore. Appoggiate entusiasticamente, in questo, da schiere di uomini ben lieti di celebrare quel potere, in cambio dell’esercizio esclusivo del potere politico. Tutto questo senza contare che, banalmente, deve suonare quanto meno beffardo alle orecchie di una donna in miseria sentirsi dire “cara, no. Quello che vuoi ma non questo, che urta la mia sensibilità etica ed estetica”, se chi lo dice poi si gira dall’altra parte e se ne fotte di darti quell’alternativa che magari ti convincerebbe a non usare il tuo utero per nutrire il figlio di altre persone. E la maggior parte di questi fieri oppositori e di queste orripilate oppositrici questo fa: si gira dall’altra parte. Io non le vedo, tutte queste marce a Parigi in favore dei bambini migranti in fuga dalla Siria, delle loro mamme e dei loro papà.
– La GPA come arma finale del turbocapitalismo per annullare la coscienza di classe: qui siamo ai confini del complottismo e questa argomentazione quasi non meriterebbe replica, se non fosse che di questi tempi ci credono in troppi. Francamente, mi sfugge come l’esercizio di una libertà individuale possa erodere la coscienza di far parte di una collettività; coscienza che, è vero, sta svanendo al punto che oggi moltissime persone, soprattutto giovani, sembrano assolutamente analfabete dei rudimenti del vivere comuni e dei diritti/doveri basilari implicati dall’appartenenza a una comunità. Solo che l’erosione di quei diritti/doveri e di quella consapevolezza non ha niente a che fare con le pratiche riproduttive e con la coscienza di genere, ma semmai con l’attacco violentissimo portato da trent’anni a questa parte alla scuola pubblica e con l’affermazione egemonica della narrazione (tossica) del primato dell’egoismo sociale. Una variante di questo discorso è quella benaltrista, secondo cui questi conflitti servirebbero a distrarre i cittadini dai problemi “veri”: i diritti del lavoro, i servizi sociali. Bene, mi viene da dire: se non sono importanti, smettete di opporvi; così saremo tutti con voi, appassionatamente, a difendere quei diritti che per voi sono più diritti di altri. Come se poi avesse fondamento, questa visione alternativa dei diritti: forse che il divieto di matrimonio agli omosessuali fa crescere il PIL? Il divieto di GPA ripristina l’articolo 18? Non sequitur, e non c’è altro da dire.
– “E’ contro natura”: la fallacia delle fallacie, quella naturalistica. Beh, lor signori/e non sanno che, se volessimo seguire la legge di natura, non dovremmo proprio organizzarci in famiglie; lo fanno forse i gorilla, gli scimpanzè e i bonobo, che sono i nostri parenti più prossimi nel mondo dei primati? No: loro hanno un unico stallone che feconda tutto il branco, comprese le sue stesse figlie, dopo aver sconfitto gli altri maschi in combattimento; e questo, con ogni probabilità, facevamo anche noi, prima di fondare la cultura e distaccarci dalla natura. E’ lì che vogliamo tornare? Accomodatevi, io sto bene dove sto. La famiglia “naturale” è una cosa mai esistita e anzi l’organizzazione familiare è probabilmente il primo atto culturale compiuto dall’uomo, quello che ha dato inizio all’evoluzione della civiltà umana e ha segnato il nostro primo distacco dalla natura; e allora, se siano stati noi a fondare la famiglia e non la natura, perché non dovrebbe essere nella nostra disponibilità rivedere le forme che la famiglia può assumere? Ampliarle? Includendo, grazie alla tecnica (altro aspetto fondante della cultura), anche tre o quattro “genitori”, di cui alcuni solo biologici (donatrici di ovuli, donatori di seme, madri GPA). Perché no?
– “Si rende orfano il bambino appena nato, strappandolo dalle braccia della madre”: altra argomentazione ridicola. Esistono fior di studi che attestano come i bambini nati da queste pratiche, che – ricordiamolo – esistono da trent’anni, anche se i più se ne accorgono solo ora che (in piccolissima parte) ne hanno fatto uso coppie omosessuali, crescano esattamente come tutti gli altri bambini: bene se sono amati e la famiglia li protegge, male se queste condizioni non si verificano. Ma i fieri oppositori e le orripilate oppositrici se ne fottono, della scienza (del resto, ho notato una correlazione non proprio minima tra certe opposizioni e atteggiamenti anti scientifici, che oggi pure vanno molto di moda).
Vabbe’, qui mi fermo, ma più che altro perché servirebbe un libro per illustrare adeguatamente il florilegio di incoerenze e di fallacie che si accompagna a certe argomentazioni. E poi, diciamocelo: questi paramenti razionali, che peraltro stanno poco in piedi, di per sé non hanno valore; per moltissime persone sono solo il canale attraverso cui si veicola una paura ancestrale, il terrore di non sentirsi più al centro del mondo, con il proprio potere riproduttivo erroneamente ritenuto esclusivo. E’ quello, il motore della rabbia e del rancore.
Sì Maurizio, io non dubito che i bambini nati da GPA crescano nè meglio nè peggio degli altri, per me l’importante è che una volta adulti possano sapere chi sono i genitori biologici ove lo desiderassero. Ci sono figli adottivi che sono stati cresciuti con tutto l’amore del mondo e possono avvertire comunque il bisogno di conoscere le loro origini. Hanno diritto di saperlo. E il desiderio di sapere non toglie nulla all’amore dei genitori adottivi. Crescere un figlio con amore è assolutamente necessario, ma se sia anche sufficiente a risolvere tutto non lo so e credo non lo sappia nessuno. (preciso che sono favorevole alle adozioni anche per le coppie dello stesso sesso e ho votato quattro sì al referendum sulla fecondazione assistita)
Sì Paolo, quello che tu chiedi (possibilità di conoscere il genitore biologico) può far parte di un ragionevole dibattito. Personalmente non sono favorevole, ma è una di quelle questioni di cui si può discutere più che civilmente. Quanto alla sufficienza o meno dell’amore per crescere i figli, chi può dire cosa serva davvero? I figli sono tutti diversi, come i genitori del resto, e quello che va bene per me non va bene per un altro. Diciamo che l’amore è condizione necessaria; sufficiente certamente no, ma cosa serva per completarlo francamente non lo so 🙂
Urka, che commentoni!
Più lunghi dell’articolo…
Mi permetto solo di far notare come anche coloro che proclamano di voler valutare freddamente il problema e da posizione “non-radical-chic”, poi facciano un guazzabuglio di motivazioni e argomentazioni caotiche, etiche, finanziarie, storiche, sessuali.
Il problema di fondo credo sia il seguente: se una donna alleva e partorisce un bambino per un’altra coppia (a prescindere da come questa sia composta) e se ne priva, infrangendo così il legame carnale e “culturale” primigenio che lega madre e figlio — ma che marca anche la storia dell’umanità come uno dei suoi tabù basilari — questo è bene oppure male?
Si può fare o non si può fare? I nostri codici culturali sono abbastanza aperti da poter accettare la frattura di quel legame, o no?
Il secondo quesito, molto più sottile e insidioso, che deriva dal primo, è il seguente: cosa spinge una coppia omosessuale, che è ben conscia della sua posizione nella cultura e nella società attuali, a voler crescere un bambino/a “a tutti i costi” e in sostituzione completa con la madre naturale? E cosa verrebbe a mancare a quella coppia, in caso di assenza di prole?
E’ quindi lecito, per ogni e qualsiasi coppia, in caso di sterilità o impossibilità alla procreazione da parte dei coniugi, rivolgersi ad un altro essere umano perchè “gestsca” (nel senso della gestazione) e consegni loro quel figlio?
Lo sfruttamento nel mondo esiste. La mercificazione è il carattere specifico che ha preso la nostra società di massa. Il bisogno, la disperazione e la paura ci sono compagni da sempre. Ma uno non spiega l’altro: anche se eliminassimo tutto lo sfruttamento dal mondo, i quesiti che Loredana ha posto rimarrebbero inalterati.
Cara Loredana sono pienamente d’accordo. Fiumi di parole ho speso ieri per difendere la libertà di scelta delle persone. Una delle critiche che più mi hanno fatto pensare è stata quella di Diego Fusaro che come tanti altri sostiene che il desiderio di maternità ormai sia solo un capriccio egoistico che bisogna soddisfare ad ogni costo. Ecco quest’espressione mi ha fatto pensare, credo infatti sia legittimo desiderare una maternità quando si condivide un progetto di vita insieme ma essere bollati come degli egoisti è profondamente ingiusto. Perché chi fa i figli in modo naturale non li fa perché li desidera? O li fanno solo per egoismo? Ora per carità non dico che bisogna per forza procreare nella vita, si può stare bene anche senza ma non capisco perché solo certe coppie possono avere un desiderio sano e generoso di famiglia e tutti gli altri, le coppie sterili o omosessuali vengono etichettati come egoisti o capitalisti.
Lo scrivo anche qui.
Loredana, come al solito, ha fatto un’analisi puntuale, articolata e, soprattutto, ben fondata, senza fermarsi ai discorsi di pura demagogia o ai ragionamenti “di pancia”.
Penso che si potrebbe anche arrivare a un punto diametralmente opposto, seguendo altri ragionamenti, ma non è questo il punto, secondo me. La questione di fondo sta nella “funzione pubblica” di Vendola, il quale ben si è guardato dal dare il benché minimo impulso alla maturazione di una cosa fondamentale: la legge sulle adozioni. Ecco perché tutto questo clamore. Lui si è potuto permettere ciò che ad altri è precluso perché è ricco. Allora, dico io, mettendo da parte ogni considerazione etica, ma chi – tra tutto questo circo equestre di personaggi che si scagliano contro la scelta di Vendola & Compagno – ha cercato di svecchiare la legge sulle adozioni? Nessuno (e basti vedere gli schiaffi che sono volati solo per la stepchild). Allora, dico, da piccolo osservatore: diamo una scrollata, signori politici, e diamo dignità alla vita compressa in certi istituti, al di là dei confini geografici, ché i bambini morti non basta solo fotografarli per avere un po’ di notorietà. Partendo dal presupposto, casomai ci fosse ancora bisogno di ricordarlo, che l’amore prescinde da pisellini e patatine, cerchiamo di farcene tutti carico, soprattutto adesso che ci siamo riuniti in Europa. Diamo un senso alla vita che nasce purtroppo disgraziata, non diamoci ulteriori problemi. E poi, cari cattolici, se Dio è amore e vuole solo la nostra felicità e il nostro amore, nessuno andrà all’inferno se libererà quei posti orribili che finiscono per “trofi” ché – banalmente, vero? – in una botta sola si potrebbero fare felici gratuitamente almeno tre persone.
L’ho detto.
grazie
@ Maurizio: non sapevo ci fossero degli studi sui bambini cresciuti da GPA… Sapresti dirmi dove posso trivare qualche articolo che ne parla in modo divulgativo (anche in inglese)?
prima del caso dei marò molti(gli stessi che da sempre sbandierano senza vergogna la solita ridicola sicumera su qualsiasi argomento)pensavano che gli indiani fossero solo quelli dei film di far west o dei cartoni animati, temo
https://www.youtube.com/watch?v=lBiZCKayXto
“se si parla di sfruttamento, se ne parli a tutto tondo, sempre, e non soltanto se questo riguarda il nostro grande mito, quello del materno”.
Non capisco perchè se si parla di sfruttamento lo si debba, obbligatoriamente, sempre, fare in maniera globale e al di là del fatto che mi sembra ben poco realistico: non ho mai visto post titolati “lo sfruttamento” e basta, si parte sempre e si approfondisce un tema per volta.
Non capisco perchè di volta in volta non si possa parlare di una particolare forma di sfruttamento, come nel caso dell’utero in affitto (o surrogacy che ci fa sentire meno in colpa), evidentemente sapendo che lo sfruttamento, del corpo così come della forza lavoro ad esempio, sono questioni gravissime e l’una non rende più lieve o marginale l’altra.
E non è questione di mito del materno, ovvero non lo è per tanti di noi.
Non tanto tempo fa anche qui si invocava la lotta di classe (legata al femminismo) e nel post di gennaio scorso (essere femminista) si diceva: “Per me, dunque, essere femminista significa battersi contro le disuguaglianze” e si precisavano le disuguaglianze riferite a donne, lgbt, migranti, vecchi, bambini, ecc, un discorso globale insomma. Benissimo. Penso che un pensiero alla lotta di classe e alle disuguaglianze sia doveroso riguardo anche il tema della surrogacy. Per questo dicevo che il mito c’entra poco.
Infatti, visto che lei è così attento, non le sarà sfuggito che la questione di classe, nel post, è stata toccata. Buon tutto.
@Francesca: ho qualche difficoltà a ritrovare le mie fonti, lette un bel po’ di tempo fa. Mi hanno però segnalato i lavori di questa ricercatrice (che io non ho ancora letto):http://www.cfr.cam.ac.uk/directory/SusanGolombok
E anche : http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24256993
Sommessamente, si può benissimo anche mandare a fanculo. Questa elegante premessa per sottolineare francamente che la frase pubblicata su facbeuk, per quanto complessa e sommessa , contiene delle gravi accuse agli interlocutori contrari all’utero in affitto, indubbiamente considerati delle persone moralmente indegne che strumentalizzano la vicenda per fini malevoli. Questo oltre a non essere sempre vero,( riconosceremo tutti i che le posizioni sono trasversali rispetto agli orientamenti politici culturali etc….) contribuisce a peggiorare il livello del dibattito in genere.
Sulle argomentazioni, devo dire che mi sono letto i lunghi commenti e al solito giganteggiano le solite argomentazioni al ribasso; si vuole ammettere la liceità di una pratica dannosa , diciamo almeno controversa, ricordandoci di come al mondo ci siano situazioni ancora peggiori . Così ecco là il lavoro in miniera, la prostituzione, la guerra, la migrazione, lo sfruttamento per 20 ore in fabbrica soggetta a crollo, la sperimentazione farmaceutica senza scrupoli, nonché le variegate abitudini sessuali dei maschi bonobo che si fecondano pure le proprie figlie.
Tutto questo come una pacca sulla spalla dovrebbe convincerci che (.. e andiamo!) cosa vuoi che sia l’utero in affitto … . Credo proprio che chi legge si convinca del contrario. Maurizio parla anche di vaghe paure ancestrali, consiglio di restare nel concreto e nell’attuale considerando come questa pratica sia pericolosa per i soggetti coinvolti, (per es. il bambino staccato dal corpo della madre subisce un danno oggettivo, cosi come è un danno per chiunque non conoscere i propri genitori ) e altrettanto costituisce un ferita nel rispetto dei diritti fondamentali del fanciullo del lavoratore e della persona in genere.
ciao,k.
Caro K. Scrivi su questo blog da molto tempo. Però piano con i vaffanculo. E’, sì, un avvertimento (uno di tre).
una precisazione importante: non è di Nichi Vendola che si dovrebbe discutere appunto, ma di un fenomeno e invece, ancora una volta, il mostro da sbattere in prima pagina non è stato risparmiato e immediato è stato il linciaggio mediatico, di taluni, nei suoi confronti.
Questo è squallido e ripugnante anche per chi, come me, giudica la surrogacy un’aberrazione totale, un’inaccettabile mercificazione del corpo delle donne, una riduzione a oggetto dei figli, in nome di un inesistente diritto ad avere figli.
Di fronte però alle storie personali ci si dovrebbe fermare e deporre armi e moralismo (perchè così si scade appunto nel moralismo, cosa detestabile, sempre), perciò mi unisco alle felicitazioni per Nichi Vendola, il suo compagno e il loro bambino appena nato, in qualsiasi modo sia nato.
Grazie
Premesso che in certi casi uno se la può pure tenere l’accusa di benaltrismo (magari perché ritiene non già che la questione “unioni civili” e quella “GPA” siano secondarie, ma perché tatticamente sono state date in pasto all’opinione pubblica nazionale per distoglierla dall’entrata in guerra dell’Italia sull’altra sponda del Mediterraneo, con un’astuta scelta dei tempi), c’è un passaggio nel post di Loredana che a mio avviso coglie un punto cruciale.
E’ quello che tocca la questione dei paletti legali o culturali.
Il sistema giurisprudenziale dei paesi occidentali è improntato all’individualismo liberale moderno e tende progressivamente verso il riconoscimento di diritti all’individuo, a prescindere dal genere, dal censo, dalla religione, eccetera.
Non è un caso che i paesi più liberali (e liberisti) del mondo, quelli anglosassoni, siano anche i più avanti su questa strada giuridica.
Tuttavia – come ci insegnavano un tempo i materialisti storici – riconoscere legalmente un diritto non significa di per sé che il suo esercizio venga sottratto ai rapporti di forza presenti nella società, anzi.
“Se si parla di sfruttamento”, dice Loredana, “se ne parli a tutto tondo, sempre, e non soltanto quando riguarda il nostro grande mito, quello materno”. Giustissimo. E siccome questo non ci sottrae dall’identificare lo sfruttamento nello specifico caso della GPA, da qui la richiesta di introdurre “tutti i paletti e le tutele possibili che impediscano lo sfruttamento […] delle donne che portano avanti la gestazione per altri”.
Qui sta l’inghippo. Impedire lo sfruttamento, in questo caso, significherebbe sottrarre la GPA allo scambio mercantile, togliere di mezzo il denaro o altre forme di “pagamento dell’affitto”. Diremo piuttosto che proprio come lo sfruttamento del lavoro dipendente è tutelato da leggi specifiche che limitano il potere del più forte (quando va bene), così si dovrebbero tutelare le donne che decidono di vendere non già la propria manodopera per un certo lasso di tempo, ma il proprio utero per un certo lasso di tempo (nove mesi).
Ci basta? Le due cose sono assimilabili? E’ su questo che nasce il disaccordo, mi pare. Lavorare otto ore al giorno per nove mesi è equiparabile a far crescere un essere umano dentro di sé? Sul piano della moderna filosofia del diritto, e quindi della legge, può esserlo, nel momento in cui ciascun individuo deve avere il diritto di disporre del proprio corpo. Tuttavia è un principio generale che – come tutti i principi – non può essere applicato alla lettera in ogni caso, dato che ad esempio la vendita dei propri organi interni troverebbe una resistenza culturale molto forte e difficilmente un avallo legale.
Ed ecco tirata in ballo la cultura. Cultura ed educazione, afferma Loredana nel post.
I paletti più forti dovrebbero trovarsi lì, dice. E allora ciascun@ di noi potrebbe iniziare col chiedersi: come vedrei il fatto che mia figlia scegliesse di praticare la gravidanza per conto di due sconosciuti in cambio di denaro? Fatto salvo (per legge, se vogliamo) il diritto che l’utero è suo e può farne ciò che vuole, non le domanderemmo se pensa di potersi far crescere dentro una vita, con tutti i rischi annessi e connessi, e gli eventuali ripensamenti e smottamenti emotivi, per poi partorire un essere umano e perderlo un istante dopo? Le diremmo che la gravidanza per conto terzi dietro compenso è un’affermazione di autodeterminazione femminile, o piuttosto che è un’affermazione dello sfruttamento di una coppia ricca su una donna bisognosa? Ogni aspetto della vita può essere regolato da un rapporto di scambio economico? O non dovremmo piuttosto cercare di riscattare quanto più possibile la vita dai rapporti di scambio economici? Ai nostri figli insegniamo che ogni possibile è fattibile?
Si potrebbe andare avanti un pezzo, sì, perché sono domande retoriche. Figlie dell’umanesimo cristiano, del maledetto materialismo dialettico e di altra chincaglieria dei secoli addietro. E, tra l’altro, ammetto che questo è l’unico posto della rete dove mi viene voglia di farle, perché altrove, nel marasma dei social, mi sembrano regnare piuttosto l’isteria e le urla. Un chiasso infernale che copre perfettamente il ronzio dei droni in decollo.
Molto, molto importante quello che scrivi, Wu Ming 4. Aggiungo un tassello. E se quella gestazione per altri fosse portata avanti laddove quell'”altri” è una persona che ci è cara, come una sorella, o un’amica che amiamo, sarebbe giusto impedirla per legge? Come sempre, non ho risposte certe. Però non riesco a evitare di pormi la domanda.
Aggiungo questo, per completezza di informazione di tutte e tutti.
http://www.wired.it/attualita/politica/2016/03/03/legge-maternita-surrogata-inizio/
La mia risposta, parziale finché si vuole (ché le certezze in questo campo le lascio ai fanatici), è che in quel caso l’elemento di scambio economico verrebbe meno. Si tratterebbe di un dono. I difensori di una certa idea di maternità sarebbero comunque sulle barricate, ma l’intera faccenda, almeno al lato pratico, assumerebbe un aspetto ben diverso.
Wu Ming 4: ammetto di pensare soprattutto in questi termini alla questione della Gpa. Non nego che ne esistano altri, ovviamente: ma l’idea che una legge possa proibire quel dono mi provoca turbamento.
su questo argomento, ad oggi, ho delle certezze granitiche: sono un fanatico?!?
Wu Ming 4: sappiamo però che il dono non può essere totalmente gratuito. Si tratta di ospitare una vita per un certo periodo di tempo, si viene sottratti dal lavoro, ci sono spese mediche da sostenere….non è come donare il sangue, nonostante in alcuni paesi si venga rimborsati anche per quello, e per questo mi sembra giusto che chi compia un gesto simile sia tutelato anche a livello economico.
Se nel caso di GPA fra conoscenti o famigliari, l’unica obiezione è il benessere messo in pericolo del figlio, che non sembra esserci, e dunque non ci sono obiezioni valide, per i nostri valori, nel caso di GPA fra sconosciuti si può dire che impedirla o limitarla ai soli casi di donazione può limitare lo sfruttamento. Però si può anche pensare che lo sfruttamento si elimina attraverso il giusto compenso, alto. Una donna povera senza GPA rimane povera e probabilmente con figli. Una donna povera con GPA ben pagata avrebbe un figlio in meno da crescere e più soldi per vivere.
@ Wu Ming 4: l’argomento del dono ritorna spesso, da parte di chi solleva perplessità sulla GPA (“OK, purché sia gratuita”). Personalmente, non ho nulla contro il denaro in sé, e molto contro l’uso distorto che se ne fa a fini dell’esercizio di potere su altre persone. Mi chiedo (senza alcun intento polemico, in totale sincerità) se in questo rifiuto dello scambio mercantile non ci sia molta eredità cattolica. Per me il denaro non è lo sterco del demonio, anche se è uno strumento estremamente difficile da inquadrare concettualmente e ancora più complicato da usare praticamente. Qui, secondo me, si tratta di andare al cuore della questione, che è l’esigenza di impedire lo sfruttamento della donna portatrice; e, per imperfetta che sia (come sempre sono le soluzioni umane), a me non sembra male una normativa che preveda l’accertamento di una condizione di non indigenza, per le donne che si propongono; in modo tale che non si trovino a dipendere crucialmente dal denaro che possono incamerare con una GPA. Accompagnerei questa indagine “materiale” con un percorso di tipo psicologico, in modo simile a quanto si fa già per le adozioni, in modo da aiutare la donna aspirante gestante per altri a consolidare la sua consapevolezza (o magari tirarsi indietro, se scopre remore che non sospettava di avere). L’obiezione classica a questo discorso è che resterebbero ben poche donne, a quel punto, a rendersi disponibili; il che a me sembra un falso problema: dove sta scritto che debbano essere tante? Del resto anche la domanda, a meno di crescite esponenziali al momento non ipotizzabili, non è tale da richiedere schiere di gestanti. Aggiungo che, come sempre succede, il danno più grave secondo me viene dai divieti puri e semplici: non potendo vietare la cosa su scala planetaria, è inevitabile che molti di quelli/e che trovano un ostacolo nel proprio paese vadano a fare certe cose altrove, e magari proprio dove non ci sono garanzie; la regolamentazione avrebbe il merito di evitare pratiche di sfruttamento, anche in paesi remoti. E di tutelare diritti alla scelta che, per estremi che possano sembrare, a me sembrano pur sempre ricadere nella sfera delle libertà individuali.
Maurizio, ti quoto in toto (orrore! 😉 ). Per l’analisi delle paure e per la postilla sul denaro. Comunque, a quanto mi consta, in California le donne che si propongono per la GPA sono sottoposte a selezioni proprio identiche a quelle che tu descrivi: devono aver avuto almeno un figlio proprio con gravidanza perfetta e parto naturale, devono avere una famiglia propria, un buon reddito e un equilibrio psichico. Un ciao a te e un grazie a Loredana, per le sue osservazioni sempre dritte come spade, e poi per questo spazio.
curiosità, Rita Charbonnier: al figlio di quelle californiane idonee con famiglia propria (in diversi casi figlio anche grandicello), che vede la madre incinta, poi tornare da sola dalla clinica, cosa si racconta, ovviamente con appropriate parole ma di verità? E come vivranno questa situazione secondo lei?
Daniele, le rispondo con una video-intervista a una di costoro:
http://www.la7.it/piazzapulita/video/la-scelta-di-michelle-madre-surrogata-15-01-2016-172006
Noterà come risponde anche alla sua domanda.
Molto, molto vicina a queste tue riflessioni, in questi giorni. Molto stupita da tante prese di posizione diverse da parte di chi non credevo. L’unica cosa su cui non concordo del tutto è il ruolo della carne. Sono certa che c’è, è importante e per nulla scisso dell’anima. Ma nella nostra identità e nella genitorialità si manifesta, come tutto ciò che siamo, in modo complesso assai. E gli esiti non sono scontati né uguali per tutti. Di fatto, anche solo stando alla biologia, ciò che si perdona alla madre fertile non si tollera nel genitore sterile.
cara Rita Charbonnier,
andrò a vedere quello che mi propone, ma non è la singola testimonianza che mi interessa: ne ho avuto abbastanza di una testimonianza, vista un paio di mesi fa a Matrix (programma conduzione Telese) in cui una (per me) “pazza” raccontava del suo desiderio di essere perennemente incinta e della scelta di prestarsi alla surrogacy per questo motivo, non volendo tra l’altro suo marito altri figli. Allora io intanto mi domando se sia giusto assecondare questi “deisderi” di persone evidentemente un po’ “stravaganti”.
In secondo luogo, il punto di partenza è il diritto e non tutti i desideri secondo me sono o devono diventare diritti; per dire, le decisioni di noi genitori a volte fanno soffrire i figli, ma c’è decisione e decisione: una cosa è mettere in conto la sofferenza di mio figlio nel momento in cui divorzio, sofferenza che può essere anche grande, oppure piccola, e indipendentemente dall’adeguatezza delle mie spiegazioni. In questo caso il diritto a una vita serena e lontana da un compagno o compagna con cui non posso più stare, per tanti motivi, è un diritto reale mi pare e l’eventuale sofferenza di mio figlio la terrò in conto, non potendo però agire diversamente.
Altra cosa è ritenere di avere diritto a un figlio proprio, a tutti i costi, e che lo stato ci debba assecondare in questo. Il punto per me sta qua.
Quindi vale anche per gli infertili eterosessuali e la fecondazione eterologa, immagino. Se Dio, o la Natura, non ci concede un figlio, piccolo punto.
Amici di lipperatura, ho immaginato che questa interessante discussione invece che riguardare l’utero in affitto ( o GpA), riguardasse un argomento molto simile, chiamiamolo FpA, filiazione per altri, cioè la possibilità di una coppia, in particolare la madre, di offrire il proprio nascituro a un’altra persona o coppia che ne faccia richiesta. Insomma, la donna in stato interessante oltre ad avere la possibilità di tenere o abortire il bambino, avrebbe una terza chance, quella cioè di cederlo preventivamente, tramite contratto e rimborso spese, a una coppia che ne faccia richiesta. Ecco credo proprio che le stesse argomentazioni, tesi confutazioni sulla GpA, si adatterebbero perfettamente anche a questa pratica . Da un lato alcuni come Daniele parlerebbero di mercificazione e sfruttamento della persona umana , altri come Maurizio invocherebbero la possibilità di disporre del proprio corpo, di esercitare una libertà individuale, la famosa libertà di scelta. Potrebbero esserci posizioni intermedie, come la lipperini che si oppone al commercio ma non vorrebbe vietare la possibilità di un utilizzo senza scopo lucro: perché una donna o una coppia non potrebbe “volontariamente cedere il proprio bambino a una cara coppia amica che non riesce ad avere figli? Wuming credo si terrebbe i suoi dubbi. Rita Charbonnier scoverebbe certo qualche intervista delle iene, dove partorienti felici parlano della loro vocazione a sfornare i figli per coppie che non potevano averli. Stefano sarebbe d’accordo purchè il compenso sia abbastanza alto, centiduecimilieuri. Fior di studi oltreoceanici certificherebbero quanto bambini aquisiti tramite FpA ( filiazione per altri), sono belli e intelligenti rispetto a quelli di famiglie naturali del Darfur I più appunto, direbbero che alla fine, per una donna povera è meglio guadagnare qualcosa così che essere sfruttata in miniera. Certo potrebbero avvenire delle mercificazioni estreme come per es. un App, dove previa iscrizione vengono messe in contatto coppie sterili e ragazze in cinta desiderose di cedere il proprio figlio ( filiazione per altri). Ma insomma siamo sicuri che sarebbe un male? Messe da parte le paure ancestrali anche i cattolici potrebbero dover ammettere che così si salverebbero più vite umane. L’importante sarebbe al solito regolamentare, mettere dei paletti, più culturali che legislativi che in qualche maniera riuscissero a distinguerci dalle scimmie bonobo e dalle ghiandaie, ma credetemi non è facile ilmondo scricchiola
Bau,k.
Non ne faccio una questione di omo o etero, l’eterologa mi pare un’altra questione che a me turba poco e di Dio mi importa diciamo il giusto …
Dico solo che, personalmente, continuo a reputare la surrogacy un abominio.
E i limiti ci sono, per ognuno di noi, perchè in ogni caso, surrogacy o meno, le sempre maggiori possibilità che la scienza ci potrà anche offrire, non saranno mai illimitate e, sempre personalmente, non considero lecito tutto ciò che è reso possibile. Avevo postato giorni fa un articolo di tale Valentina Pazè che, a questo proposito, ricordava l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Io sono d’accordo con lei.
A me veniva in mente un racconto di Maupassant che s’ intitola La mere aux monstres, la madre dei mostri. (NON per dire che i figli nati da maternità surrogata siano mostri; mostri o angioletti non c’entra niente)
E’ la storia di una contadinona nerboruta disprezzata da tutti e detta la Diavola, perché aveva dato alla luce un figlio deforme con sembianze di ragno. Un giorno ad un direttore di un circo capita di vedere questo figlio e lo assume come fenomeno da baraccone. Ha un grande successo ed il direttore chiede alla madre se per caso non ne abbia altri. La Diavola, che è molto feconda, impara a partorire mostri su misura; a seconda di come stringa il corsetto che indossa durante la gravidanza, è in grado di produrne di tutti i tipi, con la testa a forma di pera o simili a lucertole; ne fa undici e per quelli riusciti meglio vengono organizzate delle vere e proprie aste tra i circhi.
Al narratore, anni dopo capita di ripensare a quella contadinona madre di mostri quando vede su di una spiaggia alla moda una parigina giovane ricca e bella, con attorno tanti uomini che la rispettano; poco oltre vede due pargoletti deformi che giocano sulla sabbia, sono i figli della parigina, che per mantenersi bella e magra durante le gravidanze aveva indossato anche lei il corsetto.
La cosa che mi sembra ipocrita è questo fatto che laddove la maternità surrogata sia legale, una donna debba per forza avere un buon reddito per poter portare avanti la gestazione. Mi pare assai paternalistico e crudele che alla donna che lo faccia per necessità venga impedito per tutelare un suo fantomatico diritto di non essere sfruttata. Mi sembra giustissimo l’invito ad andare a vedere come questo diritto venga applicato in altri campi infatti!
Si faccia piuttosto una graduatoria per cui chi è più povera abbia il diritto, nel caso voglia, di fare da madre surrogata per prima. Ne verrebbe una specie di lista d’attesa simile a quella delle case popolari, in cui volontari uteri popolari attendono d’essere presi in affitto da ricche coppie.
E’ tutto molto grottesco e da un altro punto di vista tragico. E’ una pratica che comunque secondo me non dovrebbe essere vietata. Ha una differenza con l’ipotesi della vendita dei propri organi, ossia che al di là di tutto alla fine qui c’è un piccolo mostro in più, cosa che chi abbia ancora un briciolo di fiducia nell’essere umano, non può paragonare ad un rene in meno.
Simone molto interessante il tuo messaggio, certo non facilissimo da decifrare. la cosa che mi ha fatto venire in mente a me, è come sia contraddittoria o (lacerata) la figura della donna che affitta il suo utero. Da un lato alcuni la immaginano una persona amica, parente, della coppia che prenderà il bambino, in questo modo tutto si ricomporrebbe nel rassicurante ambito familiare tradizionale. Dall’altro la si vuole il più possibile estranea alla coppia per evitare future rivalse, resta però come un entità oscura minacciosa, come giustamente fai notare te, si sente il bisogno di differenziarla dagli altri lavoratori, curiosamente non può fornire la sua prestazione per necessità , non può essere una ragazza povera, si sente il bisogno di “ricoprirla d’oro”, per potersi forse liberare di lei e dei sensi di colpa. dalla mostruosità
Un essere umano in più non può essere equiparato a un rene in meno. Mi pare condivisibile. Per questo, dicevo giorni fa, non è possibile limitarsi ad enunciare il diritto all’autodeterminazione, a fare del proprio corpo ciò che si vuole. Altrimenti ci troveremmo a sostenere un assurdo logico: cioè che siccome c’è gente povera spinta a certe scelte dalla necessità, il nostro problema è semplicemente quello di regolamentare lo sfruttamento dei corpi e agire per ridurre il più possibile le cause materiali di certe scelte. In alcuni casi può pure essere vero, ma se applicassimo questo principio come un assoluto dovremmo garantire attraverso una legge la possibilità di vendere i propri organi dietro equo compenso, in modo da evitare che un tale commercio possa avvenire “in nero”, senza garanzie, eccetera, in attesa che il mondo diventi più giusto e più equo. Di contro, è pacifico che si possa donare un rene a un congiunto che ne abbia necessità. In quel caso la differenza tra compra-vendita e dono la percepiamo piuttosto nettamente, direi.
Ancora diverso è il caso della prostituzione e diverso ancora quello dell’interruzione volontaria di gravidanza, che ho visto tirati in ballo in certe discussioni.
Se troviamo inaccettabile che si possa costringere una donna a portare avanti una gravidanza indesiderata, o se siamo disposti ad accettare la prostituzione come libera professione, ovvero libero scambio economico (laddove la “cresta” dello stato si sostituisce a quella del pappone, eliminando violenza e prevaricazione) allora, ci viene detto, dovremmo trovare inoppugnabile il fatto che una donna offra il proprio utero e nove mesi di gravidanza in cambio di equo compenso. Qualcun@ dice che sarebbe ipocrita negare a una donna questa possibilità se poi si accetta serenamente che la medesima lasci i propri figli in Romania per trasferirsi in Italia e venire a pulirci casa due volte a settimana. Anche in quel caso infatti si tratterebbe – per usare le mie stesse parole – di “sfruttamento di una coppia ricca su una donna povera”.
Si torna quindi al punto, o ai miei dubbi, come li ha richiamati qualcuno qui nel thread: la gravidanza può essere equiparata a una prestazione lavorativa? A questa equiparazione esiste una resistenza culturale degna di qualche fondamento? Se esiste, è un mero retaggio della cultura cattolica? In altre culture com’è recepita?
Infine, chiedo venia, ma mi resta sempre quella domanda, che mi fa sentire vecchio, ma che per me rimane importante: cosa consiglieremmo di fare a nostra figlia?
E a Loredana, che seguo sempre e apprezzo infinitamente, domando, parlando dalla posizione di una donna del pensiero della differenza
( stigmatizzata con tanto garbo poco sopra) : quello della madre è un mito ( è questa una parola di peso, quale che sia il senso che vogliamo attribuirle) o per meglio dire una superstizione, uno stereotipo, una zavorra culturale di cui culturalmente – e rapidamente- liberarci alla luce delle possibilità che le biotecnologie ci mettono a disposizione? E quanto al ” piccolo punto”, cui sarebbero condannati o obbligati quanti e quante, per ragioni diverse non potessero avere figli: davvero dobbiamo credere, praticando di nuovo un riduzionismo biologico, che non esista altra possibilità di stare con pienezza, felicità, amore e senso al mondo se non diventando biologicamente madri e padri? Attenzione, anche in questo caso non generalizzo: ci sono i desideri e le soggettività, di uomini e di donne che vanno ascoltate e rispettate: di avere figli, di non averne, di farsi ben più che una ragione di non averne. Senza essere costretti al piccolo punto.
anch’io mi sento vecchio alla stessa maniera di Wu Ming e faccio mia la sua ultima domanda cruciale. 🙂
@ WM4
Il principio di autodeterminazione chiaramente non sta nel vuoto. E non ne deriva poi un effetto legislativo. Uno è libero di suicidarsi, ma non per questo lo Stato ti mette a disposizione delle cabine per farlo. Io lo farei, ma la cosa non è automatica. E lo stesso per la vendita di organi. Lo Stato può riconoscere l’autodeterminazione, ma senza poi mettere a disposizione le sue strutture. Potrebbe evitare o meno di proibire sia chi vende e sia chi compra, o solo uno dei due soggetti. In questo caso, come nella prostituzione, il principio dell’autodeterminazione viene fuori poiché non ci sono appigli morali per impedire a una persona di fare queste cose. Però non è che chi sostiene l’autodeterminazione sia così fuori dal mondo da non capire il contesto. Qualcuno lo sarà pure. L’autodeterminazione è solo un punto di partenza, poi viene tutto il resto, solo che ci si ritrova a ribadirlo perché ci sono persone che hanno problemi con l’etica e con gli altri. L’articolo di Loredana smaschera certe persone, che non sanno come argomentare il loro dissenso e tirano in ballo lo sfruttamento, come succede con la prostituzione, come se ogni caso fosse uguale. Però allo stesso tempo questo non dice nulla sulla cosa in sé, perché lo sfruttamento esiste. Ma non tutto lo sfruttamento è sbagliato. Per questo non mi metterei a farne una questione di equiparazione col lavoro, sia perché il punto non è se sia o meno un lavoro, e sia perché il lavoro non ha uno statuto speciale; anche i mafiosi lavorano. Può esserlo come no, ma non importa. Si discute caso per caso. Cosa ci sentiamo di consigliare a nostra figlia è un punto di partenza per capire quali sono i nostri sentimenti nei confronti di una qualche pratica, ma poi questi sentimenti vanno soppesati. Molti genitori non consiglierebbero alle figlie di uscire di sera e di vestirsi in un certo modo, il che ha una parte buona e una no. Chi consiglierebbe a una figlia di prostituirsi? Eppure così si rafforza lo stigma verso chi si prostituisce. Senza contare che è probabile che la propria figlia avrà molti rapporti gratuiti non appaganti quando non proprio penosi. Almeno farci due soldi è utile. In altre parole noi sconsigliamo di fare ciò che pensiamo sia brutto per noi, ma dovremmo sconsigliare solo ciò che è brutto per l’altro, e un genitore è portato a confondere le cose e a pensare di sapere quale sia il bene per il figlio. Il problema è che nessuno può sapere prima come sarà quello che si vuole fare. Più che consigliare di fare o non fare, è meglio consigliare solo di pensarci parecchio.
Wu Ming 4: non posso rispondere all’ultima domanda se non con il solito “dipende”. Dipende dalle circostanze, dal motivo della scelta, da quanto quella scelta è profonda e convinta.
@ Stefano e Loredana
“un genitore è portato a confondere le cose e a pensare di sapere quale sia il bene per il figlio”.
Il problema, Stefano, non è tanto che si è portati a pensare di sapere quale sia il bene per i figli, ma che per un bel pezzo, almeno finché non ci lasciano, in quanto genitori si è *tenuti* a sapere qual è il loro bene e a scegliere per loro. Il fatto che quando crescono dovranno trovare da sé le risposte trasforma i nostri precetti in consigli, appunto, ma ne cambia solo lo stato, non il contenuto.
Direi a mio figlio che siccome nella vita gli capiterà di avere svariati rapporti sessuali insoddisfacenti tanto vale che li metta a frutto prostituendosi, perché “almeno farci due soldi è utile”? Sarebbe l’utile il criterio del mio consiglio? Temo di no. Questo significa che lo stigmatizzerei se decidesse di farlo? Non credo, se lo vedessi soddisfatto di ciò che fa. Come dice Loredana, riferendosi in questo caso alla gravidanza per altri: “Dipende dalle circostanze, dal motivo della scelta, da quanto quella scelta è profonda e convinta.”
Quindi, per tornare al discorso di Stefano: “Cosa ci sentiamo di consigliare a nostra figlia è un punto di partenza per capire quali sono i nostri sentimenti nei confronti di una qualche pratica, ma poi questi sentimenti vanno soppesati”, quindi l’unica cosa corretta che possiamo fare è “consigliare di pensarci parecchio”. Molto saggio. Eppure i nostri sentimenti e il nostro giudizio morale non sono fattori indifferenti (né per noi né per le persone che cresciamo). Intendo dire che pensare di vivere senza una qualche idea morale, senza un’etica, per quanto vaga e declinabile diversamente caso per caso, è piuttosto implausibile. Non è vero che è l’utile a guidare le nostre azioni, non sempre almeno.
Infine potrei anche aggiungere, per rimescolare ancora un po’ i miei dubbi, che se è un’idea morale a ispirare la legge, tuttavia la pretesa di fare coincidere legge e morale è un abominio da stato etico o teocratico.
Tutto sommato, in effetti, ho l’impressione di non essere molto utile alla discussione, ma ci ho provato 🙂
più o meno mi pare siamo d’accordo in una posizione mediana che intanto faccia distinzione tra GPA e GPA; che non preveda la proibizione totale né l’assenza di paletti, in base all’idea che l’autodeterminazione ha bisogno di essere supportata dalla possibilità di scegliere. Anche se questo lo richiediamo di più arbitrariamente per la GPA e meno per un altro lavoro qualsiasi. La morale in fondo non è razionale. Poi credo siamo anche d’accordo sul distinguere ciò che non piace a noi con ciò che si può o meno fare. Io spingo a certe situazioni, l’utile al posto di rapporti insoddisfacenti (però succede: pensiamo a una donna che per stare dietro ai sentimenti si è sposata con un marito pessimo, quando poteva godersela di più e guadagnarci sopra), più che altro per mostrare come ci siano vari fattori nella questione, e che il bene o il male che accadono non dipendono direttamente dai principi che ci guidano. E poi anche le gravidanze per se stesse sono una faccenda complicata. Ci sono tante donne che non sono state felici né di partorire né di essere madri, né mogli; e non potevano saperlo prima. Per cui certamente quello che diremmo a un figlio è quantomeno una bussola per orientarsi, con l’accortezza di fare ogni tanto una revisione alla bussola, e di accettare che una bussola più di tanto non fa.
Le parole di Elvira e Wu Ming 4 mi sembrano qui le più misurate e adatte a leggere la situazione senza scadere nell’arroganza. Carne, corpo, paternità e maternità… sono tutti, in parte, dei “paletti” che utilizziamo strategicamente, in molte occasioni. E a chi si scaglia contro le femministe, consiglierei forse di leggere bene le posizioni di ciascuno, prima di esprimere giudizi sommari.
Se mia figlia volesse affrontare una scelta del genere, le starei vicino cercando di capire con lei cosa davvero significhi separarsi da un corpo che cresce dentro di te 9 mesi. Ma non sono affatto sicura di come reagirei se lei abbracciasse quella scelta con convinzione.
Ho peraltro assistito in diretta a una situazione di GPA richiesta e rifiutata: a un’amica è stato chiesto questo particolare “dono” dalla sorella; la mia amica ha rifiutato, perché non avrebbe mai voluto separarsi da un bimbo cresciutole dentro per 9 mesi, e il risultato è stato un enorme e dolorosissimo conflitto durato anni. Non si sono mai più parlate, se non brevissimamente al funerale del padre. Chi aveva ragione e chi torto? Alla fine la sorella e il marito (entrambi affetti da problemi di sterilità) hanno rinunciato a diventare genitori, mentre la mia amica è rimasta scossa a vita, ha praticamente perso una sorella. Per colpa di chi? Del “paletto culturale”? Chi è stato egoista in questo caso?
mi inserisco solo per ricordare, da inguaribile romantico, che qualche volta l'”andar dietro ai sentimenti” e il “godersela” possono co-esistere senza negare che possa capitare quel che dice stefano. Anche se aggiungo che certo esiste chi si pente di aver iniziato una relazione sentimentale con quell’uomo o quella donna, ma non conosco nessuno che si penta di essersi innamorato, di aver provato quel sentimento (certo forse esiste anche chi si pente di essersi innamorato però lo trovo triste). Mi rendo conto che sono OT, scusate.
Serena,
spero di non risultarle troppo terra-terra e men che meno arrogante, ma mi risulta che la gravidanza in certi casi può presentare dei rischi, inaspettati talvolta, fino addirittura alla morte: basti pensare ai recentissimi casi di quelle cinque donne morte in gravidanza, nel giro di una settimana se non ricordo male; di sicuro una bizzarra e crudele coincidenza, però è capitato, qui da noi…
Mi chiedo una cosa. Qualcuno dei commentatori che pontificano firmandosi con il solo nome proprio o addirittura con una lettera puntata, un bambino nato da una surrogacy l’ha mai *visto in faccia*? Ha mai interloquito con un genitore di un figlio nato in tal modo, con una surrogata? (Che non è la madre biologica: quella è la donatrice dell’ovulo?)
Mi sembra che l’unica persona che qui abbia testimoniato una conoscenza personale della questione, ancorché indiretta e relativa a una situazione dolorosissima e irrisolta, sia Serena. Che ringrazio.
Cosiddetto/a “k.”, ho molto riso nel leggere il tuo commento nel quale mi attribuisci il gusto di reperire video di storie pazze/estreme (anche se, ti dirò, non guardo quel programma né molti altri), ma qui non si tratta di andare a cercare gente squilibrata la cui testimonianza supporti una qualche tesi. Il mio era un mero tentativo, visto che siamo su Internet e non ci vediamo in faccia e non sappiamo nemmeno come ci chiamiamo, o almeno io non ho questo piacere, di mostrare a chi evidentemente per la prima volta nella propria vita o suppergiù si trova di fronte alla questione, sulla quale pone una domanda di vissuto, come l’abbia vissuta qualcuno che l’ha vissuta. E l’ho fatto nell’unico modo che il comunicare stando ognuno a casa propria consente. Avrei potuto inserire altre testimonianze (ve ne sono anche di negative, ovviamente) ma se metti molti link vai a finire in coda di spam; e quella, in particolare, rispondeva alla domanda di daniele con la d minuscola.
Mi fa veramente strano che un contributo, ancorché piccolo e modesto, alla conoscenza della questione sia interpretato come una titillante caccia al mostro televisivo. (Dovrò riflettere sulla cosa). Se poi uno ti risponde “non me ne frega niente delle testimonianze dirette perché mi è bastata quella che ha formato la mia opinione avversa”, pace.
Senz’altro è opportuno che si parli astrattamente di qualcosa, figuriamoci. Senz’altro si possono fare i processi in absentia. Però, e mi si perdoni la scarsa modestia, ho sperimentato di persona come, nel momento in cui si tocca con mano una realtà come questa, che inevitabilmente spaventa, ci si formi (conoscendola) un’idea più articolata e piena della medesima; meno condizionata, appunto, dalla paura. In questo senso la domanda di Wu Ming mi sembra tuttora, a bocce quasi ferme, una domanda chiave: a tua figlia, cosa diresti di fare? Ecco, un bel giorno tua figlia arriva e ti dice sai papà, voglio fare la gravidanza per la mia amica carissima che ha subito un’isterectomia. Ovviamente bisogna pensarci parecchio, come dice Stefano; e per “pensarci meglio”, prima di dare qualunque consiglio a quella figlia, il genitore ci parlerà per comprendere le ragioni profonde di tale suo desiderio (come dice Loredana), e poi parlerà anche con l’amica senza utero, e poi con medici, e psicologi, e filosofi, e ministri della fede se ce l’ha, e poi sì, anche con persone che hanno già fatto l’esperienza. Leggerà inoltre tutto quello che potrà sull’argomento e magari, se vorrà, ne disquisirà in rete con gente che conosce, e anche no; e se ha la fortuna di poter leggere in inglese, farà una ricerca web approfondita perché in quella lingua, su questi argomenti, volendo, si trova il mondo.
O no?
Rita Charbonnier,
a proposito del problemone del nome e cognome, la “domanda chiave” di chi … ?
🙂
@Mauro: ci ho messo un po’ a capire la battuta. Il secondo caffè mi ha aiutata. Anche da parte mia, un sorriso informatizzato, quindi sostitutivo, quindi, in qualche modo, surrogato 😀
Rita hai ragione, escogitando “ le iene” come tua possibile fonte di informazione, ho voluto sminuire la testimonianza e in fondo anche chi questa testimonianza riporta. In realtà, nell’economia del mio post, l’intenzione non era quella di sminuire le argomentazioni tue (e degli altri), ma mostrare come tutte queste argomentazioni, ma proprio tutte anche quelle più autorevoli si adatterebbero perfettamente alla pratica della vendita dell’infante da parte di coppie che se ne vogliono disfare. Se leggi, ( te ma anche gli altri) viti chiederei se puoi fornire la tua opinione sul merito, cioè se sarebbe lecito per te che una coppia ceda, previo contratto e rimborso spese, il proprio figlio naturale a un’altra donna che causa isterectomia non ne può avere. Cambia qualcosa?
Volevo anche dire che la domanda di wuming, quando usata a livello legislativo, potrebbe anche apparire a qualcheduno reazionaria, paternalistica. Alla fine però mi chiedo se è è giusto per chi pensa ad una legge avere un atteggiamento diverso. Stefano più su, da finto progressista, ipotizzava uno stato che offre a tutti larga disponibilità di cabine per il suicidio individuale. aggiungo io che potebbero addirittura esserci cabine dove chi vuole uccidere e seviziare qualcun altro per “provare che gusto c’è” si incontra tramite App con chi vuole essere ucciso per lo stesso motivo. Anche questa è libertà anche questa è autodeterminazione. Volendo si trova il modo. O no?
ciao,k.
@K., e anche qualcun altro che se non erro vi aveva accennato, in effetti anche la pratica che descrivi, perlomeno in America, perlomeno in alcuni stati, è assai consolidata – e, a proposito di televisione, è anche raccontata in numerose serie e film.
La sedicenne americana che rimane accidentalmente incinta, tipicamente, se non vuole tenerlo, porta a termine la gravidanza e poi dà il bambino in adozione. E a chi? A chi vuole lei. Ha facoltà di scegliere la coppia, eterosessuale o omosessuale, o anche il singolo individuo, all’interno di una rosa di candidati che le vengono proposti da una di quelle agenzie che negli USA gestiscono tutte queste cose. Una volta che li ha scelti, e che loro hanno scelto lei, si stipula un vero e proprio contratto che può prevedere il pagamento, da parte dei genitori intenzionali, delle spese sanitarie relative alla gestazione (e forse anche una somma a prescindere, non lo so e francamente tutta questa enfasi sul passaggio di denaro non mi sembra interessante). Si decide anche se la ragazza avrà o meno, in seguito, facoltà di frequentare la famiglia adottiva del bambino e il bambino stesso, ma soprattutto, poiché lei è la madre biologica a tutti gli effetti (mentre la classica “portatrice” della GPA *non lo è*), e poiché l’accordo con i genitori intenzionali è successivo al concepimento, ha il diritto di ripensarci e di tenersi il bambino, o addirittura di riprenderselo entro un determinato periodo di tempo!
La cosa è legale in America da tempo immemorabile. C’è un caso famoso: quello di Joan Crawford (passata alla storia per essere una pessima madre, almeno secondo la figlia Christina che le dedicò un libro terribile), che da single adottò diversi bambini, uno dei quali dovette restituire alla madre naturale perché lei cambiò idea e lo rivolle.
Che cosa ne penso io?
Che è una cosa civilissima, sensatissima, meravigliosamente pragmatica, che evita a una ragazza il trauma dell’aborto (io sono pro-aborto nel modo più assoluto, intendiamoci, ma so anche che è un trauma) e che dà un figlio a una coppia sterile; e che tutte le parti in causa sono correttamente tutelate, dal punto di vista pratico e anche psicologico, a partire dalla madre naturale.
Sinceramente non sapevo che in america la cosa esistesse da tempo immemorabile, anche a me comunque la cosa potrebbe sembrare civilissima e sensatissima, pensando appunto che la pratica è nata in tempi in cui la meravigliosa vita del bambino concepito era il valore da tutelare, e attorno a questa vita veniva accordato il coinvolgimento di coppie o persone terze. Nella globale deriva commerciale tecno liberista attuale, non ti nascondo che tutto mi sembra prendere una luce più cupa e fredda. Tutto sembra ruotare intenzionalmente intorno all’interesse economico, la vita e i diritti del bambino e delle parti coinvolte subordinati a questo commercio.
ciao,k.