Andiamo sul classico, via. Nello Ajello intervista, per Repubblica, Alberto Arbasino. Tutto vostro.
Ottant’anni compiuti il 22 gennaio, due volumi dei Meridiani di Mondadori che raccolgono le sue opere narrative (il secondo è appena uscito). E’ un’occasione per cercare di apprendere su Alberto Arbasino più cose di quante già si credeva di saperne. Questi Meridiani offrono numerose testimonianze di Arbasino su Arbasino, intitolate: Dossier. Un dossier, per definizione, non finisce mai. Ecco un pretesto di più per indurre lo scrittore al peccato dell’autobiografia, il più aggiornata possibile. Alberto, come pensavi che saresti stato ad ottant’anni? Ti prevedevi come oggi sei?
«Non ho mai fatto previsioni di questo tipo. Quando ero bambino o adolescente, era difficile immaginare di raggiungere un’età come la mia attuale».
Nel volume finale di questa tua quasi opera omnia sono compresi i libri di fiction che hai pubblicato a partire dal 1964. E ci si domanda che cosa sopravviva, nell’Arbasino 2010, del ribelle di quel lontano decennio. Eri schierato con la neo- avanguardia, nel “Gruppo 63”. Il tuo cognome valeva allora come sinonimo di critica culturale nei riguardi degli anziani. I criticati si chiamavano Visconti, Antonioni, Moravia, Strehler, Piovene. Ti divertivi?
«Certo che ci divertivamo. Avevamo un’idea alta e impegnativa dell’arte. Non ci interessava scrivere dei libri per venderli. Se ammiravamo Gadda, Palazzeschi, Comisso, Montale e Saba, era anche perché non avevano mai cercato di fare soldi con la letteratura. Ci trovavamo in pieno boom, anche editoriale. Sbiadiva la sindrome secolare dello scrittore povero in canna e pronto a compiacere il potere. Si allontanava nel ricordo quel fascismo che avevamo intravisto da bambini. Potevamo parlare liberamente, ecco la novità. Perciò sembravamo irrispettosi, irriverenti».
Ma quello spiritoso terrorismo contro i monumenti della cultura militante, chi ve lo aveva insegnato?
«Le buone letture. Durante la guerra erano usciti da Einaudi e da Bompiani alcune raccolte di articoli di giornalisti inglesi del Settecento. Erano esempi di brillante, vivacissima maldicenza. Un altro modello era George Bernard Shaw, oltre che narratore, critico puntuale e paradossale. Poi scoprii anche il Gramsci polemista. Leggeri, spigliati, antiaccademici, i corsivi e le noterelle culturali da lui pubblicati nella rubrica “Sotto la mole” dell’ Ordine nuovo erano altrettante lezioni».
Lezioni preziose per farsi beffa dell’establishment. Ma, secondo te, l’establishment esiste ancora? E tu ne fai parte?
«Come si fa a parlare di establishment oggi, dal momento che tutto è alternativo e trasgressivo e si fanno soprattutto provocazioni fuori dal coro. A volte io stesso mi domando se faccio parte del coro o ne sono fuori».
Alberto Moravia – che pure detestava, ricambiato, la neoavanguardia – cominciò presto a definirti «uno scrittore nato». Fra i tuoi libri preferiva Le piccole vacanze, La bella di Lodi, L’anonimo lombardo. E tu, se delle opere che hai scritto potessi salvarne una sola, quale sceglieresti?
« Fratelli d’Italia. La prima edizione, che risale al 1963, è quella riprodotta nei Meridiani. Nell’ultima versione, pubblicata da Adelphi, ci sono tante conversazioni fra giovani. Allora, anni Sessanta, non esistevano né la televisione né Internet, e quindi si passavano le nottate chiacchierando fra amici».
Arbasino, ti diverti ancora?
«Mi diverto con le arti, le opere, i concerti. Spesso faccio dei viaggi».
Ma i viaggi li facevi anche cinquant’anni fa.
«Ne facevo molti di più. A una certa età le opere più importanti si sono viste e sentite tante volte, e così le mostre dei grandi pittori. Le occasioni diminuiscono».
Ti stai arrendendo alla nostalgia. Vergogna!
«Nostalgia? Ci sono le foto dei luoghi, le registrazioni musicali di mezzo secolo fa e di oggi. Si possono fare paragoni obiettivi. Basta controllare le pagine sugli spettacoli e le mostre per vedere cosa c’era allora a Milano o a Roma. Oltre tutto, si trovavano nei giornali recensioni di libri allora nuovi che sono tuttora fondamentali».
Poi la moda ha preso un altro giro. Degli anni Settanta tu hai lasciato un monumento negativo. Lo si trova in due saggi molto severi, In questo stato (1978) e Un paese senza (1980). «Quanto di peggio»: così definivi l’Italia di allora. Che cosa intendevi dire?
«Che sull’Italia gravava la cappa dell’ideologia. Anni di spranghe e di piombo. Di un’intolleranza che picchiava. Fu allora che ripresi a tornare in California, là dove davvero erano cominciati tutti i movimenti di liberazione».
C’è stato anche un Arbasino politico. Fra l ’83 e l’87 fosti deputato, eletto come indipendente nel Pri. Perché con i repubblicani? «Me lo chiesero Spadolini e Visentini, due personaggi come nella politica italiana non accade più di trovarne. Ero nella commissione Interni della Camera, con colleghi come Adolfo Sarti e Natalia Ginzburg: con loro si conversava in maniera utile e piacevole. Conservo invece un ricordo negativo della verbosità in aula».
E adesso?
«Non scorgo in politica personaggi di una statura interessante».
Perché non scrivi più libri di fiction?
«I miei racconti e romanzi parlavano di fatti e personaggi non fittizi. Allora mi domando quali siano, nell’Italia d’oggi, le figure degne d’essere raccontate. I politici, i sarti, gli industriali, i boiardi di Stato, o ancora i sindacalisti, i presentatorio le vallette tivù, le signore dei salotti o le mignotte? Non mi sembrano affascinanti».
Nei Meridiani non figura un tuo libro uscito alla fine del 2001. S’intitola Rap!. Raccoglie una produzione irregolare, legata all’attualità, tra pasticci, sberleffi e giochi di parole, eleganza e scurrilità. Ridicolizza – in versi – cult e pop, global e trend, Revolution, Devolution e Camp, «zombi, stronzi e cloni». C’è dentro l’Arbasino di questo terzo millennio, più che mai provocatore.
«Provocatore? Forse sì. Precisando però che, circa l’attualità, mi sembra più controcorrente una strofetta che un romanzo intero».
Tu sei un modello per molti scrittori più giovani di te. Puoi citarne qualcuno?
«Soprattutto Pier Vittorio Tondelli e Silvia Ballestra».
E’ come se scorgessero in te una perenne agilità mentale, un requisito di modernità. Eppure non adoperi il computer e diffidi del telefonino.
«Non uso computer e cellulari perché lavoro meglio senza. Andando su e giù per le scalette davanti alle librerie e maneggiando scatoloni di ritagli sui pavimenti si fa più fitness e wellness (cioè si recupera buona salute) che piantandosi davanti a un apparecchio».
Che cos’è quella che chiami «la vita bassa»?
Non uso spesso metafore. Però la vita bassa è un fenomeno che si può osservare sia nelle trippe fuori dei pantaloni che nella società attuale».
Fra lettere al direttore e Tangenziali di poche righe, la tua firma si trova spesso nei quotidiani. E’ un tuo vezzo?
«Considero quei mini-interventi un dovere culturale e civico. Si riferiscono, di solito, a qualche opinione espressa da altri su recenti fatti di cronaca. Avendo io accumulato per tanti anni esperienza e know how, è anche un modo per mettere a disposizione dei più giovani un archivio di memorie».
Parlami della casalinga di Voghera, tua metafora -principe.
«Tanti anni fa la casalinga di Voghera concentrava in sé tutto ciò che di arretrato e di piccoloborghese c’era in Italia. Da qualche tempo s’è aggiornata. Vive di provocazioni e di trasgressioni. E’ impietosa. Irriverente. Dissacrante. Ma rimane più piccoloborghese che mai, rappresentando la mutazioni del gregge cui appartiene».
Potrebbe partecipare a un raduno di no global? 0, che so io, di no-tav, di sì-tav?
«Come no? Sarebbe in prima fila. Con accessori griffati».
I conformisti dell’anticonformismo. Ecco i tuoi bersagli preferiti. Contro di loro si esercita la tua protesta, venata di moralismo. «Non gradisco passare per moralista. Siamo assediati da moralisti con il ditino alzato e dall’aria falsamente ironica. Quando leggo una frase molto moralistica, penso che la più efficace ciliegina sulla torta sarebbe un bel “Signora mia”».
Anche alla Lipperini, secondo me, ci si potrebbe rivolgere con il classico “Signora mia”. A parole progressista, di fatto uggiosa censuratrice della dissidenza…
ma nessuno gli ha mai chiesto chi fosse, veramente, Desideria?
In un mondo in cui “provocazione” è la parola più usata a Uomini e donne, i conformisti dell’anticonformismo sarebbe i no-global?
Secondo me Arbasino ha finito tutto quel che aveva da dire negli anni Settanta.