BOLLE

Nei videogiochi e nei fumetti accade spesso che alcuni personaggi appaiano rinchiusi in una sfera. A volte per dare veste grafica al loro potere di attacco: ma, molto più spesso, la bolla è una sorta di barriera nella quale gli sfera-muniti si chiudono per evitare di essere a loro volta attaccati.
Non so voi: ma a me, complice forse il cambio di stagione, si visualizzano ultimamente un buon numero di bolle, galleggianti come si conviene nel vuoto cosmico.
Per esempio. Su Il Riformista di ieri c’è una messe di discussioni su: critica letteraria – e non solo, figura, ascesa, e in assoluto funzione dell’editor, fine della "bibliodiversità", complicità fra critico e case editrici, solitudine e laicità del critico medesimo, eventuale amicizia del recensore con il recensito, giovani scrittori. E molto altro.
Non so voi: ma a me, complice forse una certa stanchezza, resta la curiosa sensazione che, mentre si discute, fuori dalla bolla continuino ad accadere cose che evidentemente non sono ritenute importanti.
Ma la colpa è certamente della sottoscritta. Per emendare, vi allego il pdf della discussione: sicuramente saprete trovarci molto più di quel che ci ho trovato io.
Download 2802rifo_04058271297be5e3d37cc45ae87c61576148fd5b4.pdf

29 pensieri su “BOLLE

  1. okay, fuori della bolla ci sono due memorabili stroncature (agli ultimi libri di Citati e Calasso) da parte di Un Barilli in forma srepitosa!

  2. Ho letto con grande interesse l’articolo della Benedetti sugli “editor” (www.ilprimoamore.com )e la risposta di Parente nel sito da te segnalato.
    Spero avrai apprezzato anche tu il mio commento alla tua indignazione per il taglio a “Guerra e pace” (che oggi – fatto alla radice – si chiamerebbe, appunto, editing):-/

  3. Grazie per il lenzuolo.
    D’accordo con La Porta, Roma è troppo piccola per così tanta gente, lo era già trent’anni fa. Potrebbero andare ad abitare altrove, respirerebbero.
    Non ho invece capito Parente, perchè si rivolge alla Benedetti? Sarebbe stato meglio rivolgersi al lettore, per dargli l’impressione che il dibattito sia aerato.
    Il resto non l’ho letto.

  4. Mi scuso per l’ingenuità, vedo adesso che Benedetti si rivolge a Parente chiamandolo caro Massimiliano.
    però l’obiezione resta, parlassero a noi…

  5. Loredana, ti cito: “Lanciare una bella ***invettiva*** contro Harper&Collins per il cosiddetto taglio di Guerra e Pace e in difesa dell’intoccabilità dei classici.”
    Vabbè, poi soprassiedi, ma, se non sono del tutto tonto, ***invettiva*** è diversa da ***complimento***.

  6. Lucio, era evidentemente un malriuscito tentativo di fare del sarcasmo, il mio.
    Dovrei fare cose più serie (che altri ritengono più serie) e invece mi occupo di quisquilie (che per me non sono tali).
    Non ci provo più, ok.

  7. non capisco: come si può ridurre una professione al suo proprio rischio professionale? cioè: fare editing ha come suo rischio specifico lo snaturamento del testo che si edita. ma questo è il rischio non la natura dell’editing. ciò che la benedetti e parente stanno dicendo è pura ideologia. di mestiere faccio l’editor e credo di poter dire che nel 99% dei casi, l’editing dei testi – a conti fatti -faccia bene ai testi poiché viene condotto SECONDO la natura del testo e non CONTRO la natura del testo. non mi dilungo, ma devo dire che leggere questi articoli mi ha demoralizzata. siamo ancora a questo punto del dibattito? l’editor è un mostro cattivo che – alternativamente – assume il volto dell’incolto incapace di capire l’arte e servo del padrone (o del mercato) o un rapace profittatore che non vede l’ora di scalzare l’Autore dal suo piedistallo per usurparne il posto? che perroni abbia fatto un peccato mortale a mettere sullo stesso piano la sua professione di editor e la sua produzione di scrittore, sono pronta a sottoscriverlo, ma che questa sia una confusione da attribuire tout court alla natura del lavoro di editor e a tutti gli editor in quanto tali è – appunto – ideologico, falso e anche molto molto da ignoranti (nel senso etimologico del termine, e non nella sua accezione di insulto, ovviamente).

  8. Riassumendo: non ti frega nulla o non trovi nulla di male nel fatto che di *Guerra e Pace* venga fatta uscire una versione light (tipo i grandi romanzi compattati del Reader’s Digest d’antan), purché l’operazione sia dichiarata. Ho capito giusto?
    Il problema da me messo a fuoco, cmq, era questo: dei capolavori del passato ogni lettere può scegliere tra versione light e versione heavy; di molte opere del presente, grazie a un editing in certi casi tutt’altro che light, nessun lettore potrà mai verificare alcuna versione originaria.

  9. Signora Lipperini, deve essere successo qualcosa nel momento in cui ha copiato e incollato il link in calce al suo post. Cliccandolo, mi aspettavo di ritrovarmi di fronte alle pagine del quotidiano “Il Riformista”, e invece è comparsa una parodia di discussione tra Carla Benedetti e Massimiliano Parente, le cui posizioni sono esagerate ed esasperate con intento satirico, in un modo giocoso che ricorda molto il vecchio blog VMO, tenuto dai misteriosi cagliaritani “Vincenzo Maria Ostuni” e “Basile Pesaro Borgna”. Potrebbe cortesemente fornire il link alla VERA discussione svoltasi su “Il Riformista”? Grazie.

  10. Ok provo a raccontare la mia esperienza personale, nella speranza di aiutare a diradare alcune nebbie che circondano il mondo dell’editoria (anche se so che in genere i tentativi di diradare nebbie generano catastrofi molto peggiori di quelle che si intendono evitare).
    Essendo diciamo poco sistematico in tutte le articolazioni della mia esistenza, sarò asistematico e “impressionistico” anche in queste mie osservazioni.
    Prima di tutto mi sento molto nominalista*, poco propenso cioè ad appoggiare la turpe tendenza alla creazione di enti (in genere collettivi) che dovrebbero identificare delle specie (l’editor, l’autore, il critico). Sono contrario a questa cosa perché le vicende professionali e umane di tutte le persone che ho incontrato nel mio lavoro sono talmente uniche che fanno sì che sia assolutamente fuori luogo il tentativo o la speranza di inquadrarle in stereotipi. Gli stereotipi e le generalizzazioni servono di solito – a quanto mi risulta – a creare un indifferenziato e stolido “loro” a cui contrapporre la propria fulgida e incorrotta soggettività. Naturalmente con questo non voglio tagliare alla radice la possibilità di discutere e o di criticare autori, critici ed editor, Ma resto dell’idea che esistono nomi, storie individuali e – soprattutto – rispetto nei confronti delle soggettività con cui ciascuno di noi ha a che fare quotidianamente, Le generalizzazioni mi puzzano sempre di quell’artificio bassamente retorico che consiste nella creazione della “gente”, immancabilmente una massa, un po’ (spesso parecchio) ottusa, melmoso guazzabuglio indistinto a cui chi scrive (o parla) di solito “nobilmente” o “coraggiosamente” si oppone. Trovo tutto ciò scorretto da un punto di vista anche semplicemente delle regole di un dibattito e – quel che è peggio – mi pare che da una operazione del genere emani un notevole sentore di aristocraticismo, di esclusione, di gerarchia, di casta. Roba fondamentalmente poco (eufemismo) democratica.
    Allora la mia esperienza personale è stata di avere lavorato (soprattutto) in passato quasi esclusivamente con autori stranieri, cosa che da un lato mi ha fatto svolgere un lavoro ben distante da quello dell’”editor-che-farebbe-l’editing”, e dall’altro mi ha dato la fantastica opportunità di conoscere editors e autori stranieri e di entrare nel loro laboratorio per vedere come lavoravano. Solo da relativamente poco ho cominciato a occuparmi più direttamente di autori italiani.
    Il modo in cui – assai vagamente e spannometricamente – concepisco il mio lavoro con gli autori è questo:
    1) La voce, la voce.
    Ogni autore ha la sua che trapela, balbetta, pigola, ulula nelle pagine scritte. Per me è fondamentale fare in modo che il libro parli solo con quella voce, la renda più esplicita, più articolata, crei la sua lingua e il suo universo. Probabilmente potrei sostituire il termine “voce”, con “linguaggio” e “universo”. Molto più probabilmente ciò cui mi riferisco è un grumo indistinto che parla con una certa voce, che racconta un certo mondo e ha una certa lingua. Tanto per fare un nome e per capire di cosa sto blaterando: un autore con cui ho avuto e ho la fortuna di aver a che fare e che secondo me ha una sua straordinariamente forte voce/universo/lingua è il “Maestro di color che sanno e anche di parecchi che non sanno”, c’est à dire Filippo Scòzzari.
    L’unicità è il Graal che cerchiamo, insomma.
    Questo con buona pace di chi viene a dire che la funzione dell’editor sarebbe quella di appiattire, omogeneizzare, omologare e via discorrendo, Sarebbe un editor davvero poco professionale (e pure parecchio autolesionista) quello che facesse il contrario. Con il numero impressionante di titoli che escono ogni anno, la necessità che si avverte sempre più forte è quella di sottolineare, di esaltare le differenze, non certo di spianarle e di annullarle.
    2) L’editor è il lettore più malevolo e malvagio che l’autore possa avere. Dopo le mie obiezioni, rotture di scatole, pulci e contropulci, per l’autore la vita dovrebbe (dovrebbe) essere in discesa, il peggio dovrebbe essere alle spalle.
    Naturalmente come tutte le regole, queste sono regole per così dire, piene di eccezioni, di adattamenti e di stravolgimenti. Ci sono autori con cui parli lungamente prima che si mettano a scrivere e che poi a un anno, un anno e mezza di distanza, come per magia ti fanno arrivare sulla mail un cybermanoscritto già impeccabile. Ci sono autori con cui il corpo e corpo è quotidiano. Ci sono autori con cui non c’è nulla di tutto ciò.
    Scusate (lo intendo davvero) la prolissità, la rozzezza e il disordine, ma ci tenevo a dare degli elementi – come di dice oggidì – di “concretezza” a un dibattito impostato su “Il riformista” in modo parecchio astratto (understatement).
    Che Dio mi protegga.
    * Nominalism (Latin nominalis,”of or pertaining to names”), in medieval Scholastic philosophy, doctrine stating that abstractions, known as universals, are without essential or substantive reality, and that only individual objects have real existence

  11. Ringrazio di cuore Edoardo Brugnatelli e PaolaB per quanto hanno scritto.
    In particolare, molta della stanchezza che segnalavo nel post riguarda esattamente le generalizzazioni di cui, mi pare, si sta abusando un po’ ovunque negli ultimi tempi.
    Ps. Mi auguro che anche altri editor abbiano voglia di dire la loro sul punto.

  12. intanto una premessa “nominalitica”: mi è venuto in mente un triangolo connotativo legato a tre (anzi 2+1) parole che rimandano all’oggetto del post: Lordana, tu usi la parola “bolla” ma il link porta al termine di Wiki “monade”. Ora “bolla” sa di fragilità e trasparenza e breve durata. Monade – termine filosofico – sarà pure una sfera dura e senza accessi, ma rimanda ad una tradizione di relazioni tra monadi che possono essere sostanza della realtà.
    Più grezzamente l’editoria della comunicazione nel suo complesso riguardo alle questioni discusse (come si fa/interpreta un libro) parla di “nicchia” (e questo il terzo termine che aggiungo io). Nicchia rimanda a luogo piccolo, ad angolo o “vicolo cieco” entro cui finisce chi è sconfitto si rifugia o si nasconde. E tutte le questioni che riguardano la lettura in italia sono considerate per antonomasia “di nicchia”.
    Ci vorebbe un ripensamento su come addetti ai lavori – giornalisti prima di tutto- affrontano il problema – e poi editori e autori.
    Insomma ci vorrebbe un bell’intervento di editing al modo di porre la questione..uscire dalla nicchia. Aria…

  13. E’ chiaro che c’è caso e caso e le generalizzazioni non fanno bene all’analisi di una questione. Però vorrei spezzare una lancia a favore di Carla Benedetti. La sua generalizzazione non mi sembra tanto del tipo: tutti gli editor sono cattivi, l’editing è il male – ma semmai: alcuni editor si comportano così, e sono sempre di più. La generalizzazione, insomma, serve a registrare una “tendenza”, un uso che va allargandosi, e a lanciare un allarme. E l’allarme, di per sé, cioè per essere efficace, ‘allarmante’, deve essere un po’ gridato. Chessò, frasi del tipo: gli americani sono sempre più grassi, oppure: insegnanti sempre più frustrati e impotenti. E’ chiaro che John è obeso e Ann è anoressica, che Bill mangia burro di arachidi e Anthony fa jogging ogni giorno, ma la generalizzazione qui fa parte, diciamo, della retorica dell’allarme, e indica appunto una tendenza, non tutti gli americani, ma neanche singoli casi, bensì una fetta sempre più larga, e una consuetudine sempre più diffusa. Certo, il discorso della Benedetti è impostato ideologicamente e retoricamente, ma non mi sembra del tutto peregrino. E’ evidente che si possono portare all’infinito esempi contro ma anche molti esempi a favore del discorso Benedetti-Parenti, ma sarebbe comportarsi come Beppe Grillo qualche anno fa, che portava l’esempio di alcuni studiosi che avevano scoperto scheletri di uomini morti a ottant’anni con un tumore adosso: è un caso, certo, ma di qui a provare che di tumore non si muore, o che non il cancro non sia una malattia che vada debellata, ne passa…

  14. va bene lippa
    sempre questa tua aria di sufficenza. Accennare, mai prendere posizioni nette, ma va bene.
    il tuo eccetera…

  15. Mi limito a fornire la mia testimonianza personale, da soggetto che l’editing lo “subisce”. Mi è capitato di farmi editare due volte da due editor(s) diversi per due diverse case editrici, e posso dire che:
    1. Ho messo la parola “subire” fra virgolette perché in effetti l’editing non l’ho affatto subito. è stato un processo basato sul dialogo. Nel primo caso l’editor proponeva, io leggevo le sue note a margine e poi discutevamo per telefono. Nel secondo caso stessa cosa, solo che si è usato internet e non il telefono. In entrambi i casi il final cut l’ho avuto sempre io, e non perché io sia uno scassaballe professionista, ma solo perché la regola è questa.
    2. Non ho trovato l’editing invasivo né improntato a stravolgere lo stile dell’autore. La prima volta che vedi gli interventi di un altro sulla tua pagina fa un po’ effetto, non dico di no, ma a ben guardare ti accorgi che è più un effetto ottico che altro.
    3. Alla fine l’editing ha giovato molto e colgo l’occasione per ringraziare i due editor (di cui non cito il nome solo perché magari a loro non va) con tutti i miei sentimenti.
    Che poi io abbia avuto fortuna a beccare quelli giusti può anche essere, ma intanto così è. Scusate la forma precaria, ma il testo non è editato.

  16. Guglielmo, mi sembra evidente che Benedetti e Parente si riferiscono a
    d
    un circuito prevalentemente dindustriale. In ogni caso il tuo caso non c’entra con il loro ragionamento, e non giustifica che un editor si vanti di essere l’editor di “libri di successo” senza che questo includa un’accezione necessariamente positiva alla parola “successo” e senza che questo non presupponga un’autorialità dell’editor. Il discorso di Carla Benedetti e Massimiliano Parente mi sembra tanto chiaro quanto frainteso.

  17. orpo, actarus, invece a me sembrava proprio di aver capito benissimo. mi sembrava di essere uno di quei nuovi scrittorelli remissivi che Benedetti reputa il frutto di malintese ideologie collettive. avevo per giunta l’impressione di poter essere annoverato fra quelle gallinelle stile libero e americanini di plastica che Parente vede allevati ovunque in batteria. e mi sembrava pure che portare la mia (per carità personalissima) esperienza potesse aiutare a far capire come funzionano le cose dal di dentro (perché gli editor che mi hanno seguito non penso cambino sistema con altri scrittori). scioccamente pensavo anch’io di essere parte di quel circuito industriale di cui si parlava, e non essendomi mai avveduto di editor infingardi che armeggiavano nella mia “scatola nera dell’ideazione”, come dice ancora Benedetti e qualsiasi cosa possa voler dire, mi pareva giusto dirlo. Epperò certo io non sono né un autore stravenduto di cui qualche editor possa mai vantarsi, né uno di quegli ormai rari scrittori giganti che si battono impetuosi per salvare ogni riga, come Proust, Faulkner ecc. Mi pareva insomma che se di qualche male l’editoria soffra, e se il problema di rendere vendibile masticabile e digeribile il prodotto libro a scapito della sua intrinseca qualità pure esista, questo proprio non c’entri granché con gli editor. Anche se poi uno di loro, magari a sproposito, fa sfoggio di orgoglio professionale sulla bandella d’un suo libro dando così la stura al dibattitone sull’autorialità dell’editor, della quale, invero poco mi cale essendo io remissivo ecc ecc. Mi scuso dunque per aver capito male e mi ritiro.

  18. Ribadisco: il due “fari” del quotidiano – Citati e Calasso – sono stati impallinati da Renato Barilli su Immaginazione. Evviva! Fuori dalla bolla (dalle logiche di scambio) qualcosa succede…

  19. Donnavidens: personalmente, a me non interessa la dimensione di chi pubblica. Non mi pare di aver mai fatto discriminazioni fra editori piccoli e grandi (su questo, scusami, ma mi scaldo e respingo l’accusa-se di accusa si tratta- al mittente). Il punto è la parola che hai usato, “buoni”: comprendo la necessità di tirare su la famigerata rassegna stampa di cui parli. Ma questo, almeno per quanto riguarda la sottoscritta, non può avvenire se si prescinde dalla qualità. Devo ancora una volta concordare con Francesco Forlani che, in un suo intervento torinese di quasi un anno fa, ribadì fra la corale indignazione che molto spesso sono i piccoli editori, da cui ci si attenderebbe ricerca, a pubblicare titoli decisamente scadenti. E qui sto generalizzando io, e me ne scuso con chi fa eccezione.
    Per il commentatore che si firma “Radio3” (ohibò): chiedo venia se ho dato l’impressione di una spocchia che non credo di possedere. Non disprezzo la discussione in atto: non la ritengo- per la mia visione contingente- prioritaria. Ma posso sbagliarmi. E non mi pare di non aver preso posizione.

  20. Cara Loredana,
    probabilmente non sono riuscita ad esprimermi bene: la macchina editoriale sfianca.
    1) Ovviamente non mi rivolgo a te quando faccio quel distinguo di dimensioni. Ovviamente. era però una constatazione e non una fantasia: provare per credere.
    2) Il “non necessariamente buoni” significa esattamente quello che dici tu: non tutti i piccoli sono buoni e questa secondo me è un’altra generalizzazione della “bolla”.
    Ovviamente io ritengo le case editrici per cui lavoro buone e serie.
    Abbi pazienza: ma ogni tanto si è stanchi e acidi.

  21. nel primo paragrafo del testo “scrittura assistita” di Benedetti compare la seguente frase: “L’editore respinse il volume e Proust lo pubblicò a sue spese”.
    mi pare che la faccenda potrebbe chiudersi qui.
    Tutta la discussione che segue, circa il fatto che l’arte scrittoria sarebbe sempre più sotto scacco da parte del demone del mercato che agisce tramite alcuni editor compiacenti, è destituita di fondamento da quella semplice frase.
    Se già ai primi del novecento uno dei più grandi di sempre poteva essere bellamente disconosciuto dall’editoria tutta tanto da doversi pagare la pubblicazione, non c’è peggioramento che tenga. La cattiva editoria c’è sempre stata, come la buona, come la media, la mediocre, l’eccellente, la discreta, l’eccelsa, la furba, la pessima e la volgare. De gustibus, dato che dalla letteratura non dipende né la verità né la salvezza (non dipende niente, per la precisione).
    Evocare demoni (ad es. il mercato, come fosse una “cosa” univoca e chiara) è la scorciatoia tipica di chi si rifiuta pervicacemente di ragionare sulle distinzioni, preferendo superstizioni, enti in sé, fantasmi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto