Fragole e sangue (1970). Come si forma un pensiero nonviolento? Forse, prima ancora dello studio e dei saggi e dell’esempio, dalle storie e dalle immagini. Per esempio. Quel cerchio di studenti che battono le mani a terra, cantando Give peace a chance, prima di venir massacrati dalla polizia. Fermo immagine sulle mani alzate del protagonista, invisibile tra manganelli e lacrimogeni. Le note di The circle game di Joni Mitchell.
Il libro da cui è tratto il film di Stuart Hagmann è di James Simon Kunen, e lo ha pubblicato la benemerita Sur nella traduzione di Anna Rusconi e Carla Palmieri.
Qui, un frammento dell’introduzione dell’autore all’edizione del 1995, dal sito di Sur:
“In quanto giovani «radicali», ci consideravamo la coscienza del paese. Per noi la guerra in Vietnam era un delitto morale, non una questione politica, e reagivamo anzitutto in termini morali, più che politici. Grazie alla forza della nostra gioventù avremmo trovato il modo di strappare il paese alle grinfie della morte, di purificarlo, di rinnovarlo. Eravamo un «movimento» privo di linea politica e programmatica e a definirci era soprattutto la vita condivisa del campus, il fatto che milioni di noi si facessero le canne e ascoltassero i Beatles, l’essere contrari alla guerra. Oggi quella guerra è finita da tempo e noi abitiamo mondi privati.
Ciononostante quando mi ritrovo a parlare con i miei vecchi amici «radicali», la cui vita però di radicale ha ormai ben poco, noto che i nostri valori di fondo non sono cambiati granché. Lo scivolamento a destra del paese ci lascia sgomenti e inorridiamo di fronte ai drastici tagli alle politiche sociali. Perché allora non ci facciamo sentire? Perché non siamo in piazza a protestare?
Paradossalmente, da diciottenni che ancora non andavano a votare ci sentivamo di gran lunga più responsabili delle azioni del nostro paese di quanto non ci accada oggi. Prendevamo le cose in modo più personale. Ci sembrava che a bombardare il Vietnam fossimo noi, che fossimo noi a permettere che i meno ammanicati della nostra generazione andassero laggiù a morire. Oggi diciamo che sono i repubblicani ad aver dichiarato una guerra senza quartiere ai poveri e agli inermi.
Non crediamo più di poter ricostruire il mondo. Anzi, ci adattiamo e ci andiamo coi piedi di piombo, perché abbiamo molto di più da perdere: abbiamo le nostre carriere. Negli anni Sessanta del boom economico, viceversa, la preoccupazione principale dei giovani benestanti era come evitare di fare carriera. La carriera era parte integrante del Sistema, all’interno del quale successo e sfruttamento, lavoro e guerra erano inestricabilmente legati. («Studia! Lavora! Fai strada! Uccidi!», urlavamo ai cortei.) Oltretutto intraprendere una carriera significava accettare le costrizioni dell’età adulta. Io pensavo che evitando di sistemarmi sarei rimasto giovane per sempre. Mi sbagliavo. Che indossi una cravatta o no, invecchi comunque.
Da «ragazzo», qualifica che ci applicavamo fino alla soglia dei trenta, dichiaravo la mia profonda avversione per la ricchezza. Io, dicevo, volevo solo crescere i miei figli in una casa decorosa e potermi permettere qualche settimana al mare. Proprio come adesso, solo che ho imparato che anche obiettivi tanto modesti richiedono una disponibilità di mezzi enorme. Difficile abbandonare il materialismo quando è il materialismo ad abbandonare te.
L’istinto borghese (subliminale, incrollabile) a «diventare qualcuno» e a fare qualcosa per la società ci ha portati quasi tutti sulla strada dell’Establishment; una volta lo chiamavamo vendersi. Ci piace pensare che, grazie alle nostre carriere, oggi possiamo agire secondo certi principi in modo più efficace di quanto non ci fosse dato da studenti. Cerchiamo contemporaneamente di fare bene e di fare strada.
Intanto c’è gente che dorme sotto i ponti. E lo sappiamo, che dovremmo trovare il tempo e il coraggio di risolvere il problema. (Cose da fare oggi: chiamare assicuratore, fare versamento per fondo pensione, abbattere lo stato.)
Se non altro abbiamo un passato da tenere alto. Abbiamo contribuito a far finire una guerra, cosa che ancora oggi trattiene il nostro paese dal lanciarsi in nuovi conflitti. È bello sapere che un tempo abbiamo difeso ciò in cui credevamo – ma questo, lo impariamo tirando avanti, non succede ogni giorno”.
Sono passati quasi trent’anni.