ARRIVARE A CENTO: VASSALLO E DE GREGORIO SUL VELO (E ALTRO)

Il brano che segue è tratto da “La velata”, corposo saggio introduttivo di Concita De Gregorio & Nicla Vassallo, per il volume, da poco in libreria, della sociologa algerino-newyorkese Marnia Lazreg, Sul velo. Lettere aperte alle donne musulmane, il Saggiatore, Milano. A onor di cronaca, è bene ricordare che Concita De Gregorio e Nicla Vassallo hanno terminato di scrivere “La velata” nell’agosto del 2010.

In Europa si sta discutendo di quali limitazioni imporre a diritti e libertà al fine (non stupiamoci) di assicurare diritti e libertà. I valori sostenuti con la Rivoluzione francese – Liberté, Égalité, Fraternité – sebbene mai realmente concretizzati, vanno difesi, a rischio di cadere in contraddizione, di evidenziare qualcosa di irrazionale nel liberalismo, cosicché lo slogan pare nuovamente quello dei tempi di Maximilien de Robespierre: «Nessuna libertà per i nemici della libertà»… In Europa c’è chi ancora oggi nelle democrazie si arroga diritti divini, come nelle antiche monarchie; chi crede di essere proprio un antico sovrano, rivelando qualche patologia; chi intravvede eretici in ogni dove; chi si ostina a riferirsi a Istanbul, scambiandola per Bisanzio… Se, nel vero senso del termine, gli stati europei risultassero fondati sulla democrazia, la loro autorità dipenderebbe da noi cittadini, dalla nostra consapevolezza nella scelta dei nostri rappresentanti. Nella realtà, questi ultimi non finiscono col manipolarci grazie a teologie di vario tipo, a etiche e valori improvvisati, persino grazie all’utilizzo della sfera religiosa a scopi politici?

Certo, fa comodo giudicare inopportuna la presenza musulmana in Europa, fingere di contenere un’immigrazione di lavoratori di cui le nostre economie hanno invece necessità. L’insicurezza causata dalla presenza dello «straniero», nonché l’assillo in ognuno di noi nel preservare se stesso, categorizzato, oltre che in base al sesso, al genere di appartenenza, alla preferenza sessuale, alla classe sociale, alla cultura e all’età, altresì in base alla «razza» e alla fede, hanno creato tensioni di vario tipo con ripercussioni nell’ambito della libertà religiosa, del rispetto, della tolleranza… Benché l’Europa non si attesti più sinceramente cristiana di un tempo, benché non si dia chiarezza su dove termini il pubblico e inizi il privato, riemerge l’urgenza di affermare la neutralità della sfera pubblica rispetto alla libertà d’espressione della propria fede, qualunque essa sia.

Chissà cosa avrebbe pensato Karl Popper, convinto dell’esigenza di contenere la libertà individuale solo se necessario, convinto che il naso del prossimo determini una restrizione all’esercizio illimitato dei nostri pugni. Ovvio, non sussiste, nel concreto, una libertà assoluta, senza ostacoli e barriere. La nostra libertà è la facoltà di negoziare costantemente con l’individuo che ci sta di fronte, nella società in cui ci troviamo; si tratta di una libertà condizionata che si configura attraverso alternative date.

[Già!] Il velo scatena controversie apocalittiche. Assurge a simbolo ambiguo di autonomia, diritti, doveri, eguaglianza, ortodossia, religione, repressione, rivoluzione, politica, valori. Il velo viene vietato o denigrato sulla base di istanze femministe e maschiliste, cattoliche e secolariste. Come evidenzia Marnia Lazreg, la questione non si declina in termini meramente culturali, nel senso di un’opposizione tra cultura occidentale e un’altra cultura, perché rimane difficile individuare lo specifico dell’Occidente. Nel mentre, vediamo paesi (la Francia, in primis) che, incapaci di fare i conti con il proprio feroce passato colonialista, pretendono di rimuovere il problema rimuovendo il velo: «Il velo è contro i valori repubblicani». Da una parte si finisce così con lo stigmatizzare un gruppo di individui, agendo contro il valore liberal-democratico «repubblicano» che impone di salvaguardare le scelte individuali, dall’altra si giunge a bandire dai luoghi pubblici un simbolo religioso ritenuto tra i più cospicui ai fini del proselitismo. Cospicuo: tale da attrarre lo sguardo. Visibile, ragguardevole. Dunque, infine: eloquente dal punto di vista simbolico. Capace di esprimere altro da sé. Ma: quando un velo è, in questo senso, cospicuo? Lo è quello della Velata di Raffaello, lo è più o meno di un burqa, o parimenti? In effetti, chi non l’ha mai indossato intravvede un’immagine di sofferenza nelle donne che invece lo indossano. Del resto, il crocefisso ci restituisce un’idea di sofferenza ancor più esacerbata, la sofferenza della morte – Pier Paolo Pasolini l’ha colta bene nel Vangelo secondo Matteo. Non si tratta d’addentrarsi in tematiche delicate, quali quella di definirsi agnostici, atei, credenti, né di discutere delle insensate pretese universalistiche che avanzano i fanatici di qualche religione, né di canzonare il fatto che un unico simbolo (crocefisso o velo, sebbene il primo paia asessuato, mentre il secondo declinato al femminile) riesca a ergersi a emblema della complessità della fede e della spiritualità. Si tratta più semplicemente di comprendere il cospicuo. Il velo, ogni tipo di velo, è cospicuo, mentre il ciondolo-crocefisso non lo è mai?…

Alcuni simboli risultano soggetti al noto paradosso filosofico su quanti granelli di sabbia si richiedano per costituire un mucchio. Proviamo a contare da uno a novantanove; arriviamo fino a cento per dire: sì, cento granelli di sabbia costituiscono un mucchio! Può un solo granello, quello che abbiamo aggiunto a novantanove per giungere a cento, decretare la differenza tra ciò che è un mucchio e ciò che non lo è? Dal mucchio al velo: contiamo da uno a novantanove centimetri di stoffa, per arrivare a cento e dire: sì, cento centimetri di stoffa formano un velo cospicuo! Può un solo centimetro, quello che abbiamo aggiunto a novantanove per giungere a cento, decretare la differenza tra ciò che è un simbolo religioso e ciò che non lo è? Per di più, se alcuni simboli vengono indossati al fine di ostentare la propria appartenenza, ve ne sono altri indossati casualmente: occorrerebbe bandire pure questi ultimi, benché slegati da qualsiasi intenzione di provocare effetti di proselitismo? Oppure li provocano, pure in assenza dell’intenzione? E quanti altri simboli – religiosi, politici, etnici – usati impropriamente, inconsciamente nei nostri stadi, nelle nostre piazze a mo’ di sciarpe, portachiavi, cappelli, ornamenti, suonerie del telefono rimandano a mondi sconosciuti (o noti), e provocano emulazione, proselitismo per giunta svincolato dalla consapevolezza del gesto? Nessuna «crociata», in questo caso. Massima indulgenza. Ben altro scatena l’uso femminile del velo. Perché?… Ogni simbolo di qualsiasi appartenenza va posto in discussione? Perché non obbligare i sikh a eliminare i segni della loro fede: kangha (pettine per fissare la chioma sotto il turbante), kara (braccialetto), kacha (sottovesti allungate), kesh (barba e capelli lunghi), kirpan (spada cerimoniale)? Perché non vietare cappelli e lunghe ciocche a coloro che professano la religione ebraica? I tifosi delle diverse squadre di football che indossano per strada indumenti distintivi della propria fede calcistica non limitano la libertà degli appartenenti ad altre tifoserie nonché di chi si proclama calcisticamente agnostico? Chef, frati, infermieri, medici, magistrati, militari, poliziotti, preti, sportivi di ogni genere e grado, steward, suore, vigili del fuoco non fanno proselitismo, con le loro uniformi, simboli delle loro occupazioni? Ogni simbolo identitario è discriminante, assecondando alcuni individui, ostacolandone altri…

Vestirsi con un determinato capo: scelta personale? Meno di quanto s’immagini: il nostro ipotetico libero arbitrio viene posto in discussione da vari supposti determinismi – biologico, causale/fisico, psicologico, sociologico, teologico. Ma pure da altro. Oltre che da ragioni pratiche, l’abbigliamento può risultare dettato dal senso dell’estetica, della pudicizia, della sessualità. Il vestito si trasforma in messaggio delle proprie appartenenze, cosicché, per esempio, c’è chi ha già indossato un tight (a un matrimonio con la sposa obbligatoriamente in bianco), chi lo ha dovuto indossare per entrare all’ippodromo di Ascot, chi non ha avuto occasione d’indossarlo, chi non riuscirà mai a permettersi d’indossarlo. In Italia, una donna vestita da uomo (con un tight) viene oggi abitualmente notata (George Sand o Vita Sackville-West lo erano meno); lo stesso accade a un uomo vestito da donna, a meno che non si tratti di uno scozzese che col suo tartan dichiara l’appartenenza a un certo clan, al pari di una donna musulmana che col velo esprime un proprio legame. Rimane il fashion system (in proposito, torniamo a leggere Roland Barthes) con rigorosi standard: ad ascoltare alcune donne musulmane è proprio per evitare gli standard imposti alle donne occidentali che il velo rappresenta una scelta di libertà – quale logo si nasconda poi sotto il velo riusciremo a scoprirlo nel caso in cui avremo accesso alle case delle musulmane. Se per garantire tolleranza e armonia un qualunque stato si ritrova a vietare l’ostentazione, quindi il velo, non si capisce perché ciò non valga per altri simboli non religiosi, inclusi quelli del fashion system. Una società democratica, a favore di ogni tolleranza e armonia, dovrebbe per coerenza proibire lo sfoggio di ogni emblema d’appartenenza – culturale, di genere, economica, sessuale, sociale e via dicendo; in alternativa, dovrebbe saperli tollerare tutti.

20 pensieri su “ARRIVARE A CENTO: VASSALLO E DE GREGORIO SUL VELO (E ALTRO)

  1. La questione si pone coi musulmani e probabilmente non si porrebbe con altri ordini culturali o religiosi nel nostro paese. Non è un problema di segni distintivi ma paura dell’Islam.
    Esiste un timore radicato e alimentato ad hoc dall’estrema destra di “invasione culturale” per cui il velo, la moschea, il kebab eccetera diventano simboli del terreno conquistato dal “nemico” che secondo questa logica si insinua e ci ruba brani di identità e territorio rendendo irriconoscibile il nostro ambiente circostante.
    Il dibattito sul velo diventa in questa ottica un modo per rispondere a suon di diritto all’invasione, come per il crocifisso nelle aule si risponde a suon di religione all’interno di una battaglia culturale, quando di fatto prima il crocifisso in classe non era considerato per niente, come non lo è la foto del presidente…
    D’altro canto spesso esiste una reale disparità sociale tra noi e chi arriva, culturale e civile, i modelli e le idee sono molto distanti dai nostri costumi tanto da suscitare sconcerto.
    Bisogna urgentemente considerare l’uguaglianza e la parità come un terreno da coltivare indefessamente, creare sistemi istituzionali e locali per fare emergere i punti in comune con chi arriva, costruire una vicinanza da ottenere nella diversità, contrastando i bassi populismi e le paure che abbiamo nell’assistere ai cambiamenti.
    Assisto con stupore da anni ormai, alla mancanza di una voce dell’islam moderato che si faccia portavoce della maggioranza musulmana moderata in italia, anche nei media, che si faccia interprete di questo vasto mondo musulmano e dei suoi contrasti. Senza interlocutori culturali ci troviamo a fare per forza di tutta l’erba un fascio, a ritenere generale ogni caso che si affaccia alla ribalta della cronaca.
    D.

  2. Assolutamente daccordo. Sui principi e sulle conclusioni. Gli unici simboli (o capi d’abbigliamento) che uno stato di diritto dovrebbe proibire sono quelli che direttamente inducono o favoriscono un tipo di reato (ad esempio vietano il riconoscimento del volto durante manifestazioni pubbliche, o incitano alla violenza): quindi non in quanto simboli religiosi o identitari ma per la loro contiguità con comportamenti illegali.
    La soluzione francese mostra tutti i limiti di un laicismo che rappresenta la parte peggiore della modernità, non la sua essenza: azzerare culture e identità per manifesta incapacità di rapportarsi a ciò che nell’uomo sfugge a una declinazione puramente razionale.

  3. Non sono d’accordo sul fatto che la battaglia sul velo non si declina in termini culturali perché in occidente non si delinea una cultura di riferimento. La cultura di riferimento è il “noi” che si contrappone appena arrivano i “loro”.
    Se non esistono riferimenti istituzionali che frammentano il fronte del “noi” sciogliendo ti timori e ammortizzando l’impatto e le disuguaglianze, la cultura di riferimento che prima era variegata si consolida e nasce su basi di intolleranza e appartenenza contro il nemico.
    D.

  4. sì al velo, due volte sì.
    Oppure, tutti in jeans e maglietta, uomini e donne, che sarebbe anche comodo e economico. Piani quinquennali, fabbriche che producono solo jeans e magliette, in quantità da garantirne a ognuno secondo i suoi bisogni.

  5. L’islamofobia è in crescita e, per altro, rappresenta un islam tutto schiacciato su pozioni fondamentaliste, il che non è. E non sto usando il termine fondamentalista contrapposto a laico. Ci sono molte persone religiose e osservanti nient’affatto fondamentaliste – lo dimentichiamo sempre. Come sempre dimentichiamo l’esistenza di una vasta comunità mussulmana europea – da tempo immemore – dimorante nei balcani. Non tutto l’Islam usa il velo – così come i riccioli ai lati del volto (i peyotes) non sono rappresentativi di tutto l’ebraismo ortodosso ma solo di quello askenazita. Tornando sullo specifico del velo credo che ciascuna dovrebbe regolarsi come crede – metterselo quando e se desidera. Anche a giorni alterni, per dire, come ho visto fare ad alcune giovani donne di Sarajevo. E poi – ma questa è una mia perplessità personale – dipende anche un po’ dal tipo di velo. Ecco, io non credo sia proponibile che un’adolescente frequenti la scuola con il burka – non per intolleranza. Mi sembrerebbe di caricare una giovane di 12/13 anni di una battaglia che non è la sua, di farle portare un peso troppo greve nella relazione con i suoi coetanei. Detto per inciso, non tutti i teologi dell’Islam concordano sull’obbligo del velo – di qualunque velo – nella vita pubblica. Alcuni pensino sia necessario solo nelle moschee o quando si prega.

  6. Il vero problema del velo, secondo me, è arrivato con quello che copre il viso. In fondo anche le nostre nonne, neanche troppo tempo fa, uscivano di casa o andavano in chiesa senza scialle o fazzoletto in testa. Non era neanche quello il problema. Concordo molto con chi dice che il problema in realtà è l’ accettazione dell’ islam.
    Mi sentivo tanto progressista nel parlare con un’ amica che abitava in un quartiere ad alto tasso di emigrazione ad Amsterdam e mi raccontava di non essere riuscita a parlare a una donna completamente velata e con i guanti e gli occhiali da sole che le chiedeva qualcosa al supermercato. Un pregiudizio, mi dicevo. Fino a che non me le sono ritrovate io due donne-fantasma, faccia a faccia, per strada e non ho avvertito una sensazione viscerale di paura. Hai voglia a razionalizzarla, prima o dopo.
    E lo stesso disagio me lo procura vedere in giro, non le ragazzine puberi (e in realtà patisco anche per quelle) ma bambine di non più di 6-7 anni velate per strada e patisco vedere anche i loro padri, ragazzi più giovani di me, in djellaba, pantofole e zucchetto. Ti vesti così per andare in moschea, va bene. Ci si vestono gli anziani, pure. Ma un ventenne mi fa impressione.
    E anche questo razionalmente me lo so spiegare in tanti modi, ma tutti insoddisfacenti. Ben vengano quindi le discussioni.

  7. nei primi anni 90 ho collaborato con un centro di prima accoglienza, era il periodo dei primi ricongiungimenti familiari e arrivavano le prime donne immigrate, quelle con il velo le potevi contare sulla punta delle dita. Oggi dopo 20 anni mi capita di reincontrarle con quel velo che in marocco o in tunisia non avevano mai portato.

  8. L’emigrazione, e la maggiore o minore ghettizzazione culturale che ne conseguono, favoriscono il radicarsi del conservatorismo, anche di ritorno, come nota bene Claudio; e il fenomeno, tipico di tutte, o quasi tutte, le comunità di immigrati (facile il confronto se pensiamo agli italoamericani), nel caso degli immigrati dai paesi arabi è accentuato dai progressi del fondamentalismo. Io penso che, comunque la rigiriamo, il velo sia un simbolo della subordinazione delle donne, ma questa consapevolezza non posso imporla a nessuna, è la velata che deve conquistarsela.

  9. Sono d’accordissimo con claudio e, in parte, con paola. Non condivido il fatto che il velo sia comunque simbolo della subordinazione delle donne: può voler dire molte cose e, talvolta, è anche simbolo di ribellione (ricordo un esempio riportato da Olivier Roy: coppia di arabi non religiosi, migrati in Europa dove erano nate le figlie, le quali per testimoniare il loro disagio di fronte al culto del corpo e del consumismo occidentali, scelgono di indossare il velo, facendo disperare i genitori).
    Oggi l’Islam europeo viene identificato con il velo e questo è indicativo 1) della volontà di distinguere nettamente l’altro da noi 2) di semplificare l’altro riducendolo ai minimi termini 3) di darci un “noi” progredito e liberale di fronte a un “loro” retrogrado e opprimente 4) come ho già scritto qualche thread fa, c’è il fatto che dell’invasione abbiamo davvero paura, e questa paura la decliniamo così, sui capelli delle donne, perchè fa molto comodo. Il velo è diventato un simbolo dell’Islam per noi e poi, solo di conseguenza, per i musulmani e le musulmane. Per loro non era una questione propriamente religiosa, ma politica. Basti pensare, che ne so, a Forough Farrokhzad, grandissima femminista iraniana, che era pure una donna profondamente religiosa. L’idea che la religione sia qualcosa di oppressivo, da rifiutare, preferendogli l’ateismo o una spiritualità personale, senza canoni precostituiti e che solo così può essere liberatoria, è qualcosa che è nato in Occidente e che nel mondo musulmano, per quello che ne so, è molto molto raro.
    Il brano qui sopra non mi piace granché, a cominciare dal titolo del volume: “Lettera alle donne musulmane”. Che significa? Chi sono queste benedette “donne musulmane”?
    Il discorso è molto ampio e complesso e mi rendo conto di aver messo troppa carne al fuoco.

  10. non l’ hijab che lascia scoperto il viso , ma i veli integrali come il niqab (che lascia scoperti gli occhi) e il burka (che è uno strumento di tortura al pari del cilicio, a mio avviso),comunicano (almeno a me) delle cose ben precise: “non posso o non voglio mostrare il mio volto a un uomo che non è mio padre mio fratello o mio marito poichè appartengo a loro, rappresento il loro onore” (e non occorre dire cosa accade a chi “disonora” la famiglia) poi non dubito che ci sia chi se lo mette per protestare contro il consumismo, ma il significato originario è un altro. Credo poi sia bene ricordare che la narrazione dell’ “occidente consumista e magari decadente e corrotto”contrapposto alla presunta purezza, al rigore della civiltà islamica una purezza il cui peso ricade sopratutto sulle donne (che poi in realtà si dovrebbe parlare delle civiltà islamiche, al plurale) è falsa esattamente come “l’invasione islamica” e roba simile.
    Detto questo, non vieterei mai ad una donna adulta di portare il velo burka compreso se questo è il suo desiderio (andrebbe vietato solo in certi contesti lavorativi: se sei maestra è ovvio che non puoi fare lezione col velo integrale esattamente come non puoi farla in bikini) esattamente come non vieterei mai ad un numerario dell’opus dei di portare il cilicio nonostante non ami nè i veli integrali nè i cilici, ma questo nulla conta: le scelte individuali vanno rispettate sempre. Mi limito a sperare che i figli della donna col velo (o del numerario Opus Dei) possano fare scelte di vita diverse da quelle dei genitori senza rischiare di essere ripudiati o uccisi.
    Poi molto significativo quello che ha segnalato Adrianaaa, che nell’islam non c’è una vera cultura che veda l’ateismo positivamente ma non mancano forme di spiritualità particolari (sempre interne all’islam) come la mistica sufì che mi pare sia detestata dall’integralismo wahabita.
    Ricordo che sul sito del manifesto dialogai con un italiano convertito all’islam, gli chiesi cosa mi sarebbe successo se figlio di genitori musulmani osservanti, avessi scelto di abbandonare l’islam, mi è stato risposto che avrebbero dovuto cacciarmi di casa.

  11. Scusate ma qui si confondono i livelli. Nessuna religione vede di buon occhio gli atei… non è una prerogativa dell’Islam. Sono gli Stati che trattano i cittadini in modo eguale indipendentemente dalle loro credenze a fare la differenza. In genere poi le religioni sono più garantite da uno stato laico piuttosto che da uno confessionale. In via teorica anche un cattolico osservante dovrebbe cacciare di casa o riportare sulla retta via un figlio “deviante” o con uno stile di vita contrario alle leggi della Chiesa e di dio. Poi le persone non lo fanno. E non è che la maggioranza dei genitori di fede musulmana caccia di casa i figli o le figlie “infedeli”… Insomma stiamo attenti a distinguere.

  12. In realtà sono giunta alla conclusione che è praticamente impossibile affrontare il discorso senza cadere in dinamiche orientaliste o occidentaliste o entrambe. Questo perchè, come diceva giustamente Abdelmalek Sayyad, il discorso dull'”altro”, e in particolare il musulmano, è quasi imprescindibilmente un discorso morale. Non esistono storiografia, sociologia o antropologia che tengano. Tuttavia, c’è sempre un “quasi”, ed è a favore di quello, del discorso che sfugge a tutto questo, che bisogna lavorare.

  13. l problema è che tra noi qui nel forum non ci sono musulmani.
    Voglio dire che manca l’elemento di unione tra ‘noi’ classe media italiana e ‘loro’ immigrati appena arrivati, ovvero alcuni di ‘loro’ che vivono come ‘noi’ e diventino un ponte culturale.
    Finché non contribuiamo a sostenere la voce di una classe media di musulmani che condivida i nostri spazi famigliari e intimi ci rimarrà sempre la paura di un mondo estraneo, perché ancor di più che nella religione e nei costumi è un mare di gente estranea economicamente…
    Sono poveri, e noi dei poveri abbiamo più paura che dei musulmani. 🙂
    Se avessimo un musulmano che ci vende l’auto, uno che esce con nostro figlio, uno che ci fa la multa e uno che insegna a scuola, allora il velo diventerebbe un non-problema, perché sarebbe solo una componente del costume di qualcuno che riconosciamo uguale a noi a prescindere dal velo.
    Poi tra l’altro esiste la legge com’è che funziona, obbliga a farsi riconoscere quando siamo per strada, pertanto se non si infrange la legge si può circolare come si vuole in tutti i luoghi pubblici del territorio nazionale.
    D.

  14. “Nessuna religione vede di buon occhio gli atei… non è una prerogativa dell’Islam.”barbara
    Bè in effetti nemmeno Robespierre e Voltaire (che era deista) vedevano l’ateismo di buon occhio. Noi non credenti non siamo mai stati particolarmente simpatici

  15. @Adrianaaa, 😉 ero già grandicella nel 1978, e sono cosciente di quello che è stato definito (http://www.womenews.net/spip3/spip.php?article4907) il “dinamismo storico del velo”: per es., quando le donne iraniane lo indossavano nelle manifestazioni di piazza contro il regime poliziesco e autoritario dello Scià di Persia, gli attribuivano il significato di rivendicazione di un’identità culturale e nazionale, contro il superficiale occidentalismo del governo di allora; in seguito, però, lo stesso velo è stato loro imposto dalle nuove autorità politico religose dell’Iran, con lo stesso significato che esso aveva prevalentemente avuto in precedenza, ovvero, l’intento di normare i corpi delle donne ed i loro comportamenti da parte della cultura maschile dominante. Per quanto mi consta, attribuire il velo alle consuetidini diffuse e ritornanti nelle società del Vicino Oriente, non è una manifestazione di razzismo, ma la presa d’atto di un fenomeno storico. Mi spiego, offrendo alla vostra riflessione quello che so in proposito: le donne della corte del re di Persia, in età classica, sono rappresentate con capo e metà volto velate, mentre non lo sono le loro contemporanee del mondo greco; ciò non significa, ovviamente, che queste ultime non fossero ugualmente e/o altrimenti subordinate. Significa soltanto che nella società greca e romana il velo contraddistingue la sposa nel giorno delle nozze, mentre in tutto il resto della lor vita le donne potevano coprirsi il capo, con un lembo del mantello, oppure no, a seconda di come gli pareva in quel momento, senza dover sottostare a nessun tipo di prescrizione. La documentazione iconografica è sufficentemente esplicita in proposito; la stessa documentazione iconografica, in età imperiale, mostra l’uso del velo sul capo per le donne in ambito siro mesopotamico, almeno nelle classi elevate. E sul significato che aveva il velo sul capo delle donne nelle società del Vicino Oriene nel I secolo a.C., almeno in circostanze rituali, è sufficentemente esplicito il passo della lettera di Paolo di Tarso ai Corinzi (I, 11, 1-16), in cui alle donne viene prescritto senza eccezioni l’uso del velo durante le cerimonie (“ogni donna che prega o profetizza”), e che questo abbigliamento significasse la subordinazione della donna all’uomo è detto a chiare lettere: il passo sarebbe lungo da trascrivere, ma vale la pena di leggerlo. E badiamo bene che le donne in questione, potevano sì parlare autonomamente (“profetizzare”), ma sempre velate dovevano stare. Il passo ci dice implicitamente pure che alle donne delle coeve comunità cristiane questa imposizione non gli doveva stare tanto bene. Non so la storia del velo nel medioevo, ma so per certo che il velo con soggolo delle monache e delle suore altro non è che l’adozione dell’abbigliamento tipico delle donne maritate nell’Europa del XII secolo, che monache e suore indossavano una volta presi i voti. Solo che, mentre le altre donne, nei secoli successivi, abbandonarono felicemente velo e soggolo, arrivando a mostrare i decolleté, con grande scandalo dell’antenato di Dante (cito a memoria), le monache e le suore mantennero il castigato abbigliamento del XII secolo (e ci possiamo chiedere quanta influenza avesse avuto nell’adozione di questo abbigliamento il rapporto culturale con il Vicino Oriente, o no?). Ma è vero pure, per es., che le contadine egiziane non sono mai andate in giro con il viso velato, e a viso svelato andavano per lo più le donne beduine, quindi, anche dalla parte islamica del Mediterraneo la velatura del capo e del volto è stata abbastanza fluida, storicamente. Per i passi del Corano in materia sono troppo ignorante per tentarne un’esegesi, ma ne ho sentito parlare da donne islamiche e femministe che non usavano il velo. Ecco, interessa anche a me, come a te e a tante/i altre/i conoscere l’opinione delle donne di provenienza culturale islamica che si considerano femministe. E mi sembra che tante non rimpiangano il velo neppure nelle nuove connotazioni identitarie che altre vogliono attribuirgli, e con loro mi sento cordialmente sintonizzata.

  16. @paola: il fatto è che io proprio non vedo come tutta questa attenzione sul velo possa tornare a vantaggio delle donne. Davvero. A me sembra che sia un falso problema, su cui i progressisti di tutto il mondo amano grattarsi il capo perché é come un indovinello, qualcosa su cui ognuno può dire la sua perché tanto nessuno ne sa niente e comunque le dirette interessate non parlano quasi mai. Chi diamine sono queste “donne musulmane”? Il tuo messaggio è molto indicativo della difficoltà di rispondere a questa domanda. Citi l’iconografia sassanide, le contadine egiziane e alla fine tiri in ballo il Corano. E’ come se qualcuno, per spiegare il fatto che in Italia si mangia il pane, ne facesse discendere direttamente l’usanza dal Vangelo. La reputeresti una cosa sensata?
    Per la cronaca, poi, da quello che ne so i Sassanidi avevano preso l’usanza di velare (e segregare) le donne dalle tradizioni bizantine.

  17. @Adrianaa, mi scuso se non non sono stata sufficentente chiara, quando ho scritto “in età classica” intendevo, appunto, nel V secolo a.C., all’epoca, per intenderci, dei sovrani Persiani, degli Achemenidi, e non dei Sassanidi dei secoli d.C. Il breve excursus storico intendeva esemplificare, appunto, come l’usanza del velo sia evidentemente un’usanza di tradizione vicino orientale, e non esclusivamente islamica e che, semmai, Mohammed, o chi per lui ha mutuato questa usanza dai costumi dei popoli limitrofi. Il senso era questo, così come l’esempio dei costumi femminili dell’Europa del XII secolo, intendeva dimostrare la non sovrapponibilità tra velo e fede religiosa. Per i significati che il velo assume oggi nei diversi contesti collettivi e nelle esperienze individuali islamiche, invece, vista la polisemanticità del’oggetto, almeno quella intenzionale di chi lo indossa, preferisco ascoltare le dirette interessate, ma tutte, eh, anche quelle che lo hanno rifiutato 😉

  18. Sul fatto che sia un’usanza Vicino Orientale non ci piove, sono d’accordo. Però rimane in piedi la mia domanda: quali vantaggi possono avere le donne dal fare del velo un oggetto di contesa, di infiniti dibattiti e di provvedimenti normativi? A me pare proprio nessuno. Ipertrofizzare la questione portare il velo/non portare il velo mi pare non giovi assolutamente alle donne in generale, che siano musulmane o non musulmane. Pensiamo davvero che la questione dei generi debba venire monopolizzata da discorsi del genere? Scollatura sì/scollatura no, velo sì/velo no. E’ un modo per non affrontare questioni più importanti, che sarebbero davvero in grado di incidere sulla società.

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